Digital Innovation Talks

Sharing Economy, il dilemma continua: rivoluzione vera o "economia dei lavoretti"?

Una mappatura mondiale dei casi rilevanti, con classificazione dei 5 modelli di business, e un’analisi macroeconomica controcorrente («di “sharing” non c’è nulla»): le letture diverse e complementari di due docenti del Politecnico di Milano – Antonio Ghezzi e Fabio Sdogati – al convegno “Sharing Economy: dal possesso all’accesso” degli Osservatori Digital Innovation

Pubblicato il 07 Set 2018

Di Sharing Economy negli ultimi anni si è parlato moltissimo. Al di là delle “punte di diamante” – le varie Uber, Airbnb, Enjoy e BlaBlaCar, che hanno cambiato la vita quotidiana di tutti noi – il fenomeno si è talmente ampliato che oggi è davvero difficile dire cosa sia (e cosa non sia) la Sharing Economy. E soprattutto è difficile capire se sia davvero un modello socioeconomico rivoluzionario, che soppianterà il capitalismo, come sostengono alcuni. O se invece sia solo una moda effimera, che non genera ricchezza e sfrutta lavoro precario, come dicono altri.

Un’occasione importante per approfondire il tema è stata il convegno “Sharing Economy: dal possesso all’accesso” organizzato dagli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano nell’ambito del ciclo “Digital Innovation Talks”. «Ci interessa dare un contributo concreto per comprendere il fenomeno, andando oltre le visioni superficiali e moralistiche», ha detto Alessandro Perego, Direttore degli Osservatori, introducendo l’evento.

In questo articolo ci concentreremo sulla prima parte del convegno, in cui due docenti del Politecnico di Milano hanno analizzato la Sharing Economy da prospettive diverse: una ricerca di mercato su scala mondiale, e una lettura macroeconomica “controcorrente”. Alla seconda parte, che ha avuto come protagonisti un sindacalista e i top manager di tre primarie realtà del settore – Eni Fuel (Enjoy), Supermercato24, e BlaBlaCar Italia – dedicheremo un prossimo articolo.

195 startup nel mondo: le 26 italiane raccolgono 23 milioni di dollari

La ricerca di mercato, realizzata da un team dell’Osservatorio Startup Intelligence del Politecnico di Milano, è stata presentata da Antonio Ghezzi, direttore dell’Osservatorio e docente di Strategy & Marketing dell’ateneo milanese. «La Sharing Economy è da anni un tema caldissimo: una semplice ricerca su Google dà oltre 18 milioni di risultati. E muove enormi volumi di denaro: molte startup sono diventate unicorni – Uber, Didi, Airbnb, Lyft, BlaBlaCar – e in tutto abbiamo rilevato investimenti di oltre 4 miliardi di dollari in 195 startup, di cui 26 italiane che hanno raccolto 23 milioni di dollari». Delle italiane, la più finanziata è Supermercato24 (oltre 5 milioni), seguita da ProntoPro (servizi professionali occasionali) con 3,7 milioni, e Moovenda (consegna di cibo a domicilio) con 2,2 milioni.

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Antonio Ghezzi

professore di Strategy & Marketing, Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano

«Parliamo di un fenomeno che è cresciuto tantissimo in pochi anni, ramificandosi in molte accezioni – collaborative economy, economy ondemand, collaborative consumption, gig economy, platform capitalism – e generando decine di studi e definizioni, alla confluenza di tre aree di ricerca: sistemi informativi, management, e psicologia del consumatore».

L’obiettivo del team del Polimi era inquadrare il fenomeno Sharing Economy, definirlo, classificarlo in funzione di una serie di variabili, e mappare i casi rilevanti. «Abbiamo individuato come concetti di base la fruzione senza possesso (non-ownership consumption) e lo scambio peer-to-peer, e come fattori abilitanti le tecnologie digitali (mobile, piattaforme online di incontro domanda-offerta) e la crisi economica, che spinge a cercare nuove fonti di reddito e a saturare asset sfruttati solo in parte. I benefici sono flessibilità, risparmi di costo, tempo e spazio, nuove fonti di reddito, interazioni umane, e sostenibilità ambientale».

Il team ha individuato in letteratura 33 definizioni diverse di Sharing Economy, e concentrandosi sui modelli basati sulle tecnologie digitali, ne ha sintetizzata una di Digitally Enabled Sharing Economy, che parla di accesso di singoli e aziende, attraverso piattaforme tecnologiche, alla fruizione, condivisione e scambio di beni e servizi non necessariamente posseduti, con compenso monetario o non.

Fissata la definizione, continua Ghezzi, nella pratica esistono molte declinazioni che si collocano tra due estremi: il “pure sharing” senza ritorni economici, e l’economic exchange, in cui ciascuna delle parti si aspetta un ritorno e spesso c’è un cambio di proprietà.

Sharing Economy, i 5 modelli di business

Il team del Polimi ha individuato 5 modelli principali di Sharing Economy. Il più importante, su cui si concentra il 73% dei 4 miliardi di dollari citati sopra, è lo “Pseudo Sharing”, in cui la piattaforma possiede l’asset (esempi: Ofo, Enjoy). Poi ci sono i modelli “Gig Economy” (Supermercato24, Uber), con condivisione di servizi su piattaforme di sola intermediazione, “Servizi professionali”, con ruoli non interscambiabili e ben definiti (esempi: BeMyEye, Mathesia), “Pooling Economy” (offerta di bundle di prodotti, servizi ed experience su piattaforme solo matching, esempi: BlaBlaCar, Airbnb), e “P2P Lending”, piattaforme come Liquidspace e Vrumi, con offerta tra pari di asset tangibili non saturi come spazi di lavoro e attrezzature sportive.

