Lo sviluppo sostenibile richiede anche una particolare attenzione a una formazione di qualità e ai diritti umani. Il quarto obiettivo dell’Agenda 2030 vuole assicurare un’istruzione equa, inclusiva e basata sulla meritocrazia, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti.
Dopo aver focalizzato l’attenzione sugli obiettivi dell’Agenda 2030 e aver dato voce a ASviS, alla Scuola Etica Leonardo, Start4.0, 4.Manager, alla Confederazione Europea dei Manager (CEC) e ad AIDP, prosegue il cammino per riflettere sulle diverse possibili prospettive eco-sistemiche della sostenibilità, accogliendo la voce di professionisti, advisor e influencer nei vari settori al servizio dello sviluppo di una strategia e cultura coerente.
All’ottava tappa della rubrica Empower Sustainability includiamo la prospettiva di Luca Solari, Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale Università degli Studi di Milano e Fondatore Orgtech, un esempio coerente di inclusione sostenibile dell’innovazione digitale e della trasformazione sociale. Per indagare la relazione che può intercorrere fra sviluppo sostenibile ed educazione, nella prospettiva dei diritti umani, è in primo luogo necessario chiedersi se e in che misura il diritto all’educazione possa considerarsi come un diritto della persona.
Who's Who
Luca Solari
L’educazione come diritto fondamentale per ogni essere vivente
La rilevanza del diritto all’educazione come diritto umano fondamentale nel diritto internazionale è chiaramente affermata in vari trattati internazionali, sia a livello universale che regionale, oltre che in una serie di dichiarazioni e risoluzioni di organismi internazionali. Negli ultimi anni, gli sforzi della Comunità internazionale nel campo dell’educazione sono aumentati, come dimostrato dall’iniziativa Education for All nel 2000 al World Education Forum di Dakar, oppure dalla Dichiarazione di Parigi del 2015, dove i Ministri dell’istruzione dei Paesi membri dell’Unione Europea hanno riconosciuto l’urgenza e la necessità di azioni congiunte volte a garantire che tutti i bambini, bambine e adolescenti acquisissero competenze sociali, civili e interculturali, attraverso la promozione dei valori democratici e dei diritti umani, dell’inclusione e della non discriminazione. Il diritto all’educazione rappresenta oggi un diritto fondamentale di ogni essere umano, con quali contenuti? Come sostenuto dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite Tomasevski, l’istruzione è anche un mezzo di empowerment, specialmente per i settori della società emarginati e vulnerabili, per donne, bambini e altri gruppi che necessitano di protezione dall’abuso e dallo sfruttamento. Per diversi decenni ha prevalso una visione “economica” dell’educazione, che si è concentrata sugli effetti positivi che l’educazione produce sulla crescita economica a livello nazionale, senza considerare la dimensione dei diritti umani.
Per questo è invece necessario spostare l’accento sulla qualità dell’istruzione, piuttosto che sui suoi benefici economici. Ciò è del tutto in linea, ad esempio, con la Raccomandazione dell’UNESCO (1974), secondo cui: “La parola ‘educazione’ implica l’intero processo della vita sociale per mezzo della quale individui e gruppi sociali imparano a svilupparsi coscientemente all’interno e, a beneficio delle comunità nazionali e internazionali, di tutte le loro capacità personali, atteggiamenti, attitudini e conoscenze”. In questo quadro, il concetto di educazione include lo sviluppo individuale di tre elementi essenziali: attitudini, abilità e conoscenza. Un diritto dell’individuo a sviluppare tutti e tre questi elementi essenziali allo sviluppo della personalità, attraverso un approccio olistico che mette la qualità e la sostenibilità al centro.
A gennaio 2022 la Camera ha approvato la proposta di legge, che prevede l’insegnamento di competenze non cognitive a scuola dal 2023. L’OMS già nel 1993 aveva individuato le 10 life skill da inserire nei piani scolastici riconoscendo nella scuola una palestra di vita dove formare i cittadini di domani e educare a essere persone oltre a sapere cose. Quelle abilità che portano a comportamenti positivi e di adattamento, che rendono l’individuo capace di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni. Tra questi, la capacità di gestire le emozioni, la gestione dello stress, la comunicazione efficace, l’empatia, il pensiero creativo e quello critico, la capacità di prendere decisioni e quella di risolvere problemi (il problem solving).
