Supplier Management

Procurement Data Driven: verso il source to pay sfruttando l’intelligenza sui dati

Anche il tema del supplier management si sposa bene con l’approccio data driven decision making: scegliere le strategie da adottare e investire nelle leve che creano valore aggiunto è una decisione complicata e complessa, e solo se supportata dalle giuste informazioni può comportare un rischio minore

Pubblicato il 16 Set 2019

Anna Bergamini

Senior Consultant, P4I-Partners4Innovation

Giuseppe Di Sessa

Senior Consultant, P4I-Partners4Innovation

procurement data driven

Perchè parliamo di Data Driven Procurement? Oggi, per costruire fondamenta solide sulle quali edificare la complessa struttura del percorso di cambiamento e digitalizzazione degli Acquisti è necessario anzitutto sviluppare una “data driven organization”, ossia un’organizzazione che valorizza i suoi dati e li utilizza a tutto tondo per diventare più efficace ed efficiente.

È questo quindi il primo passaggio del percorso delineato nel nostro articolo “Supplier Management: qual è il ruolo dell’ufficio Acquisti nei processi d’innovazione digitale?”, con cui abbiamo inaugurato un ciclo di uscite focalizzate sull’aggiornamento del ruolo dell’ufficio Acquisti.

In sintesi, per raggiungere sviluppare un procurement data driven è indispensabile:

  1. generare una grande mole di informazioni accurate e tempestive riguardo le attività svolte, virtualizzando l’intero processo source-to-pay;
  2. utilizzare le informazioni generate per alimentare processi decisionali data-driven, tramite cruscotti di business intelligence integrati con il processo digitalizzato.

Ecco di seguito come farlo.

1. Virtualizzare il processo source-to-pay

I progetti orientati alla digitalizzazione del ciclo passivo sono presenti in molte imprese, soprattutto nelle più grandi e strutturate. Spesso, tuttavia, questi progetti si limitano a supportare un numero esiguo di relazioni, tipicamente caratterizzate da rilevanza e ricorsività elevate (per esempio, quelle continuative esistenti tra produzione e grande distribuzione). Il beneficio che deriva da queste esperienze è talmente rilevante da spingere a far confluire il maggior numero di relazioni di business su questa “dorsale” digitale di riferimento. Non sempre, però, questo avviene con risultati all’altezza delle aspettative. Per virtualizzare queste relazioni, le imprese tipicamente ricorrono a tre “strumenti” tra loro fortemente complementari:

  1. sistemi OCR (Optical Character Recognition) connessi a software di IDC (Intelligent Data Capturing), per la gestione dei documenti (DDT, Fatture, ecc.) ricevuti in formato cartaceo oppure elettronico non strutturato;
  2. portali B2B, in cui un cliente chiede ai propri fornitori (di solito più piccoli) di caricare la propria documentazione;
  3. canali EDI (Electronic Data Interchange), abilitati soprattutto a supporto di relazioni continuative nel tempo tra partner di business consolidati.

Questi strumenti sono destinati a subire notevoli evoluzioni a valle del recente obbligo di fatturazione elettronica tra privati.

OCR e IDC: un ruolo destinato a cambiare

Per quanto riguarda i canali OCR+IDC, molto probabilmente questi andranno rapidamente a esaurire il proprio ruolo sulle fatture: al netto di quelle emesse dai soggetti in regime forfettario o delle fatture provenienti dall’estero, le fatture non in formato XML non possono essere considerate documenti fiscalmente rilavanti. Tuttavia, questa tecnologia non andrà a sparire e, anzi, mostrerà il proprio valore nella gestione di altri documenti: per esempio, i documenti di trasporto per la consegna delle merci, non ancora digitalizzati ma a pieno titolo appartenenti al ciclo del source-to-pay.

Anche i portali B2B, ragionevolmente, risentiranno dell’avvento dell’obbligo. I portali per la raccolta delle fatture emesse dai fornitori potrebbero evolvere in hub per ricevere direttamente dallo SdI le fatture, e poterle poi integrare nei propri sistemi. In qualche caso, dove già era presente un modello di “autofatturazione” (è il cliente a proporre al fornitore la Fattura che deve ricevere sulla base delle informazioni in proprio possesso), al portale è stata affiancata la possibilità, per i fornitori, di produrre l’XML della Fattura.

Infine, laddove fornitore e cliente sono connessi via EDI, la fatturazione elettronica diventerà uno strumento per facilitare la diffusione tra i fornitori più piccoli. In effetti, così come è stata pensata e obbligata, segue le logiche del mondo “EDI”, in quanto prevede lo scambio di file in formato elettronico strutturato, direttamente elaborabili dai Sistemi. Per gli affezionati utenti del mondo EDI (non pochi e in media molto soddisfatti), l’avvento dell’obbligo di fatturazione elettronica non può che rappresentare lo stimolo all’attivazione di molteplici fornitori che nel passato non sono stati integrati, aumentando la diffusione di queste consolidate ed efficaci modalità di relazione digitale.

