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Reshoring, Nearshoring e Backshoring: come cambiano le scelte di delocalizzazione delle aziende italiane

Prima la rottura degli stock legata ai lockdown attuati nel Far East durante la pandemia. Poi la crisi delle materie prime critiche e ora l’aumento dei costi di trasporto. La convergenza di diversi fenomeni induce molte realtà del manifatturiero a ripensare le strategie produttive e di fornitura. Le opzioni possibili

Pubblicato il 19 Ott 2022

Reshoring

È una tendenza di cui abbiamo sentito parlare molto spesso negli ultimi mesi: il Reshoring, o rilocalizzazione, è l’espressione della volontà delle aziende di riavvicinare o addirittura riportare nuovamente in Italia la produzione o l’approvvigionamento di materie prime e componenti, per garantirsi maggiori efficienze operative e agilità.

Le ragioni alla base del Reshoring

La pandemia prima, poi i lockdown generalizzati in Cina (legati alla strategia “Zero Covid” che il governo di Xi Jinping difende strenuamente ancora oggi) e, a seguire, la crisi energetica innescata dal conflitto in Ucraina. Una serie di sfortunati eventi, verrebbe da dire, che ha messo a dura prova la resilienza della Supply Chain in molti settori. La componentistica elettronica, e i microchip in particolare, che prevedono l’impiego di materie prime critiche come Palladio, Rodio, Platino e Cobalto, è soggetta a un rischio di fornitura sempre più alto perché realizzata in Paesi ad alta instabilità geopolitica come Russia, Cina e Turchia. Anche il grano e altri cereali, provenienti dai Paesi dell’ex Unione Sovietica arrivano a singhiozzo, con le conseguenze che possiamo ben immaginare sulla filiera agroalimentare.

In calo il Farshoring

Le Supply Chain globali sono sempre più interdipendenti e le produzioni Lean sono soggette con maggior frequenza agli shock esterni. A questa incertezza crescente si somma l’aumento considerevole dei costi dei carburanti e, più in generale, dei trasporti, che rende sempre meno conveniente la scelta della delocalizzazione in Paesi geograficamente molto distanti (Farshoring).

In questi ultimi mesi, in particolare, i Supply Chain Manager si interrogano spesso su quale sia la miglior strategia in grado di assicurare la tenuta delle catene di approvvigionamento in uno scenario geopolitico che si caratterizza da sempre maggior volatilità, incertezza, complessità e ambiguità – o, in inglese, VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity). In uno scenario così mutevole e complicato, molte aziende tendono a rivedere le strategie di Make or Buy, optando per scelte diverse di Reshoring, Nearshoring e Backshoring.

Cos’è il Reshoring (o rilocalizzazione)

Si tratta della scelta volontaria, attuata da un’azienda, di spostare in tutto o in parte le proprie attività produttive, o le forniture, in un Paese diverso rispetto a quello in cui le stesse erano state precedentemente delocalizzate. Il Reshoring può assumere due forme:

  • Reshoring di produzione: le attività produttive vengono reintegrate negli impianti di proprietà nel Paese d’origine o comunque in una nazione diversa.
  • Reshoring di fornitura: l’approvvigionamento dei materiali (componenti, materie prime, semilavorati…) viene affidato a fornitori localizzati presso il Paese di destinazione dei prodotti o comunque in una nazione differente.

Rilocalizzare in tutto o in parte?

A seconda del Paese di destinazione, il Reshoring può essere distinto in tre modalità:

  • Backshoring: la rilocalizzazione ha come destinazione il Paese d’origine dell’azienda.
  • Nearshoring: la rilocalizzazione avviene in un Paese vicino a quello di origine.
  • Further Offshoring: le attività produttive già delocalizzate vengono spostate in un paese ancor più distante da quello in cui ha sede l’azienda.