Come includere e rendere sostenibile il “saper essere” lungo tutto il percorso di studi?
L’educazione è un tassello fondamentale della costruzione sociale. Oggi viviamo in sistemi complessi che a prescindere dalla ricchezza di regole e controlli richiedono come base un’adesione volontaria. L’educazione pubblica assolve il ruolo di formare le persone per essere parte di questi sistemi complessi anche in quei casi nei quali la struttura familiare sia impossibilitata a rivestire questo ruolo. Fare parte di una società non è qualcosa di naturale, è la conseguenza di processi di socializzazione primaria che sono vitali per l’individuo, ma in ultima istanza anche per la collettività. Se in una prima fase si è ritenuto che potesse bastare un’educazione al fare e al sapere, forse perché la società era meno complessa, le forme di regolazione più forti (si pensi al controllo sociale derivante dall’ideologia o dalle credenze piuttosto che alla forza e violenza dei sistemi di sanzione in essere in passato) e la diversità più attenuata, oggi siamo in una condizione diversa. Sapere e saper fare non bastano se non si è in grado di governare due grandi processi personali: quelli intrapsichici e quelli di relazione. La consapevolezza di sé è un elemento essenziale di stabilità in un contesto nel quale le identità personali e professionali sono sempre più sfumate e volatili. Insegnare a guardarsi dentro diventa una necessità per creare quella base sulla quale edificare la propria persona. Senza consapevolezza non c’è crescita, non c’è sviluppo e in ultima istanza rischia di non esserci senso. Nel contempo la complessità delle relazioni in un mondo sempre meno tradizionale e diverso rende necessario lavorare su questo aspetto, sulla creazione del ponte tra il sé interiore e l’altro/a. Non sono uno psicologo ma ho sensazioni molto nette sulla difficoltà che generano le relazioni in un contesto così diverso da quello a cui eravamo abituati e lo misuro nelle mie interazioni con studenti/studentesse i cui racconti rivelano un male di vivere in relazione che ha molto a che fare ovviamente in primo luogo con la consapevolezza di sé, ma poi anche con la consapevolezza delle relazioni.
Tornando alla tua domanda dopo questa che ritengo una precisazione dovuta, sono certamente d’accordo sulla necessità di un ripensamento profondo dei nostri modelli di socializzazione primaria/secondaria. Dobbiamo riprendere in mano con urgenza le politiche della famiglia, quelle pratiche che non si preoccupano della definizione della famiglia, ma dei processi che in essa accadono quando vi cresce una nuova vita, processi che sembrano funzionare male a prescindere dalla natura della famiglia, contrariamente a una certa visione tradizionalista. Il problema è capire come supportare e a volte purtroppo surrogare il ruolo educativo profondo delle figure di primo attaccamento. Accanto a questo come suggerisci dobbiamo rovesciare il modello educativo trovando il coraggio di uscire dalla logica delle riforme a patchwork e lanciando una vera conversazione nazionale sul modello di cittadinanza che serve alla stabilità, relativa e dinamica, perché non voglio un mondo “nuovo” apparentemente perfetto, distopia chiaramente illustrata da Al-dous Huxley, della nostra comunità sociale. Questo modello non può collocare le life skills come dei corollari ma le deve mettere al centro. Non voglio più sentire parlare di materie e di programmi, non ne possiamo più.
Peraltro, si tratta a mio avviso di residui tenacemente difesi di controllo centrale in un paese sempre più eterogeneo, parte di quell’apparato centralista e ministeriale che sembra sempre più il Leviatano temuto dai miei amici liberisti in campo economico. Nel tempo sono giunto a pensare che il vero guasto non sia l’intervento nell’economia ma il più pervasivo intervento insidioso e pervasivo nella vita personale e sociale a partire dalla prima infanzia. Beninteso quanto affermo si estende ad ogni ciclo educativo, compresa l’università che ancora oggi fatica perché è pensata per adulti consapevoli e non per adolescenti ancora in larga parte alla ricerca di un vero sé, il tutto detto non come critica, ma anzi con fortissima comprensione e senso di colpa per aver lasciato che accadesse.