«Questo è solo un primo tentativo di classificazione strutturata e formale – ha sottolineato Ghezzi -, ma riteniamo che la Sharing Economy, essendo il risultato di diversi macrotrend di business, tecnologici, sociali, sia destinata a durare. Proprio per la sua natura complessa e dirompente, è fondamentale continuare a tracciarne gli impatti nel tempo».

Passaggio da proprietà ad accesso, quanto ha inciso la caduta dei redditi?

Il secondo intervento è stato di Fabio Sdogati, professore di Economia Internazionale del Politecnico di Milano: «Il lavoro empirico e classificatorio del team di Ghezzi è essenziale per uscire dalla superficialità della comunicazione su questo argomento: io sarò più provocatorio, perché sono convinto che nella Sharing Economy di “sharing” non ci sia niente».

Fabio Sdogati

docente di Economia Internazionale al Politecnico di Milano

Siamo davanti a una domanda cruciale, continua Sdogati, e cioè capire se la Sharing Economy è solo una moda passeggera, o l’inizio di una transizione a un sistema socioeconomico diverso dal capitalismo. Una transizione che nasce, secondo i sostenitori di questa tesi, da un passaggio epocale della priorità del consumatore dalla proprietà all’accesso. «Il punto è che questo passaggio è avvenuto durante la crisi economica, in parallelo con la caduta dei salari e dei redditi della classe media. In Italia il reddito procapite è inferiore a 11 anni fa. È inevitabile chiedersi quanto questa caduta abbia inciso».

La produzione di ricchezza del capitalismo è legata alla crescita della produttività del lavoro, che però non cresce da quarant’anni, ha spiegato Sdogati citando il concetto di stagnazione secolare di Robert Gordon. Nei paesi ad alto reddito l’economia non cresce per carenza di domanda e di spesa pubblica, perché i governi sono paralizzati dal pareggio di bilancio. Quindi c’è un eccesso di offerta: di immobili, di capacità produttiva, e di lavoro.

«Di “sharing” non c’è niente: è affitto di breve termine»

Molti cercano di rispondere a questa situazione sfruttando la propria dotazione di beni mobili e immobili, conoscenze e competenze. È la cosiddetta “economia dei “lavoretti”, che Sdogati definisce anche “economia della miseria”: «La definizione di “imprenditori di se stessi” di cui molti parlano non ha senso: chi ha due case e ne affitta una a giornate non è un imprenditore, e chi fa consegne a domicilio non è un imprenditore solo perché usa la sua bicicletta».

Quelli che invece sono i veri imprenditori del capitalismo di ultima generazione, continua Sdogati, hanno creato le cosiddette imprese della Sharing Economy: imprese che – con il supporto determinante delle tecnologie – risolvono problemi nuovi, prima mai posti. «Però di “sharing”, di condivisione, non c’è niente: questi sono intermediari di scambi economici tra consumatori che non si conoscono, per l’accesso ai beni di altri o a servizi. Io questo lo chiamo affitto o noleggio, anche se è a breve termine».

Queste nuove imprese capitalistiche per Sdogati hanno due caratteristiche negative per la salute dell’economia nel lungo termine. La prima è che c’è sempre meno interesse per la produzione in senso stretto.

«Queste non sono imprese di produzione ma di intermediazione e distribuzione. Snaturandosi in parte, il capitalismo reagisce alla crisi della produzione e alla stagnazione della produttività diventando sempre meno modo di produzione di ricchezza, e sempre più modo di trasferimento di ricchezza».

«Un passaggio di ricchezza da chi non ha case a chi ha due case»

Un trasferimento che però avviene da chi non ha verso chi ha. Guardiamo Airbnb: è un passaggio di ricchezza da chi non ha una casa in una certa città, a chi ha due case in quella città. Questa “redistribuzione al contrario” è perfettamente coerente con le diseguaglianze sociali crescenti di cui molti economisti parlano con forte preoccupazione, perché distruggono la classe media e riducono la propensione marginale al consumo».

La seconda caratteristica negativa è la bassa capitalizzazione. «Tipicamente gli asset di queste realtà sono qualche decina di computer in giro per il mondo, o concentrati in un posto solo. La domanda di beni capitali cade. Hanno poi un numero di dipendenti molto basso, anche se danno lavoro a molte persone. Questo è un grande problema. L’impresa è sempre stata vista come il cuore dell’economia, ma in questi nuovi modelli vede fortemente diminuire il suo ruolo».

In conclusione quindi per Sdogati la Sharing Economy nasce dall’interazione tra le esigenze di questa nuova generazione di imprese capitalistiche e l’economia “dei lavoretti”. «Il passaggio da proprietà ad accesso è uno dei trasferimenti di ricchezza più potenti, e si dice che nasca da un cambiamento strutturale delle preferenze dei giovani, a cui non interessa più possedere la musica, l’auto, la casa. Ma se questi giovani non generano domanda di beni da possedere, tra 20-30 anni si troveranno senza beni da usare per integrare un sistema di welfare che probabilmente non sarà generoso con loro. È chiaro che questa tendenza non è sostenibile nel lungo termine, quindi è da monitorare, studiare e capire con continuità».

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