Reportage

People, Process, Platform, Place: i 4 pilastri del percorso di Change Management

Come si progetta e realizza un processo di Change Management? In occasione dell’evento “Change Management Day”, organizzato da 4ward, Microsoft, Gruppo San Donato, Swatch, Prysmian Group, Volvo Trucks hanno raccontato i loro percorsi di innovazione

Pubblicato il 06 Feb 2019

percorso di change management

Per affrontare la digital transformation di un processo aziendale il punto di partenza è un percorso di Change Management. Infatti, l’impegno per digitalizzazione è per l’80% relativo al cambiamento culturale, mentre la tecnologia pesa solo per solo il 20% , secondo Gartner. Occorre adottare una metodologia solida ed efficace di Change Management, ed è importante considerare tutti gli elementi che entrano in gioco nel cambiamento: le persone, i processi, le piattaforme e gli spazi.

È stato questo il tema centrale del workshop “Change Management Day”, moderato da Manuela Gianni (foto in apertura), Direttore di Digital4Executive, e organizzato da 4ward, uno dei principali partner Microsoft in Italia, con l’obiettivo di tracciare una roadmap ed evidenziare le best practice necessarie per progettare e realizzare un efficace percorso di Change Management, mettendo a confronto aziende partner e customer testimonial, che hanno raccontato la loro esperienza sul campo.

«Cambiare vuole dire avere il giusto mindset, è una questione culturale»: l’esperienza di Microsoft

Con la prima testimonianza Fabio Santini, One Commercial Partner Director di Microsoft, ha ripercorso i passaggi chiave della storia dell’azienda di Redmond, fondata nel 1975 dai giovanissimi Bill Gates e Paul Allen. Una storia costellata di successi, ma anche di errori e di opportunità perse lungo il percorso di innovazione, come il flop del Windows phone (che oggi non è più in produzione), o il non aver colto i vantaggi di essere nel mercato dei tablet prima di altri.

«È importante comprendere gli errori commessi, ma ancora di più è capirne il perché. Il nostro freno, in quelle occasioni, è stato la cultura aziendale, che impediva di guardare fuori dagli schemi: essere sicuri di quello che si fa, della forza del brand e dei prodotti, porta spesso e volentieri a non chiedersi quello potrebbe accadere. E poi abbiamo continuato a concentrarci sui “vecchi nemici”, senza accorgerci dei nuovi che stavano avanzando. Cambiare vuole dire avere il giusto mindset, è una questione culturale».

E per Microsoft il cambiamento è coinciso, tre anni e mezzo fa, con la nomina ad Amministratore Delegato di Satya Nadella: c’è stato un momento di “refresh” (titolo che il CEO ha dato anche alla sua autobiografia), come quello che si fa nel browser. «Mettere alla guida di Microsoft una persona che lavorava in azienda da ventisei anni, che nel corso degli anni ha fatto i lavori più disparati, da quelli più tecnici a quelli manageriali (Nadella era entrato come sviluppatore, ndr), è stato vincente».

Quando il CEO ha preso le redini si è trovato davanti un’azienda non più d’innovazione ma politica, era quindi arrivato il momento di fermarsi, non di cambiare pagina ma solo di aggiornarla, riprendendo il contatto con le origini, con la visione, con la strategia, con la percezione che le persone hanno dell’azienda. «La prima cosa che ha fatto Nadella per rinnovare il mindset è stata creare una visione comune: aiutare individui e organizzazione a fare di più attraverso le nostre piattaforme. Il secondo passo è stato trasferire questo messaggio in modo consistente a un’azienda che oggi conta più di 110mila persone nel mondo. Di pari passo ha lavorato per cambiare la cultura delle persone, focalizzando il 90% del suo tempo su questo task, lasciando ai business leader la gestione del business, per portare l’organizzazione da fixed mindset a growth mindset. Infine, ha puntato sul “lead by example”. Ma come si mette poi in pratica davvero il cambiamento? Il primo luglio del 2017 Microsoft ha cambiato il lavoro a 48mila persone in tutto il mondo nell’arco di un giorno: questo vuol dire creare il mindset».

