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La trappola del Greenwashing: quando la sostenibilità è solo di facciata

Il marketing a volte cavalca l’onda del green, fornendo informazioni fuorvianti su come i prodotti o le azioni di un’azienda siano rispettosi dell’ambiente, al solo scopo di attirare i clienti. Un pessimo approccio, che rischia di compromettere la credibilità del brand

Pubblicato il 28 Nov 2022

Greenwashing

Tutela e sostenibilità ambientale sono sempre più importanti per i consumatori, concordi nell’attribuire alle aziende una grande responsabilità nel far fronte attivamente al cambiamento climatico e allo spreco di risorse del Pianeta.

E i consumatori sono anche sempre più consapevoli e capaci di cogliere l’insincerità, per non dire la falsità, di attività e claim cosa peraltro perseguibile a livello legale. È il cosiddetto fenomeno del Greenwashing, che si può tradurre come “ecologismo di facciata“. L’espressione inglese deriva da “whitewash”, che significa coprire, nascondere, e “green” da sempre il colore (verde) che caratterizza le iniziative a matrice ecologica.

Si moltiplicano le azioni giudiziarie contro marchi nazionali e internazionali, colpevoli di un’eccessiva leggerezza nella creazione dei cosiddetti green claims, delle affermazioni promozionali esagerate, generiche e non fondate su fatti. In un certo senso, è proprio il Marketing di queste aziende ad essere sotto la lente d’ingrandimento dei consumatori, delle associazioni a loro tutela e degli organi preposti al controllo della leale concorrenza pubblicitaria.

Fra le azioni recenti, intraprese dalle Authority locali garanti della concorrenza, citiamo come esempi quella contro KLM in Olanda, sotto accusa per una campagna pubblicitaria ingannevole, e quella contro i brand del fashion inglesi Asos, Boohoo e George.

Che cosa si intende per Greenwashing

Il greenwashing è il lato oscuro del green marketing: tutto ciò che di buono un’azienda può mettere in campo per rendere i propri prodotti e servizi più rispettosi dell’ambiente viene vanificato se, in realtà, queste azioni non sono autentiche, ma promosse al solo scopo di mostrarsi più sostenibili. Lo chiamano anche green appeal, appunto, ossia il vanto della sostenibilità.

In pratica, è la volontà di indurre i propri potenziali clienti a credere che un marchio sia impegnato nella tutela dell’ambiente molto più di quanto non lo sia in realtà. Ad esempio, si potrebbe affermare che il packaging della nuova linea green di prodotti proviene da materiali 100% riciclati o che le sedi di uno stabilimento sono state progettate per offrire vantaggi in termini di risparmio energetico e garantire “zero emissioni”.

Sebbene alcune di queste affermazioni ambientali possano essere in parte vere, le aziende impegnate nel greenwashing, in genere, esagerano i propri meriti relativi alla sostenibilità, nel tentativo di fuorviare i consumatori, di fare “bella figura”, di migliorare la propria awareness su una tematica molto calda al momento.

Quando è nato il Greenwashing

Quindi, greenwashing è il tentativo di capitalizzare la crescente domanda di prodotti e comportamenti rispettosi dell’ambiente. Il termine è un gioco di parole che deriva da “whitewashing”, un concetto che si rifà al mondo cinematografico (quando venivano impiegati attori caucasici per qualsiasi ruolo, anche di personaggi di altre etnie), che significa in pratica usare informazioni fuorvianti per sorvolare su comportamenti scorretti. Letteralmente “dare una mano di bianco”… o di verde, in questo caso.

Il termine viene fatto risalire agli anni ’60, quando l’industria alberghiera affisse i primi avvisi nelle camere d’albergo per chiedere agli ospiti di riutilizzare gli asciugamani, a salvaguardia dell’ambiente. In quel momento storico, l’obiettivo degli hotel era semplicemente quello di beneficiare di minori costi di lavanderia (al contrario di oggi, nel 2022 possiamo certamente considerarla una prassi lodevole del mondo dell’accoglienza).

Altro storico esempio di finta sostenibilità ambientale risale agli anni ’80, quando la compagnia petrolifera Chevron commissionò una serie di costosi annunci televisivi per trasmettere la sua dedizione all’ambiente. Ma mentre la famigerata campagna “People Do” era in corso, la Chevron stava attivamente violando il Clean Air Act e il Clean Water Act, versando petrolio in aree protette, a scapito della fauna selvatica americana.