Una formazione sostenibile parte dall’uguaglianza
La pandemia sta peggiorando le performance comunitarie e allargando i gap tra i Paesi meritocratici. L’Italia resta in ultima posizione con un punteggio di 24,56 (+ 0,42 rispetto al 2020), fanalino di coda e vede allargarsi il gap che la separa dai Paesi più virtuosi. Le nostre performance peggiorano rispetto ai pilastri della «libertà» e della «qualità del sistema educativo. Qualità che si misura su efficienza ed efficacia di un modello che garantisce elevati livelli di istruzione per tutti, che aiuta i singoli a sviluppare le proprie doti, che limita le uscite premature dal ciclo di studi e favorisce l’acquisizione di risultati soddisfacenti in termini di apprendimento.
Come rendere più meritocratica l’educazione universitaria e, in generale, tutto il sistema educativo istituzionale per sviluppare il potenziale disperso e sprecato dei giovani?
Qui mi trovi in controtendenza. Sono onestamente stufo del ragionamento astratto sulla meritocrazia. Sia chiaro per me la meritocrazia non esiste in senso assoluto. Ci sono criteri che un’istituzione deve porre rendendoli trasparenti, chiari e comprensibili e poi c’è l’applicazione degli stessi. Questo è il tema non l’utopia di un merito assoluto. Perché, riteniamo forse che una persona che si laurea con 110 e lode abbia più merito di chi si laurea con 82? E in che senso? Con quale obiettivo? Dobbiamo quindi premiare di più chi eccelle nell’università? O non è forse vero che il tema è la strutturale esclusione di parti rilevanti della società da quei contatti, quelle relazioni e quella mentalità che aiuta a prendere le decisioni giuste? Guarda io qui faccio un esempio chiaro.
Di recente è emerso che chi è povero ha meno possibilità di sopravvivere al cancro. In generale questo è vero per ogni patologia credo perché la differenza è data dalla possibilità di raccogliere informazioni e processarle per prendere la migliore decisione per sé. Sapere dove andare a farsi curare può essere più importante che avere i soldi in sé per entrare in una clinica privata. Lo stesso vale per la cosiddetta meritocrazia. Ci sono tantissimi/e ragazzi/e che non hanno i giusti punti di riferimento o che addirittura a volte incontrano docenti che tarpano loro le ali. Magari perché non hanno una buona struttura espressiva e quindi consigliano di non fare l’università. La nostra società ha innestato (male) una serie di istanze ideologiche egalitarie frutto degli anni ’60 su una struttura educativa fortemente settaria e stratificata. Lo Stato e la comunità devono aprire i canali di connessione tra i giovani e i riferimenti culturali che a loro servono. Non è un problema di soldi e risorse (che pure servono), ma di opportunità. Invece che riempirsi la bocca di meritocrazia, iniziamo a parlare di eguaglianza delle opportunità e penso che faremo un gran bene al paese anche in termini di una sua tenuta sociale e politica che a tendere vedo in grande difficoltà.
Analfabetismo e skill mismatch ancora troppo presenti in Italia
Rapporto ASVIS 2021 e obiettivo 4 dell’Agenda 2030: nel mondo sono 750 milioni gli adulti analfabeti, due terzi dei quali sono donne. In Italia permangono forti disuguaglianze tra le regioni, dovute al divario del Mezzogiorno rispetto alla media nazionale, evidente per la quota di laureati tra i 30-34 anni (21,6% nel Mezzogiorno, rispetto alla media nazionale del 26,9%) e per l’uscita precoce dal sistema di formazione che si attesta al 18,5% rispetto alla media italiana del 14%.
È possibile individuare responsabilità e ci sono azioni di miglioramento in corso?
Il fenomeno è ben descritto dai dati che hai appena ricordato, diventa difficile aggiungere molto se non evidenziare come ancora oggi il sistema educativo faccia cilecca non solo nell’aiutare la creazione di un’identità personale ma anche in quei basic che a mio avviso nel 2022 rappresentano un’emergenza sociale peggiore addirittura della pandemia. Sembra un’esagerazione ma mentre la pandemia per quanto terribile ha conseguenze per un numero limitato di anni, questo gap educativo si trascina per tutta la vita adulta delle persone limitandone le scelte e le opportunità e creando una barriera evidente anche rispetto a possibili azioni di upskiling o reskilling. Nelle università abbiamo ancora la “fortuna” di incontrare una parte selezionata perché l’analfabetismo è proprio una delle cause di mancato accesso a forme di istruzione avanzata, quindi non ne risentiamo direttamente. Correndo il rischio di risultare un po’ avventato posso però dire che la qualità media dell’espressione soprattutto scritta mi sembra in deciso arretramento, ma questo credo abbia a che fare con gli stimoli diversi cui sono sottoposte queste generazioni che ad esempio hanno un’educazione all’immagine molto superiore a quella della mia generazione.