People: cambiare mindset e mettere le persone al centro. L’esperienza di Gruppo San Donato

E per cambiare mindset è fondamentale che il percorso di Change Management metta le persone al centro. «La nostra vocazione è lavorare con loro e accompagnarle lungo il percorso di cambiamento, essere una piccola palestra», ha sottolineato Nicola Longo, Managing Partner di Skills Management. «È il momento di affrontare la rivoluzione che mette di fronte a 4 lettere V.U.C.A. (volatility, uncentainty, complexity e ambiguity), che descrivono un mondo che richiede una vision e un’intuizione, come quella che ebbero Gates e Allen, che possono fare la differenza sia per le organizzazioni sia per le persone. La velocità del cambiamento è tale da mandare in crisi i modelli: non si fa in tempo a immaginare una metodologia che c’è qualcosa di nuovo. La cosa che si può fare è provare a riflettere su come le aziende possano superare la loro rigidità, passando da organizzazioni a organismi che interagiscono con il mondo circostante. Per acquisire velocità nel cambiamento si deve lavorare sulle persone, ricordandosi che in mezzo c’è la strategia e l’organizzazione stessa». I piani su cui lavorare sono quindi due: quello organizzativo con la definizione di una People Strategy, ripensando in maniera strategica i processi HR e lo Smart Working, e quello individuale, ponendo l’enfasi su consapevolezza, sostenibilità e ownership. «Per avere successo nella trasformazione digitale bisogna ricordarsi è indispensabile lavorare sia sulla componente organizzativa che su quella emotiva, per aiutare le persone a non vivere il cambiamento con paura».

«Anche nel mondo della sanità quando si parla di cambiamento organizzativo si deve partire dalla persona», ha raccontato Massimo Pietracaprina, HR Executive di Gruppo San Donato. «Tuttavia non è sempre immediato perché accade di anteporre alle persone i numeri e i risultati. E poi, nel nostro mondo, c’è il tema dell’errore, che non è quasi mai umano, ma organizzativo: il riflesso condizionato di trovare il colpevole è una cosa che ammazza il cambiamento. Sono queste invece le occasioni da cogliere perché da qui possono scaturire delle opportunità di trasformazione».

Process: rivedere i processi in chiave moderna efficace e digitale. L’esperienza di Swatch

Un altro pilastro del percorso di Change Management sono i processi, partendo dal presupposto che la tecnologia senza un nuovo processo è il vecchio processo, solo più costoso. «Quando si parla di processi, i cambiamenti devono essere incrementali, non strutturali», ha sottolineato Matteo Giudici, CEO di Mesa Consulting. «Si deve abbandonare il modo con cui facciamo oggi le cose, cercando di capire come vivere in modo sereno il cambiamento, ed è proprio questo il percorso che abbiamo seguito insieme a Swatch nel loro percorso di Change Management».

Il noto gruppo degli “orologini in plastica” nato negli Anni ’80 ha acquisito nel corso della sua storia 15 brand dell’orologeria svizzera, tra cui Tissot, Hamilton, Longines e Omega, andando a coprire tutti i mercati, dal mass market all’estremo lusso. «Lo spunto del nostro progetto di Change Management è nato da un’indagine fatta sui punti vendita che ha restituito un’immagine aziendale burocratizzata e con tempi di risposta non adeguati su alcuni processi – ha raccontato Marco Milani, Head of Customer Service and Operation di Swatch -. Il nostro percorso di cambiamento ha visto la creazione di una task force, un team interfunzionale di 5 persone, con competenze diverse, coinvolte due giorni a settimana per tre mesi, che ha coordinato un ciclo di interviste a 50 persone che aveva l’obiettivo di capire come il processo poteva essere migliorato secondo loro, secondo un’impostazione metodologica ben definita e basata su un documento di kickoff condiviso. Avere una forte sponsorship dall’alto, una visione chiara e una data di “go live” tassativa ci hanno aiutato a portare avanti il progetto, che è stato gestito abbandonando la logica “waterfall” sequenziale – a cui eravamo abituati – in favore di un approccio circolare con il monitoraggio e la misurazione tra i rilasci delle versioni incrementali: già dopo il primo mese abbiamo registrato una riduzione del 30% dei tempi di processo, che alla fine del percorso ha raggiunto il 60%».