In alternativa alla rilocalizzazione dell’intera produzione, è possibile attuare anche soluzioni parziali di Selective Rereshoring, che riguardano specificamente alcune attività produttive o linee di prodotti.

Un’azienda su tre ci ripensa

Molte realtà manifatturiere dello Stivale stanno riconsiderando, dunque, le scelte attuate in passato in merito alla delocalizzazione di tutto o parte delle attività produttive e delle forniture. Una tendenza confermata da un report condotto di recente dal gruppo di ricerca Re4It insieme al Centro Studi Confindustria. Lo studio, condotto su un campione di oltre 762 aziende italiane, mira a comprendere le tendenze in atto nella localizzazione delle forniture e delle attività produttive delle realtà del Belpaese e soprattutto le motivazioni della scelta. Stefano Elia, Professore Associato presso la facoltà di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, del team di ricerca Re4It, ha evidenziato in una presentazione i dati salienti dell’indagine.

Lo studio mostra come il 30% delle aziende che ha delocalizzato ha di recente cambiato strategia. Il Backshoring della produzione (parziale o totale) è l’opzione scelta dal 16,5% delle imprese che avevano in passato optato per l’Offshoring. Il 12% ha intenzione di riportare la produzione attualmente localizzata all’esterno in Italia, mentre il 14% ha optato per un cambio di Paese (Nearshoring o Furter Offshoring).

Reshoring

Fonte: Re4It e Centro Studi Confindustria

Chi ha delocalizzato lo ha fatto soprattutto per contenere i costi di produzione e, in particolare, il costo del lavoro, oltre che per garantirsi l’accesso ad alcuni mercati esteri e a materie prime critiche.

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Fonte: Re4It e Centro Studi Confindustria

Le principali motivazioni che spingono al Backshoring degli approvvigionamenti (forniture) sono i tempi di consegna più favorevoli e la disponibilità di fornitori di prossimità idonei; la scarsa qualità delle forniture; l’aumento dei costi di fornitura e dei costi logistici; la difficoltà di relazionarsi e coordinarsi con i terzisti.

Il Made In spinge a riportare in casa molte produzioni

L’indagine evidenzia che i settori maggiormente interessati dal fenomeno del Reshoring sono l’abbigliamento e la pelletteria, i macchinari e le apparecchiature elettriche.

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Fonte: banca dati UniCLUB MoRe reshoring

Tra le ragioni che spingono a riavvicinare le produzioni o le forniture se non, addirittura, a riportarle in Italia, ci sono diverse necessità. Tra le più citate: ridurre i tempi di consegna e migliorare il servizio reso al cliente; attuare produzioni più “snelle” e produrre piccoli lotti; avvicinare la produzione alla Ricerca & Sviluppo; migliorare la qualità della produzione e rafforzare le strategie legate al Made In, a partire dall’evidenza che sempre più consumatori privilegiano nelle proprie scelte d’acquisto i prodotti che offrono la garanzia di essere completamente prodotti e non semplicemente assemblati in Italia.

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Transizione ecologica e digitalizzazione accelerano i percorsi di Inshoring e Reshoring

Le imprese che delocalizzano per ridurre i costi o aumentare l’efficienza complessiva, quando decidono di abbandonare il Paese estero di approdo tendono comunque a preferire la rilocalizzazione in un’altra nazione estera anziché il ritorno in Italia.

Tuttavia, le stesse aziende hanno una maggior probabilità di rientrare nel Belpaese nel caso in cui siano previste normative e interventi che favoriscono la digitalizzazione, come ha dimostrato l’esperienza Industria 4.0 e Transizione 4.0, oppure la transizione ecologica, come nel caso del PNRR e del Green New Deal. Le conclusioni del report sottolineano l’efficacia delle politiche macroeconomiche in essere nell’accelerare il rientro delle forniture – contribuendo a migliorare l’idoneità dei provider locali – e quello della produzione – creando un contesto istituzionale più favorevole alla riduzione del costo del lavoro e all’innovazione.

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