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Rating ESG, come valutare la solidità di un investimento sulla base delle metriche di sostenibilità



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Per valutare il profilo di rischio/rendimento dei portafogli finanziari, è sempre più comune considerare anche le performance di impatto dell’attività aziendale sulle aree ESG (ambiente, sfera sociale e governance)

Aggiornato il 22 mag 2024



rating ESG

Il rating ESG, acronimo che significa Environmental, Social e Governance (ambiente, sociale e governance) racchiude una serie di elementi di valutazione utilizzati nel settore finanziario che permettono di giudicare la sostenibilità degli investimenti in un’ottica di valutazione complessiva dell’impresa che va oltre i risultati puramente economici.

In altre parole, per valutare un investimento, ovvero il profilo di rischio/rendimento dei portafogli, è sempre più comune che vengano prese in considerazione anche le performance rispetto a specifici criteri ESG.

Cos’è il rating ESG

Il rating ESG (o rating di sostenibilità) esprime dunque un giudizio sintetico che certifica la solidità di un emittente, di un titolo o di un fondo dal punto di vista dell’impegno in ambito ambientale, sociale e di governance.

Fa riferimento all’impatto ambientale di parametri come le emissioni di anidride carbonica, l’efficienza nell’utilizzo delle risorse naturali (come l’acqua), l’attenzione al cambiamento climatico (climate change), alla crescita della popolazione, alla biodiversità e alla sicurezza alimentare.

Nell’ambito del sociale rientrano, invece, il rispetto dei diritti umani, le condizioni di lavoro, ad esempio l’impiego di lavoro minorile nella produzione, e l’attenzione all’uguaglianza e all’inclusione nel trattamento delle persone, il controllo della catena di fornitura.

Nella sfera governance rientrano la presenza di consiglieri indipendenti, politiche di diversità (di genere, etnica, ecc.) nella composizione dei CdA, remunerazione del top management collegata a obiettivi di sostenibilità.

Chi elabora i rating ESG

I rating ESG vengono elaborati da agenzie di specializzate nella raccolta e nell’analisi di dati sugli aspetti di sostenibilità dell’attività delle imprese raccolti da varie fonti, interne e esterne: informazioni pubbliche, documenti aziendali, dati di autorità di vigilanza, associazioni di categoria, sindacati, ONG. Possono essere effettuati anche sopralluoghi presso l’azienda e incontri con il management.

Un investimento si definisce sostenibile e responsabile se crea valore per l’investitore e per la società nel suo complesso attraverso una strategia di medio-lungo periodo che, nella valutazione di imprese e istituzioni, integra l’analisi finanziaria con quella ESG.

Alcuni investimenti vengono esplicitamente identificati con l’acronimo SRI, dall’inglese Sustainable and Responsible Investment. In realtà, però, non sono equivalenti.

Quali sono le differenze tra ESG e SRI

Pur essendo simili, gli investimenti ESG e SRI si differenziano per le premesse che ne costituiscono le fondamenta logiche. I primi, infatti, considerano il potenziale delle realtà coinvolte nel migliorare gli indicatori di inclusività e circolarità nell’uso delle risorse.

I secondi, invece, antepongono l’etica sopra a tutti gli altri valori e valutano le azioni che le aziende hanno già intrapreso (non quelle che realizzeranno) per migliorare i parametri di sostenibilità ambientale ed equità sociale.

Se il fine ultimo resta la generazione di profitti, le categorie morali e le aree di impatto positivo delle attività aziendali sono ancora più stringenti nel caso di investimenti SRI.

Superare i limiti dello stakeholder capitalism

Uno strumento per valutare il rating ESG con dei benchmark più accurati e condivisi è stato introdotto di recente dal World Economic Forum. Si tratta di una serie di metriche per dare una misura più obiettiva del cosiddetto “stakeholder capitalism”.

Elaborate dal WEF in collaborazione con Bank of America, Deloitte, EY, KPMG e PwC, includono gli indicatori “environmental, social and governance” e le comunicazioni per i mercati finanziari, gli investitori e la società. Ruotano sui principi fondanti dell’ESG – governance, pianeta, persone, prosperità – e si allineano agli standard esistenti.

Il concetto di “stakeholder capitalism” è stato rilanciato da Klaus Schwab, Founder e Executive Chairman del World Economic Forum, nell’appuntamento a Davos di gennaio 2020: lo stakeholder capitalism, ha affermato Schwab, è un modello da preferire oggi rispetto allo shareholder capitalism e allo state capitalism, perché “è la migliore risposta alle sfide sociali e ambientali”.

La genesi del rating ESG

Dallo stakeholder capitalism, i business leader possono muoversi oltre le obbligazioni legali e confermare il proprio dovere verso la società. “Possono portare il mondo più vicino all’ottenimento di obiettivi condivisi, come quelli emersi con l’accordo di Parigi sul clima o gli SDG”, i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite, ha sottolineato Schwab.

