Reportage

Automazione e lavoro, il rischio "digitalizzazione lenta": per l'Italia decisivi formazione e imprenditorialità

Milioni di posti tradizionali andranno persi e milioni, basati su skill innovativi, ne nasceranno. Il saldo nel lungo termine sarà positivo, ma non nel futuro prossimo. Per l’Italia quadro difficile, però con segnali positivi da imprese e politica. Se n’è parlato in un convegno con protagonisti come Umberto Bertelè, Federico Butera, Carlo Bonomi (Assolombarda) e Giovanni Castellucci (Autostrade)

Pubblicato il 27 Nov 2017

Industria 4.0, intelligenza artificiale, robot, botnet sono parole che leggiamo ormai quotidianamente: le tecnologie digitali che stanno provocando la quarta rivoluzione industriale avranno impatti sull’occupazione e sulla distribuzione della ricchezza molto più forti e veloci di quelle precedenti. Qualcuno parla addirittura di conflitto tra automazione e lavoro. Quel che sembra molto probabile è che tra 10 o 20 anni il saldo di posti di lavoro sarà positivo, ma intanto un gran numero di posti “tradizionali” sarà perduto, e un gran numero di posti nuovi – lavori che pochi anni fa addirittura non esistevano – dovranno essere occupati.

La prima priorità quindi è dotare il sistema Paese, le imprese e le singole persone di efficaci strumenti di formazione di competenze. Strumenti diversi da quelli attuali, che sembrano inadeguati a rispondere alla domanda delle nuove professioni trasformate o create dal digitale, e a riconvertire il maggior numero possibile dei lavoratori che perderanno posti “tradizionali”.

Questi i temi del primo evento del ciclo “Digital Innovation Talks” degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, introdotto da Carlo Bonomi, Presidente di Assolombarda, e incentrato su un’analisi di Umberto Bertelè, Chairman degli Osservatori e professore emerito di Strategia del Politecnico di Milano. Analisi poi commentata in una tavola rotonda con Massimo Bonini (Camera del Lavoro di Milano), Federico Butera (Università Bicocca Milano), Giovanni Castellucci (AD di Atlantia e Autostrade per l’Italia), Emilio Bartezzaghi (Politecnico di Milano), e Andrea Rangone, AD di Digital360.

In Italia 10,5 milioni di posti nuovi e 8 milioni di posti persi

«La digitalizzazione polarizzerà i posti di lavoro: aumenterà la domanda di skill di livello alto e molto basso, e ridurrà nettamente quella di skill intermedi – ha detto Bonomi aprendo i lavori -. Secondo nostre stime (“Lombardia 4.0. Competenze e lavori per il futuro”) Industria 4.0 genererà 2,5 milioni di posti di lavoro in più, ma come saldo tra 10,5 milioni di posti nuovi e 8 milioni persi. Su questo occorrono profonde riflessioni perché l’impresa è un elemento fondamentale di coesione sociale, e d’altra parte l’Italia è la seconda manifattura europea, e dobbiamo fare in modo che lo rimanga».

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Il conflitto tra automazione e lavoro è un problema che si è già posto diverse volte in passato, ma stavolta l’aspetto inedito è che sono moltissimi i tipi di lavoro potenzialmente interessati, ha sottolineato Bertelè, che ha iniziato il suo intervento citando due analisi. Una, di Frey e Osborne (Oxford University), dice che il 47% dei lavori rientra nella categoria “ad alto rischio”, cioè destinati a essere automatizzati nei prossimi 10-20 anni. La seconda, di McKinsey, ha studiato 800 professioni in 19 settori (quelle svolte dall’80% della forza lavoro mondiale), appurando che quelle completamente automatizzabili sono solo il 5%, ma nel 60% dei casi è automatizzabile almeno il 30% delle attività, cioè circa la metà del totale delle ore lavorate.

«Queste stime considerano solo le tecnologie digitali che già ci sono, operative o in fase di sviluppo. Il fatto è che l’interazione tra automazione e lavoro è bifronte: l’automazione migliora performance, qualità dei prodotti e produttività, ma riduce i posti e quindi il costo del lavoro». Nonostante da anni la produttività stagnante sia il maggiore problema delle economie occidentali, quindi, l’aumento di produttività che la digitalizzazione comporta fa paura. «È lo stesso meccanismo creato dal prezzo del petrolio basso, o dall’inflazione bassissima: al mondo economico non piacciono gli sbalzi forti, perché lo costringono a cambiare profondamente».

Tra disoccupazione “da tecnologia” e da “non-competitività”

Un conto quindi – sottolinea Bertelè – è l’impatto positivo nel lungo periodo, non solo in termini di saldo di posti di lavoro («la digitalizzazione per esempio può rendere conveniente riportare in Italia attività delocalizzate»). Un conto invece è lo scenario più probabile nel breve-medio: contrazione in assoluto dei posti di lavoro – in particolare di quelli tipici della classe media – e divaricazione nelle remunerazioni, con conseguente crisi degli equilibri sociali e politici, che obbliga la collettività a ripensare tali equilibri e crea una forte percezione di pericolo.