Gli standard da adottare: che cosa aspettarsi e il ruolo di UBL PEPPOL

Dalla diffusione della Fatturazione Elettronica, quindi è lecito attendersi un’analoga diffusione delle tipiche tematiche legate al tema EDI, in particolare con riferimento alla scelta degli “standard” da adottare. E anche su questo fronte, non mancano interessanti novità.

Gli standard sono i linguaggi e le modalità di “conversazione” che le imprese adottano per consentire ai rispettivi Sistemi di essere integrati. Il tracciato XML_Fattura, per esempio, è lo standard per le Fatture Elettroniche. Plausibilmente, tuttavia, non sarà questo il linguaggio che si estenderà anche su Ordini, Conferme d’Ordini, DDT, ecc.

In primo luogo, perché non servono “nuovi standard”: ce ne sono già tanti e alcuni di questi funzionano e assai bene.

In secondo luogo, perché l’Europa ha già individuato gli standard su cui andrà a crescere: ne sono stati scelti 2 e tra questi, attualmente, uno sembrerebbe effettivamente molto più “di prospettiva” dell’altro. Si tratta dell’UBL sviluppato nell’ambito del progetto europeo PEPPOL (Pan European Public Procurement On Line). Alcuni Paesi EU hanno scelto questo standard come proprio riferimento (di recente, anche la Germania e vale la pena citare, fuori EU, Singapore) e qualcuno lo ha addirittura già adottato (tra i vari Paesi, anche la “nostra” Emilia Romagna, che ha obbligato l’uso di Ordini, DDT e Fatture elettroniche PEPPOL per tutti gli acquisti fatti da Sanità regionale e Regione già dal 2014). Lo stesso SdI da Aprile 2019 riceve e gestisce Fatture Elettroniche in UBL PEPPOL (è stato l’obiettivo del progetto eIGOR – eInvoicing GO Regional – progetto nazionale finanziato dalla Commissione Europea per abilitare il sistema di fatturazione elettronica italiano allo scambio di fatture conformi allo standard comune europeo). Nel frattempo, a gestire il documento Ordine in PEPPOL ci ha pensato il progetto NSO (Nodo Smistamento Ordini), previsto in rilascio per ottobre 2019 e con cui gli Enti Pubblici del nostro paese dovranno inviare i propri ordini a tutti i loro fornitori.

In questo crescendo Rossiniano di iniziative digitali, UBL PEPPOL ricopre un ruolo centrale e strategico, e per questo motivo potrebbe diventare uno dei più diffusi standard per lo scambio in formato elettronico strutturato in tutta Europa dei documenti del ciclo dell’Ordine (fattura compresa!).

Insomma, a guardare bene il set degli strumenti e degli orientamenti (più o meno forti) normativi oggi disponibili o in ultimazione, la digitalizzazione nel ciclo dell’ordine è destinata a diffondersi largamente. È lecito quindi immaginare un “tessuto digitale” nelle relazioni B2B, costituito dallo scambio di tutti i documenti del ciclo dell’ordine (per “figurarcelo” non dovremmo pensare a documenti scambiati, ma a messaggi che si susseguono all’interno di un flusso di dati), affiancato da applicazioni Mobile per la raccolta di esiti di consegna e/o monitoraggio delle spedizioni e/o dei pagamenti, ecc.

Questo crescente fronte digitale porterà inevitabilmente con sé anche cambiamenti organizzativi: la centralità di documenti e archivi, nei processi “amministrativi”, sarà avvicinata – e forse superata – dalla centralità del dato e dell’informazione, con la conseguente adozione di nuove prassi e procedure di gestione, probabilmente anche molto diverse da quelli attualmente esistenti.

2. Instaurare nel Procurement una cultura di data-driven-decision-making

Con lo spostamento dell’attività dell’ufficio acquisti verso mansioni sempre più strategiche è decisivo comprendere per tempo e con un basso grado di incertezza quale possa essere la giusta direzione da intraprendere. Come tanti altri, anche il tema del supplier management si sposa bene con l’approccio di data driven decision making, poiché avviarsi sulla giusta strada, scegliere le strategie da adottare e investire correttamente nelle leve che creano valore aggiunto è una decisione complicata e complessa, e solo se supportata delle giuste informazioni può comportare un rischio minore.

La difficoltà di fondo nel riuscire ad individuare la corretta strategia procurement data driven o ancor più ad adottare le giuste leve di mitigazione del rischio in seguito per esempio ad un’interruzione di fornitura dipende proprio dall’asimmetria informativa che esiste tra cliente e fornitore. Se da un lato il cliente non vuole dare piena visibilità al proprio fornitore di ciò che accade all’interno della sua operatività, dall’altro lo stesso fornitore teme il controllo da parte del cliente. L’azienda quindi deve muoversi su due fronti, entrambi importanti per realizzare un approccio di data driven decision making nel Procurement:

  • il reperimento di tutti i dati rilevanti, per non prendere decisioni trovandosi all’oscuro da informazioni chiave;
  • la conversione di tali dati in informazioni rilevanti, ed il loro impiego a supporto della scelta della strategia e di tutte le decisioni a corredo.