Come advisor esperto di innovazione sostenibile cosa ci puoi dire sulla necessità di accelerare la formazione STEM a scuola e le competenze digitali nelle organizzazioni?
Anche in questo caso, mi chiedo se e quanto io sia qualificato per dare una risposta che non sia aneddotica o di stimolo alla riflessione non avendo una competenza di economia dell’istruzione o economia del lavoro. In generale, rifuggo tutte quelle risposte che si basano su una causalità semplice. Una società complessa è una società in cui le interazioni tra le diverse variabili sono difficili da comprendere. Mi sembra che anche qui si dica in modo semplificato e generale che le competenze STEM sono importanti, noi abbiamo pochi laureati in quest’ambito e quindi dobbiamo farli crescere. Si dimentica però il ruolo della struttura produttiva, ad esempio, e si generalizzano a volte i risultati di Survey compilate in modo distratto. Se mi chiedono ad esempio se ritengo che un laureato STEM sarebbe interessante per OrgTech la risposta è sì, ma questo non significa che sia essenziale o che lo assumeremo di sicuro. La causalità complessa richiede di comprendere a fondo i fenomeni prima di dare risposta un po’ a casaccio.
Agenda 2030 e le cinque P: Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partnership
Raccontami la tua narrazione di senso rispetto all’impatto circolare di queste dimensioni
Domande sempre più difficili e sempre più lontane dalla mia comfort zone! Io sono inesauribilmente un figlio della Rivoluzione francese e quindi metto al centro la Persona. La Persona deve essere messa nelle condizioni di agire consapevolmente nel rapporto con il Pianeta che deve conoscere e riconoscere come altro da sé ma in un rapporto di interdipendenza. Ancora oggi la nostra consapevolezza dei legami di sopravvivenza con il Pianeta è approssimativa e non va oltre per molti quelle quattro nozioni in croce della scuola dell’obbligo. Poiché il Pianeta è ciò in cui noi viviamo, il passaggio successivo è la Partnership ovvero il riconoscimento di un altro limite che come il Pianeta è una grande opportunità per la nostra crescita come Persone. Solo nell’incontro con l’altro capisco veramente chi sono. La Partnership intesa come percorso alla scoperta e all’integrazione dell’altro nella nostra visione del mondo non può che condurre alla Pace. Annichilire l’altro al di là di qualsiasi visione etica o religiosa è sempre una perdita di diversità. La sua diversità è l’origine della Partnership perché ci fornisce valori e idee nuove anche controverse a volte, ma in grado di aiutarci a riflettere confermando o mettendo in discussione le nostre convinzioni profonde. Senza la pace ciò non è possibile. Per l’ultima P, la Prosperità credo che sia la conseguenza di questa connessione tra le prime quattro.
Formazione sostenibile: convivenza delle generazioni ed evoluzione delle organizzazioni
Esiste una ricetta che rende possibile tutto ciò?
Smettere di chiamarle generazioni e di attribuire a questa classificazione un valore quasi antropologico. I demografi sono in grande discussione sulla significatività della stratificazione per coorte che è diventata così comune. Credo che i processi di trasformazione in atto siano più legati al cambiamento dello stato delle cose che all’alternarsi di generazioni. Poi se mi chiedi cosa fare per far convivere mi mandi in un loop. Io credo profondamente nella libertà individuale e nella responsabilità comunitaria che ne deriva. Più che fare lascerei risorse e opportunità alle persone per trovare le loro soluzioni. Magari rimuoverei una serie di barriere di status e di controllo del tempo e starei a guardare con grande curiosità cosa accade. Chissà che non sia meglio rispetto a cercare l’ennesima ricetta magica che in fondo serve solo a illuderci di sapere come governare gli altri. La realtà per dura che sia è che nessuno governa le cose dell’umano se non per un breve lasso di tempo. Nel bene e nel male i grandi processi di evoluzione della nostra specie si dispiegano davanti a noi, solo che con gli occhi miopi di chi vive quando è fortunato 80 anni non riusciamo a coglierli.