La metodologia, ideata da Mesa Consulting, trova spunto dall’Agile e dalle tecniche di lean management: si parte da un’analisi per avere una visione globale e capire cosa bisogna andare a modificare all’interno dell’organizzazione, per poi disegnare un approccio incrementale e fare test per lavorare in modo prototipale, con fasi di progetto e scadenze ben definite.

«È il mindset a guidare la trasformazione: se ho come obiettivo portare a termine un task a settimana, dopo quattro settimane che lo faccio è automatico cominciare a lavorare con una cadenza settimanale. Nel nostro caso poi il percorso di Change Management è stato incentrato sulla user satisfaction: le interviste ruotavano attorno al concetto “dimmi come posso farti felice”, al comunicare nel modo giusto alle persone che avremmo cambiato il loro modo di lavorare in meglio e al renderle partecipi del problema. Questo approccio ormai è entrato a tal punto nelle pieghe dell’organizzazione di Swatch da essere adottato ogni volta che si decide di lavorare sul rinnovo di altri processi», ha sottolineato Matteo Giudici. «Al cambiamento di processo è seguita anche la Digital Transformation, con il coinvolgimento dell’IT che ha portato attraverso passaggi incrementali all’integrazione dei nuovi processi anche dal punto sistemico, nell’ERP aziendale».

Platform: Le tecnologie a supporto della produttività in un mondo mobile. L’esperienza di Prysmian

Christian Parmigiani, CEO di 4ward, ha introdotto il tema Platform: «La tecnologia sta ridisegnando il mondo molto velocemente per un motivo tanto semplice, quanto disruptive. Una volta l’innovazione tecnologica nasceva nell’ambito medico e militare, per poi arrivare nelle aziende e infine toccare l’ambito consumer. Oggi questo paradigma si è completamente ribaltato: la tecnologia prima va sul mass market e segue quindi un processo inverso, dalla sfera privata a quella lavorativa. Le aziende faticano a cambiare, sono lente: tanto più è grande l’azienda più l’IT spesso è frenata dalla paura dei rischi connessi. È arrivato quindi il momento di accorciare le distanze tra le aziende moderne e la vita privata. Forse oggi il tema più sottovalutato è quello della user experience: per favorire il Change Management, introdurre le tecnologie in azienda e concentrarsi sul mindset delle persone si devono introdurre degli strumenti semplici da utilizzare. Tutto questo facilita anche il ruolo dell’IT in tre ambiti: formativo, di supporto e di gestione amministrativa (tra cui la sicurezza dei dati). C’è un aspetto che agevola l’adozione: a prescindere dallo strumento utilizzato e dal luogo in cui si lavori, le metodologie devono essere le stesse. Oggi il fatto di utilizzare piattaforme in Cloud, quindi as-a-service, è un valido supporto».

Per Prysmian Group il Cloud è stato un vero e proprio acceleratore del cambiamento. L’azienda italiana produttrice di cavi, conosciuta in tutto il mondo, negli ultimi anni ha vissuto una crescita importante a seguito di diverse acquisizioni: oggi è presente in oltre 50 Paesi, con più di trentamila dipendenti, e un fatturato che ha superato gli undici billion di euro.

«Dal 2011 al 2018 il Change Management e la gestione delle persone hanno avuto il loro apice: con l’acquisizione di Draka, un competitor olandese, è nato Prysmian Group, nel 2016 è stato inaugurato l’Headquarter di Milano Bicocca e nel 2018 è stato acquisito un altro competitor americano, General Cable, diventando così il secondo gruppo industriale italiano – ha raccontato Debora Bernuzzo, Business Partner HR and Corporate Communication di Prysmian Group. Nel 2011 il primo vincolo da superare era l’assenza di una piattaforma Cloud, che rendeva complicata la comunicazione e la collaborazione soprattutto con i nuovi colleghi: l’integrazione è durata tre anni. Con l’inaugurazione della nuova sede, altamente tecnologica, siamo riusciti a rinnovare alcuni processi anche con il supporto dell’IT, e c’è stato un ridisegno del workplace con l’obiettivo di trovare gli spazi giusti per essere produttivi in ogni contesto: tutte le persone sono state dotate di notebook per lavorare dove vogliono, abbiamo previsto delle aree dedicate alle diverse attività – con un numero di meeting room proporzionato agli utenti -, e gli Executive non hanno più il loro ufficio, siamo tutti insieme negli open space. A questo punto del percorso di Change Management abbiamo rilevato un aumento della produttività, grazie all’immediatezza dei confronti con i manager. Tutto questo ci ha portati allo smart working (sono previsti quattro giorni al mese, ndr), con un forte engagement dei dipendenti e un importante supporto del management».