La Federal Trade Commission (FTC) negli USA è stato il primo ente a stilare, nel 2010, delle linee guida per l’utilizzo dei cosiddetti environmental marketing claims. L’obiettivo era imporre alle aziende chiarezza e trasparenza, non solo nel definire entità e portata del proprio impegno ma anche, per esempio, nelle scelte stilistiche e di linguaggio promozionale, proprio per evitare claim non veritieri.

Come riconoscere il Greenwashing

Non è sempre una volontà “malvagia” a guidare le aziende in questo senso, a volte si tratta di azioni intraprese pensando davvero di fare del bene, che però non si concretizzano in risultati e dati realmente significativi.

Ma come possono i consumatori riconoscere il greenwashing e tutelarsi? E come possono le aziende evitare di incapparvi inconsapevolmente? Anche la Consob sta stilando una traccia da seguire per rendere riconoscibile il fenomeno.

Dal 2020 l’Europa è al lavoro su un elenco di guideline stringenti: proprio del 2020 è l’adozione della Tassonomia UE, approvata dal Parlamento europeo, che serve a definire quale sia davvero “un’attività economica sostenibile dal punto di vista ambientale”.

Una ricerca del 2021 del SUM (Sustainability Management) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (a testimonianza di quanto questo tema sia sentito tra le generazioni più giovani) ha evidenziato come, su 1300 annunci pubblicitari analizzati, ben l’83% fosse in realtà tacciabile di greenwashing per l’inconsistenza del beneficio ambientale millantato.

Fidarsi solo di certificazioni oggettive e riconosciute è il primo passo, evitando invece di fare affidamento o di mettere in luce termini generici (come “naturale”, una delle parole più abusate del momento).

Da evitare le affermazioni assolute, come il famigerato “zero emissioni”, obiettivo praticamente impossibile da raggiungere per qualsiasi tipo di prodotto o servizio.

Come le aziende fanno Greenwashing?

Sono spesso le big company a intraprendere campagne discutibili e poco chiare.

Coca-cola è da anni al centro di controlli legati proprio alle sue affermazioni in tema di tutela ambientale. L’associazione californiana senza scopo di lucro Earth Island Institute sostiene che i claim del colosso del beverage sono falsi e paradossali: “World without waste” o “Every bottle back” sono alcune delle azioni volte a promuovere la completa riciclabilità di tappi e bottiglie della celebre bevanda. Peccato che, dati alla mano, solo il 30% delle bottiglie possa essere effettivamente riciclato, non il 100% come affermato dalla corporate.

Nemmeno il mondo della moda fast-fashion si salva da questo genere di accuse: H&M nel 2019 è finita nel mirino della Norwegian Consumer Authority, un ente indipendente per la tutela dei consumatori norvegesi, che ha aspramente criticato i claim della collezione “H&M Conscious”, a detta dell’azienda composta da abiti realizzati con “un minimo del 50% di materiali riciclati o organici”. In tema di green washing, un claim vago e non supportato da reali dati come questo è da considerarsi una violazione della fiducia dei consumatori.

Stanno nascendo comitati ed enti ad hoc proprio per rilevare e denunciare illeciti in ambito green: in UK l’Antitrust ha emanato nel settembre 2021 il “Green Claims Code”, in Spagna già dal 2009 si sta lavorando a un “Còdigo de Autorregulaciòn sobre argumentos ambientales en comunicaciones comerciales”, in Francia è stata adottata dal governo una sanzione contro le campagne pubblicitarie ingannevoli che punisce le aziende con un importo fino all’80% del costo della campagna stessa.

Esempi in Italia

Anche alcuni marchi italiani sono stati coinvolti in “scandali” legati alla pratica del green washing.

Uno dei più noti riguarda ENI: lo spot di ENIdiesel+, trasmesso tra il 2016 e il 2019, fu multato come “pratica pubblicitaria ingannevole”. Questo perché il prodotto veniva descritto come un carburante biologico, green e rinnovabile, ma dalle analisi effettuate queste affermazioni risultarono non del tutto veritiere. La sentenza è costata all’azienda energetica ben 5 milioni di euro di sanzione.

Un iter simile è quello vissuto da San Benedetto, il player dell’acqua in bottiglia, per le affermazioni pubblicitarie in merito alla natura “eco-friendly” delle proprie bottiglie, già a partire dal 2009. Un marchio tra i pionieri del green marketing, quindi, che ha però sofferto di un notevole effetto boomerang: secondo l’Antitrust il claim non era veritiero. Risultato: 70.000 euro di multa.

