L'INIZIATIVA

Da migranti a programmatori: Powercoders debutta in Italia insieme a Reale Mutua e Le Wagon

Prima sede estera per la ONG svizzera che ha come missione quella di (tras)formare i rifugiati in esperti di coding, una delle professioni con maggiori opportunità di impiego, integrandoli nella società. Sarà a Torino e avrà l’appoggio della società di assicurazioni e della scuola di programmazione. Parla l’International Growth Officer Priya Burci

Pubblicato il 02 Lug 2019

Graduation in Basel Switzerland

Un modello per affrontare in modo nuovo – e contemporaneamente – due problemi che peseranno sempre più sull’economia e sulla società europea: l’inserimento nel tessuto sociale dei migranti e la mancanza di professionalità esperte in coding nel mondo lavorativo. Quello proposto da Powercoders è un approccio che fuori dal mondo tecnologico potrebbe essere tranquillamente definito con l’italianissimo adagio “prendere due piccioni con una fava”. Ma ha alle spalle tutto il pragmatismo tedesco di un imprenditore che conosce molto bene il mondo dell’IT: Christian Hirsig, che ha preso le mosse da un’esperienza di consulenza e system integration tradizionali per dare vita a una ONG il cui obiettivo, per l’appunto, è quello di riqualificare le competenze dei rifugiati per contribuire a rispondere alla richiesta crescente di risorse da parte delle organizzazioni impegnate nei processi di digitalizzazione.

Powercoders ha iniziato la propria attività in Svizzera, dove sono stati avviati progetti a Berna, Losanna, Basilea e Zurigo, ma il piano di espansione del business prevede la presenza in altri mercati del Vecchio continente. «Mercati che soddisfino due requisiti: siano ovviamente un bacino di rifugiati con competenze informatiche di base e dispongano di un’economia sufficientemente forte sul piano dell’ICT», spiega Priya Burci, International Growth Officer del gruppo. Non a caso dunque, la prima sede estera di Powercoders inaugurerà in Italia, che oltre a essere – come confermano le cronache di questi giorni – una delle principali vie di accesso all’Europa per le persone che arrivano da Asia e Africa, sconta anche un grosso gap rispetto alle digital skill avanzate. Priya Burci ci ha raccontato qualche dettaglio in più sul piano che proprio in questi giorni sta prendendo forma.

La situazione politica e mediatica in Italia forse non è la più favorevole allo sviluppo di un progetto del genere. Siete riusciti ad avere la sponsorship del governo?

Per ora non ci sono contatti a livello centrale. E anche rispetto alle amministrazioni locali non c’è stato un coinvolgimento diretto, solo azioni di informazione. Siamo però sostenuti sul piano internazionale dall’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, ndr) e lavoriamo fianco a fianco con diverse ONG che si occupano di assistenza ai rifugiati. In Svizzera riceviamo sostegno dal governo e dalle aziende che partecipano al programma, mentre per l’Italia abbiamo sviluppato uno specifico Proof of Concept: siamo riusciti a identificare in Reale Mutua e nella scuola di programmazione Le Wagon i partner di un progetto che prenderà il via a Torino, dopo l’estate, con l’ambizione di espandersi poi in Piemonte e in Lombardia.

Come funziona il meccanismo e in che modo identificate le giuste competenze digitali?

I rifugiati che vogliono partecipare ai corsi di formazione possono candidarsi attraverso un’applicazione online, che ci dà la facoltà di ricontattarli in caso di presenza dei requisiti. L’iscrizione online rappresenta una prima scrematura: le persone che accedono a un form del genere proponendosi per un recruiting sono molto probabilmente già digitalizzate. Chi passa la selezione affronta un colloquio di natura psicologica e sociale e poi un’intervista più tecnica. Non dobbiamo dimenticare che le persone che abbiamo di fronte sono spesso passate per esperienze traumatiche. È quindi necessario valutare entrambi gli aspetti quando c’è da capire se c’è davvero la possibilità di intraprendere questo percorso. Dopo il secondo colloquio, il candidato viene sottoposto a un piccolo test, creato da uno dei nostri formatori, che prima di entrare in Powercoders lavorava in Google: il test ci consente di capire se la persona è predisposta per apprendere tutto ciò che occorre per diventare rapidamente un buon programmatore.

Rapidamente… quanto?

I corsi sono intensivi e durano tre mesi. Non si tratta di semplice educazione, ma di un vero e proprio processo di integrazione. Professionale, e non solo. Tutto il programma, composto anche da workshop per sviluppare soft skill e abilità sociali, è studiato per permettere ai rifugiati di inserirsi appieno nella dimensione del Paese che li ospita. Le classi sono in genere composte da una ventina di persone e nelle prime sei settimane comprendono lezioni di front-end development con diversi linguaggi di programmazione. All’avvio della seconda metà del corso, gli studenti affrontano una prima fase di recruitment, durante la quale invitiamo le aziende a incontrarli e a effettuare match per avviare i tirocini. Non c’è l’obbligo di inserimento per i nostri partner, ma devo dire che quasi tutti lo offrono. Poi, nelle ultime cinque settimane, Powercoders aiuta gli allievi ad affinare le competenze specifiche di cui i neo programmatori hanno bisogno per il tipo di impiego a cui sono destinati. Proviamo infine a facilitare l’integrazione dei nostri studenti nei loro tirocini mettendo a disposizione, su richiesta, un job coach, una persona in grado di dare consigli e supporto su criticità o fraintendimenti linguistici che i rifugiati potrebbero incontrare nel loro nuovo lavoro.

Quanti rifugiati sono passati da Powercoders e con quali esiti?

Dall’inizio del 2017 abbiamo formato, in quattro sessioni, 71 persone: l’80% degli studenti ha trovato una collocazione professionale. Di loro mi piace ricordare Jamila Amani, rifugiata afgana arrivata in Europa nel 2015 insieme al marito e a una figlia. Come intuibile, Jamila aveva alle spalle una storia molto difficile e si trovava in una situazione psicologica altrettanto complessa, per cui le competenze IT di cui disponeva non trovavano sfogo nel mercato del lavoro svizzero. Oggi, grazie a uno dei nostri programmi, lavora come DevOps Engineer in Swisscom. Gajendran Packiyanathan, dello Sri Lanka, era in patria un ingegnere, ma in Svizzera non riusciva a reinserirsi nel mondo del lavoro. Ora è impiegato come Systems Engineer presso Migros, la principale catena di supermercati della confederazione elvetica. E non dimentichiamo che uno dei membri del team di Powercoders, che al momento conta nove risorse, è un ragazzo fuggito dalla Siria. Ma ci sono molti altri casi che potrei citare.

Speriamo ce ne siano sempre di più. Buon lavoro e in bocca al lupo.

Grazie.

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