Per quanto anticipato pocanzi, è quindi necessaria un’accurata attività di gestione dei fornitori che si articola su tutto il processo di supplier management, al fine di mettere in piedi una strategia procurement data driven rilevare tutti i dati più rilevanti a supporto delle decisioni. Il primo passo in tale direzione è costituito proprio da quella virtualizzazione e digitalizzazione del processo source-to-pay, di cui abbiamo parlato in precedenza. Ogni fase del processo deve essere correttamente supportata da applicativi integrati che consentano in maniera strutturata di generare, raccogliere e condividere i dati chiave, togliendoli dall’isolamento e dalla frammentazione garantiti dai tipici fogli di calcolo salvati in locale, o ancor peggio dal know-how e nell’esperienza delle persone.

Una volta individuati e raccolti i dati chiave, occorre riportarli all’interno di un DB organico e condiviso, così da favorirne l’estrazione, l’analisi e trasformarli in un supporto alle decisioni, oltre ad impostare un’adeguata procedura di storicizzazione.

Il data driven decision making (DDDM) nel Procurement

La teoria del DDDM (data driven decision making), inteso come la sistematica raccolta, analisi, valutazione e interpretazione dei dati al fine di derivarne procedure e politiche (Mandinach, 2012), guida proprio nella traduzione della miriade di dati oggi a disposizione in informazioni e conoscenza significativi per supportare decisioni più rapide, pronte ed informate. Spesso si confonde l’approccio DDDM con la Business Intelligence (BI): in realtà quest’ultima è solo una parte del processo di DDDM.

Come si può ben comprendere dalla figura 1, fare BI significa:

  • Lavorare sui dati, ovvero svolgere il processo pocanzi descritto di:
    • Scelta e identificazione dei dati da monitorare per ciascuna fase del processo in esame
    • Raccolta e storicizzazione dei dati all’interno di un sistema informativo che consenta di condividerli e ne faciliti l’accesso
  • Convertire i dati in informazioni:
    • estrapolando i soli dati completi e significativi e correggendo eventuali lacune presenti
    • disegnando e progettando il sistema di analisi e mining
  • Estrapolare le evidenze presenti nei dati, frutto dell’analisi del processo di mining, al fine di generare conoscenza utile a comprendere meglio il processo in esame e a prendere, in ultima analisi, decisioni migliori.
Figura 1: il processo di data driven decision making (DDDM), valido anche per il Procurement

A titolo di esempio, si consideri il tema della valutazione del rischio di fornitura. Fino a oggi questa funzione cruciale viene svolta:

  1. concentrandosi sui pochi fornitori di classe “A” di Pareto, ossia tendenzialmente quelli più grandi, che assorbono la massima parte del budget di acquisto, nella convinzione che essi siano anche quelli che implicano i rischi più seri
  2. concentrando l’analisi in particolar modo sui nuovi fornitori, tramite severe procedure di prequalifica
  3. limitandosi a valutare, spesso in maniera qualitativa più che quantitativa, la probabilità di interruzione delle forniture legata alle diverse causali considerate, e trascurando di incrociare tale grandezza con la magnitudo del danno generabile.

Tuttavia, un’analisi quantitativa del fenomeno sfida in maniera evidente queste radicate prassi. Anzitutto, essa mostra come l’interruzione delle forniture sia particolarmente frequente nel caso di fornitori più piccoli, e di conseguenza anche più fragili e meno controllabili. In secondo luogo, attribuisce anche alle relazioni di fornitura consolidate e di lunga durata un’elevata probabilità di generare interruzioni, smentendo con forza che la consuetudine dei rapporti costituisca una buona leva per sviluppare conoscenza predittiva sulle aziende fornitrici.

Inoltre, la teoria insegna che il processo di gestione del rischio consta di tre macrofasi (cfr. figura 2):

  1. Individuare i rischi, quindi comprendere quali possano essere i rischi che si possono manifestare, in termini di cause e di probabilità di accadimento;
  2. Valutare i rischi, quindi quantificare la magnitudo delle possibili conseguenze al verificarsi di ciascun evento dannoso.
  3. Definire le classi di rischio, quindi definire le priorità di intervento sulla base dell’impatto che avrebbe un determinato rischio con una specifica probabilità di accadimento. Le classi di rischio che si creano indicano proprio il livello di attenzione e dedizione che quell’evento richiede per mitigarne il rischio.
Figura 2: modello del processo di risk management

Viene quindi facile calare il modello generale del risk management indicato in figura 5 anche per quel che concerne la valutazione del rischio di fornitura, mappando la rete di fornitura lungo due dimensioni:

  • la probabilità che la fornitura s’interrompa, identificando e quantificando tutte le principali causali alla radice di questo evento e convertirle poi in un indicatore sintetico;
  • l’impatto generato dall’interruzione della fornitura, espresso in termini quantitativi, e ancor meglio economici.

Mentre la probabilità che si verifichi l’interruzione di fornitura è specifica del fornitore, il costo dell’interruzione prende in considerazione il business dell’azienda su cui il verificarsi di quell’evento avrà impatto e questo spiega perché l’attenzione al solo asse probabilistico non è sufficiente a definire il reale livello di criticità della rete di fornitura.

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