In questi casi, però, si parlava ancora semplicemente di pubblicità ingannevole in senso lato. La prima sentenza italiana ufficiale per greenwashing è recente, del novembre 2021, emessa dal Tribunale di Gorizia per sanzionare Miko, un’azienda specializzata in tessuti e microfibre “naturali”.

Questo precedente giuridico sembrava gettare le basi contro i green claim, ovvero le presunte e generiche qualità “sostenibili” dei prodotti, senza prove scientifiche a supporto delle virtù di ecocompatibilità affermate. A marzo 2022, però, il Tribunale di Gorizia ha accolto il reclamo di Miko e ha revocato l’ordinanza di primo grado ritenendo infondata l’azione di concorrenza sleale promossa da Alcantara nei confronti dell’azienda.

La normativa

Vista a crescente attenzione al fenomeno, in risposta all’incremento dei casi di comunicazione e spot pubblicitari mascherati da green claim, nel Vecchio Continente si stanno muovendo i primi passi per dotarsi di una normativa ad hoc che possa tutelare maggiormente i consumatori da queste pratiche scorrette. Già a marzo scorso, la Commissione europea ha presentato nuove regole che mirano a mettere in guardia gli utenti e far sì che prendano decisioni consapevoli, attente e sostenibili.

È recente l’azione da parte delle tre autorità di vigilanza europee (Esas) – l’Autorità bancaria europea (Eba), l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni (Eiopa) e l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) – che hanno avviato una revisione congiunta per mappare il Greenwashing finanziario, darne una definizione compiuta e aiutare il regolatore nelle iniziative di contrasto.

Come si legge nel documento “Il 23 maggio 2022 le autorità di vigilanza europee hanno ricevuto una richiesta di contributo da parte della Commissione europea in merito ai rischi di Greenwashing e alla supervisione delle politiche di finanza sostenibile. La Commissione chiede a ciascuna Esa, separatamente ma in modo coordinato, di fornire un contributo sui rischi e gli eventi di Greenwashing nel settore finanziario dell’Ue e sulle azioni di vigilanza intraprese. La richiesta prevede due risultati: una relazione sullo stato di avanzamento prevista entro la fine di maggio 2023 e una relazione finale prevista per la fine di maggio 2024”.

Nello specifico, le autorità di vigilanza puntano a raccogliere “I punti di vista delle varie parti interessate su come comprendere il Greenwashing, esempi di potenziali pratiche di Greenwashing nel settore finanziario dell’Unione Europea, relativi a vari segmenti della catena del valore degli investimenti sostenibili e del ciclo di vita dei prodotti e anche qualsiasi dato disponibile per aiutare le autorità a farsi un’idea concreta dell’entità del Greenwashing e a identificare le aree ad alto rischio di Greenwashing”.

Combattere l’ambientalismo di facciata, l’impegno delle Nazioni Unite

L’impegno per combattere l’ambientalismo di facciata si fa sempre più concreto. È con l’obiettivo di porre fine alle pratiche di Greenwashing in favore di misure che aprano la strada al Net Zero che un gruppo di 17 esperti nominati dal Segretario generale delle Nazioni Unite ha emanato un rapporto che si traduce in una serie di raccomandazioni pratiche per investitori, aziende, compagnie finanziarie, città e regioni che puntano a migliorare l’integrità, la trasparenza e la responsabilità sulla sostenibilità ambiente, fissando standard e criteri chiari.

Si fa presto a definirsi realtà green, ma il documento parla chiaro: qualunque azienda o ente privato non potrà essere considerato Net Zero se continuerà a investire in combustibili fossili o contribuirà in qualche modo alla deforestazione o altre attività distruttive per l’ambiente.

Un patto di fede su scala globale, dunque, che le imprese si impegnano a rispettare presentando dei piani per il clima che possano essere considerati efficaci e che garantiscano dei risultati entro il 2030 in modo da soddisfare i requisiti dell’accordo di Parigi. Non solo, ci si aspetta che ogni azienda presenti annualmente rapporti dettagliati sui progressi compiuti, che possano essere controllati e verificati.

*Articolo pubblicato originariamente ad aprile 2022 e sottoposto a successive revisioni e aggiornamenti.

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