La tecnologia in questa partita ha giocato un ruolo di primo piano, è stata anche un valido supporto nelle prime fasi di collaborazione con la neo acquisita General Cable: «L’antitrust aveva chiesto di tracciare in uno spazio comune tutti i documenti prodotti nei meeting tra le funzioni HR: con sharepoint in Cloud sono stati creati degli spazi comuni, cosa che con una soluzione on premise non sarebbe stata fattibile. Adesso stiamo lavorando per avere una intranet comune per tutti i dipendenti Prysmian e General Cable per la seconda metà del 2019 e cercare di fare entrare all’interno della comunità digitale anche i blue collar, che sono il vero motore della nostra azienda e vogliamo mantenerli all’interno delle comunicazioni e delle informazioni che circolano nell’ambito aziendale», ha concluso Bernuzzo.

Place, l’activity based workspace e lo smart working come nuova frontiera del lavoro. L’esperienza di Volvo

Per Arianna Visentini, CEO di Variazioni – azienda che si occupa di worklife balance -, lo Smart Working sta favorendo l’innovazione di diversi processi organizzativi aziendali. «Il lavoro agile è un tema che abbiamo presidiato sin dalla sua nascita: per noi time e space sono le due colonne portanti di una nuova libertà organizzativa. Insieme a una rete di aziende – tra cui Volvo Trucks, UBI, San Pellegrino, Nestlè, Italcementi e ABB – abbiamo contribuito alla definizione della legge per il lavoro agile, ponendo l’enfasi sul fatto che lo spazio e le tecnologie sono degli abilitatori. Oggi abbiamo una libertà che dobbiamo imparare a gestire, questa è la complessità da superare. Al di là dello spazio, delle tecnologie e dei sistemi organizzativi il lavoro agile deve generare soddisfazione. Ma come si introduce il lavoro agile in azienda? Anche in questo caso si tratta di un percorso di Project Management con una fase di analisi, una realizzativa e una di assessment: si tratta di fare Change Management e di darsi dei KPI».

«Lo Smart Working è un fatto, una modalità di lavoro da cui non si può più prescindere», secondo Massimo Luksch, HR Director di Volvo Trucks, Bus & Penta, la multinazionale industriale presente in 220 Paesi che produce mezzi pesanti.

«Ci portiamo dietro una cultura industriale anche dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, c’è però un’altra componente altrettanto forte che bilancia questo aspetto: la cultura svedese. Lo Smart Working come concetto nei paesi del nord Europa esiste sostanzialmente dal dopo guerra. Volvo Italia è una realtà di medie dimensioni estremamente complessa sotto il profilo organizzativo e gestionale: circa 500 persone sparpagliate in 22 siti diversi. Nel DNA dell’azienda c’è quindi da sempre il fatto di lavorare in modo flessibile, pur secondo una modalità destrutturata e casuale. Cinque anni fa ci siamo trovati con Variazioni e altre aziende del territorio a lavorare sul tema per cercare di razionalizzare e far diventare un processo quella che prima era una modalità di lavoro in divenire. I risultati del progetto pilota sono stati sorprendenti: lo Smart Working è più apprezzato dagli over 45 che dai Millennial, più dagli uomini che dalle donne. Da noi lo applichiamo senza particolari restrizioni o rigidità: il regolamento prevede la possibilità di lavorare da remoto un giorno a settimana, ma non è vincolante se lo si vuole fare più spesso. Rispetto ai blue collar abbiamo pensato di portare la flessibilità all’interno cercando di contaminare i loro ambienti di lavoro: siamo partiti così con un altro pilota, la “smart production”, per capire se e come estendere le logiche del lavoro agile anche su quella parte di popolazione che oggi fisicamente non ne ha potuto usufruire».

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