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Google rinvia ancora la fine dei cookies. I brand si preparano puntando sui dati di prima parte



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Il passaggio destinato a trasformare la pubblicità online è slittato nuovamente, in assenza di una convergenza su un metodo alternativo che consenta la personalizzazione. Nel frattempo, secondo uno studio di IAB, le aziende stanno accelerando gli investimenti sulla raccolta dei dati dei clienti

Pubblicato il 9 mag 2024

Manuela Gianni

Direttrice, Digital4Executive



Google cookies

Ancora una volta, Google ha rimandato la dismissione dei cookies di terze parti nel suo browser Chrome, il più diffuso al mondo, comunicando come nuova data probabile l’inizio dell’anno prossimo. È una storia che è iniziata 2020, quando arrivò il primo annuncio che prevedeva di sospendere i cookies nel 2022, e che a quanto pare non riesce a trovare un lieto fine. Nel nuovo comunicato l’azienda afferma di riconoscere che non si è ancora trovata una quadra tra i “feedback divergenti” sulle alternative proposte da parte delle aziende del settore advertising, delle autorità di regolamentazione e degli sviluppatori. Insomma, il futuro senza cookies non riesce a prendere forma.

La notizia arriva dopo che, il 26 aprile, l’autorità britannica per la concorrenza e i mercati (CMA), che si sta occupando principalmente delle conseguenze derivanti da Privacy Sandbox, la soluzione su cui Google sta lavorando, ha pubblicato un nuovo rapporto in cui elenca molti dubbi e problemi ancora aperti.

Google e i cookies, l’impatto sul mercato

I cookies, letteralmente i “biscottini”, sono utilizzati per tracciare le attività online degli utenti e quindi, tra le altre applicazioni, per indirizzare al giusto target la pubblicità online. Da anni su questo metodo si basano le attività di profilazione e misurazione delle campagne pubblicitarie online. In sintesi, senza i cookies diventa più difficile conoscere le storie di navigazione degli utenti su Internet e identificarli, tutelando così la loro privacy. Se da un lato si cerca dunque di rispondere alle richieste delle autorità nazionali di proteggere la privacy degli utenti (da cui la legge europea che obbliga a chiedere l’autorizzazione del tracciamento agli utenti attraverso i pop up che compaiono sui siti, sulla cui utilità ci sono molti dubbi), dall’altro questo è il metodo utilizzato da anni dalle aziende di pubblicità, che dovranno dunque trovare un’alternativa.

La mossa di Google, o meglio, le nuove soluzioni di targetizzazione che vorrà proporre, fanno molto discutere perché hanno un impatto su tutta l’economia digitale, considerando anche la sua posizione dominante nel mercato. La CMA solleva infatti dubbi sulla concorrenza sleale che il colosso del web potrebbe fare a chi opera nel settore, mentre gli editori dei siti web e le grandi aziende che gestiscono la pubblicità dicono di non essere pronti e temono un calo dei loro fatturati. Google ha quindi deciso di prendere ancora tempo, mentre sperimenta nuove soluzioni per mostrare le pubblicità personalizzate alle persone che navigano con Chrome.

La questione è piuttosto tecnica e non entreremo qui nel dettaglio del funzionamento dei nuovi meccanismi che si stanno sperimentando, sia da parte di Google sia di altri produttori indipendenti. È chiaro da tempo a tutta l’industria del digital adv che i cookie sono destinati ad essere impiegati sempre meno nei siti web e perciò si stanno sviluppando soluzioni alternative per il tracciamento degli utenti. Va detto anche che già oggi circa un utente su cinque sfugge ai sistemi di monitoraggio, sia perché utilizza browser o sistemi che bloccano l’utilizzo dei cookie di terze parti, sia a causa di problematiche di natura tecnica.

I brand investono sui dati dei clienti

L’edizione 2024 del rapporto annuale State of Data” dello IAB, l’associazione dell’industria pubblicitaria, mostra come il settore stia affrontando il nuovo scenario, definito privacy-by-design secondo il modello del regolamento europeo GDPR, consapevole che la fine dei cookies di terze parti e altre misure di protezione della privacy ostacoleranno il targeting, la personalizzazione e la misurazione.

Più della metà degli intervistati (500 esperti di advertising di brand, agenzie e publisher) prevede difficoltà nel tracciare le conversioni, nel misurare le performance della campagna o del canale, nel valutare il ROI e nell’ottimizzare le campagne; quasi il 50% prevede di avere difficoltà a misurare la reach.

In questo contesto, circa il 90% sta modificando le proprie tattiche di personalizzazione, la spesa pubblicitaria e l’equilibrio tra dati di prima e terza parte nella propria strategia pubblicitaria. In assenza dei cookies, l’attenzione sta tornando ai dati di prima parte, quelli dei clienti, archiviati nel CRM, prima fa tutte la mail.

Lo studio IAB conferma che i brand, le agenzie e gli editori stanno pianificando di aumentare i loro set di dati di prima parte a un tasso quasi doppio rispetto a due anni fa (71% contro 41%). In altre parole, assisteremo a un tentativo di sfruttare i dati first-party (e zero-party, quelli forniti spontaneamente dai clienti) in sostituzione dei dati di terze parti raccolti attraverso il tracciamento occulto.

Ci sono però due preoccupazioni. La prima è che, a causa della quantità relativamente limitata di dati di prima parte, questo approccio non riuscirà a ottenere i risultati visti con i cookies di terze parti. Il secondo è che utilizzare i dati di prima parte significa rivolgersi solo ai clienti (o abbonati, membri) esistenti. Saranno necessarie altre tattiche per sostenere l’acquisizione.

L’industria dunque si sta muovendo, ma in assenza di uno scenario chiaro il caos rimane.

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