La pubblicazione delle nuove metriche è perciò stata definita una “pietra miliare” dal WEF. “Le aziende accettano non solo di misurare, ma anche di comunicare in modo trasparente le loro iniziative nel campo della responsabilità sociale e ambientale”, ha commentato Schwab.

Questi benchmark costituiscono un sistema di reportistica “universale”, perché adatto a qualunque settore produttivo e regione geografica, e offrono metriche comuni e reportistica omogenea per aiutare le aziende a dimostrare su basi solide la creazione di valore nel lungo periodo con le loro politiche di sostenibilità e la qualità del loro contributo agli SDG.

Come viene valutato il rating ESG

Il WEF ha cercato anche di rispondere ad alcune criticità nella valutazione della trasparenza e efficacia della reportistica ESG da parte delle aziende.

Se, da un lato, la direzione in cui andare è chiara, ovvero quella della trasparenza, dall’altro un ostacolo concreto è spesso rappresentato dalla mancanza di dati di qualità nelle relazioni ESG, come indicato dagli stessi executive aziendali, oltre che dagli investitori e dai regolatori.

Le aziende stanno tentando di migliorare i dati di cui dispongono e i relativi analytics, anche col sostegno di una nuova classe di consulenti e revisori, ma la mancanza di standard condivisi ha finora minato la fiducia nel modo in cui i dati sono riportati e quindi la credibilità dei report.

La visibilità sui risultati

Altra criticità che i nuovi standard condivisi e “universali” sono chiamati a sanare è il disallineamento tra le metriche tradizionali e gli impegni o obiettivi sulla sostenibilità delle aziende.

Target come la riduzione delle emissioni inquinanti, la diversity nei Cda e nel top management, l’investimento sul futuro dei dipendenti e le iniziative per la comunità richiedono numeri con cui dare forma concreta all’obiettivo per poi valutare il successo ottenuto.

Non basta dichiarare le nostre aspirazioni e la nostra voglia di cambiare, ammonisce il WEF: l’industria deve dare a investitori, dipendenti, clienti, regolatori e politici visibilità sui risultati. Processi di reportistica sull’ESG, con dati di qualità e standard comuni come quelli elaborati insieme a Bank of America, Deloitte, EY, KPMG e PwC, lavorano in questa direzione.

Perché le imprese dovrebbero misurare la sostenibilità

Ci sono molte ragioni strategiche per farlo. In primo luogo, le imprese possono soddisfare le esigenze degli investitori (stakeholder) fornendo informazioni trasparenti sulla governance aziendale.

In seconda battuta, la rendicontazione degli impatti ambientali e sociali aumenta l’attrattività dell’azienda, quindi favorisce l’afflusso di capitali utili a sostenere la crescita del business.

Ancora, evidenziare le ricadute sociali ed economiche dell’attività d’impresa sul territorio può contribuire a rafforzare le relazioni con i partner finanziari.

Infine, i piani industriali che includono KPI di sostenibilità aiutano l’impresa a raggiungere più facilmente gli obiettivi economici di medio-lungo termine.

A confermarlo è un recente studio condotto da Deloitte e The Fletcher School, che rivela che il 79% degli investitori ora afferma di aderire a una politica di investimento sostenibile, un trend in netto aumento rispetto al 20% di appena cinque anni fa. L’indagine, che ha avuto luogo tra gennaio e dicembre del 2023 e ha coinvolto oltre mille tra proprietari di asset, gestori di asset e consulenti di investimento, tra cui CEO e CIO di Nord America, Europa e Asia, mostra che solo l’1% degli intervistati non segue una politica di investimento ESG.

Andando più nel dettaglio, sembra che ad essere più attivi in questo ambito siano gli investitori statunitensi, con l’83% che ha dichiarato di aver adottato politiche ESG – dato in crescita rispetto al 27% di cinque anni fa –, mentre gli investitori europei si collocano leggermente più indietro, con una percentuale del 75%.

Le motivazioni principali che guidano l’integrazione dei criteri di sostenibilità nelle decisioni di investimento riguardano, infatti, il rispetto dei requisiti normativi (39%), il desiderio di migliorare le performance finanziarie (36%) e la risposta all’influenza o alla pressione degli stakeholder (34%).

I vantaggi di questa pratica

Disporre di un rating ESG operato da un ente certificatore o un istituto esterno assicura diversi benefici all’organizzazione. Tra i più rilevanti, il monitoraggio dei parametri di efficienza e produttività (e, come conseguenza indiretta, la capacità di intervenire sull’incremento della marginalità); il miglioramento del posizionamento sul mercato e della reputazione dei brand aziendali; l’aumento dell’afflusso di capitali e l’ampliamento delle opportunità di investimento, con la conseguente riduzione dei costi di finanziamento e degli oneri finanziari.

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