Per l’Italia, che vede nascere e crescere poche imprese digitali, il problema potrebbe essere più grave rispetto a Paesi come Stati Uniti e Cina. Anche perché la tempistica è decisiva. «Se il processo di digitalizzazione è lento, è più facile per un territorio assorbire gli impatti negativi sull’occupazione, ma d’altra parte per le sue imprese sale il rischio di perdere competitività: per evitare la disoccupazione “causata” dalla tecnologia si rischia la disoccupazione da “non-competitività”».

Insomma la situazione dell’Italia non è rosea, osserva Bertelè, però ci sono segnali positivi: nelle imprese sta fortemente aumentando la consapevolezza della rilevanza del digitale, e il mondo politico ha capito la necessità di interventi per rafforzare le infrastrutture digitali, e per incentivare gli investimenti in innovazione e la crescita di startup innovative.

«L’impresa non è un’istituzione benefica, ma il suo ruolo sociale è fondamentale. Deve creare valore ma in modo sostenibile nel tempo, rispettando regole e sensibilità sociali, e investendo nell’upskilling e reskilling delle risorse umane. L’innovazione digitale crea forti squilibri nelle risorse umane, valorizzando alcuni skill e deprezzandone altri: occorre intervenire sullo squilibrio riconvertendo il numero maggiore possibile di persone».

Quanto allo Stato, oltre a promuovere l’innovazione, ha un ruolo cruciale in questa riqualificazione e ricollocazione delle competenze, prevedendo anche ammortizzatori sociali se gli squilibri sono troppo forti: «Oltre agli immediati risvolti umani e sociali, la riconversione dei lavoratori ha una decisiva valenza economica – osserva Bertelè -. Il capitalismo è sopravvissuto finora perché è sempre stato capace di redistribuire almeno in parte la ricchezza che genera: non solo queste persone devono vivere, ma devono anche spendere per far girare l’economia».

Butera: «Si disintegrano le organizzazioni burocratiche e i mansionari»

Si pone grande attenzione allo sviluppo delle tecnologie “disruptive”, non altrettanta ai nuovi sistemi organizzativi necessari per sfruttarle al massimo, ha detto poi nella tavola rotonda il sociologo Federico Butera: «Un esempio è il gruppo Bonfiglioli, che sta cercando di creare una “impresa rete”: questi nuovi sistemi bisogna progettarli, le competenze di progettazione di nuove strutture organizzative, sistemi produttivi e così via saranno cruciali». Le tecnologie digitali disintermediano e creano connessioni senza precedenti, continua Butera: «Le organizzazioni burocratiche e i mansionari si disintegrano, e nascono strutture molecolari basate su team con competenze fortemente flessibili. Gli strumenti per orientamento, ricollocazione, formazione continua che attualmente usano imprese e università sono inadeguati: ne occorrono altri».

Occorre quindi un ripensamento imponente, di cui l’impresa, ha aggiunto Massimo Bonini, non può occuparsi da sola: «In una fase in cui il paese, la società e il mondo del lavoro rischiano di essere travolti dai cambiamenti, tutti i soggetti devono essere coinvolti: in particolare nella trasformazione dei luoghi di lavoro i lavoratori devono essere protagonisti, adeguando le competenze con un apprendimento permanente».

«L’impresa deve inserire i progetti 4.0 in un disegno strategico che comprende tutto: creazione di valore, rapporti con i clienti, modello di business, e anche l’organizzazione – ha detto Emilio Bartezzaghi, che al Politecnico di Milano insegna proprio Sistemi Organizzativi -. Stiamo studiando casi di imprese con modelli Lean evoluti che hanno tassi di sviluppo tecnologico più alti della media: un’altra conferma del forte legame tra innovazione tecnica e organizzativa».

L’imprenditorialità oggi premia più che in passato

Secondo Giovanni Castellucci, chi entra in azienda va esposto subito ai problemi: deve poter dare subito il suo contributo, e questo si ottiene solo “appiattendo” l’organizzazione: «In Telepass per esempio non c’è l’ufficio organizzazione del personale: una decisione volontaria di destrutturazione, in modo da favorire al massimo il lavoro a progetto». L’AD di Atlantia e Autostrade per l’Italia è convinto: «L’ipercompetizione soprattutto a livello di medie imprese non potrà non trasferirsi alle università e ai giovani. Siamo ormai in una situazione “the winner takes it all”, l’imprenditorialità oggi premia di più che in passato, scomparirà tutta una fascia di ruoli intermedi, meno persone di prima lavoreranno, e lavoreranno molto di più».

Sull’imprenditorialità come risposta almeno parziale al problema occupazione è d’accordo anche Andrea Rangone: «L’elemento critico è la capacità del sistema Italia di favorire la nascita di nuove imprese. Nelle tre precedenti rivoluzioni industriali buona parte dell’occupazione è nata nelle nuove imprese. Ogni anno negli USA 1,5 milioni di posti di lavoro sono creati da aziende nate da meno di 12 mesi, e il 95% dei posti da aziende con meno di 5 anni di vita (dati Kauffman Foundation, ndr). Insomma in Italia occorre iniziare a parlare di cultura imprenditoriale fin dalle scuole primarie, e la politica industriale deve prevedere un insieme organico di misure per favorire la nascita di imprese. Gli studenti devono pensare che fare impresa è il modo migliore di crearsi un posto di lavoro».

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