Il lavoro che cambia

Competenze Digitali: cosa sono le digital skill e perché sono importanti per le aziende

La pervasività della Digital Transformation sta spingendo le organizzazioni a sviluppare in ogni area aziendale nuove capacità e professionalità, un mix tra conoscenze tecnologiche e “soft skill”. Tutto quello che c’è da sapere sul mondo delle competenze del digitale per lavorare e comunicare con gli altri

Pubblicato il 01 Ago 2022

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Parallelamente alla crescente digitalizzazione del contesto in cui viviamo, nasce l’esigenza di un mix sempre più articolato di Competenze Digitali in grado di supportare le organizzazioni nella gestione del cambiamento. Secondo il report “The future of Jobs 2020” del World Economic Forum (Wef) nel 2030 nove lavori su dieci richiederanno competenze digitali avanzate. Si tratta di nuove competenze e professionalità che interessano ormai tutti i settori e funzioni aziendali, un giusto mix tra conoscenze tecnologiche e “soft skill”.
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Che cosa sono le Competenze Digitali

Una prima definizione di Competenze Digitali è stata proposta, nel 2006, dal Parlamento Europeo nel documento “Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del dicembre”, che indicava le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente: la competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da abilità di base nelle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione): l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet”. Questa definizione è stata in un secondo momento adottata anche dall’Agenzia per l’Italia Digitale, l’Agid.

Nell’attualizzarla, bisogna fare i conti con il fatto che l’ICT è sempre più presente in tutte le professioni e che le Competenze Digitali risentono fortemente delle evoluzioni tecnologiche. «La pervasività della Digital Transformation sta spingendo le organizzazioni a sviluppare in ogni area aziendale nuove competenze e professionalità: non si tratta più, quindi, di un fenomeno che riguarda solo la direzione IT o le imprese tecnologiche italiane, ma di una realtà per tutti i settori e le funzioni aziendali, che impone un ripensamento dei processi e servizi», ha sottolineato Marco Planzi, Associate Partner di P4I-Partners4Innovation.

L’Osservatorio delle Competenze Digitali – promosso da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia, in collaborazione con Miur e Agid – ha provato a schematizzare i livelli di conoscenze e competenze, riconducendoli a quattro categorie: le competenze per la cittadinanza digitale, necessarie a tutti i cittadini per potersi allineare alla digitalizzazione del contesto sociale; le competenze digitali dei lavoratori, che rispecchiano la capacità di saper usare nella quotidianità lavorativa strumenti informatici, a prescindere dalla funzione aziendale di appartenenza; le competenze specialistiche ICT, tipiche di figure che operano all’interno delle strutture ICT di realtà private e pubbliche o all’interno delle divisioni operative di fornitori di tecnologie e servizi ICT; le competenze di e-Leadership, che caratterizzano chi associa alla cultura digitale particolari attitudini e talenti che consentono di immaginare determinati percorsi di cambiamento e di contestualizzarli all’interno della propria organizzazione. In generale le Competenze Digitali si possono ricondurre a due macro categorie: le Digital Hard Skill e le Digital Soft Skill.

Quali sono le Digital Hard Skill

Le Digital Hard Skill sono le Competenze Digitali tecniche di base, specifiche, che definiscono una figura professionale. Si possono acquisire a scuola, all’università, con master e corsi di perfezionamento, ma anche sul posto di lavoro (spesso attraverso corsi di formazione mirati, compresi i MOOC, Massive Online Open Courses, e gli SPOC, Small Private Online Courses). Le Hard Skill sono Competenze Digitali quantificabili, e rientrano tra le competenze da mettere nel curriculum vitae, come per esempio il saper usare programmi e pacchetti informatici, la conoscenza di linguaggi di programmazione e la capacità di utilizzare specifici macchinari e strumenti alla produzione. In particolare, in questa categoria rientrano le competenze tecniche che riguardano l’area SMAC (Social, Mobile, Analytics, Cloud), cui si aggiungono quelle su Intelligenza Artificiale, Robotica, IoT, Cybersecurity.

Entrando nel dettaglio dell’area SMAC, rispetto ai Social bisogna fare i conti con il fatto che stanno cambiando il modo di comunicare e collaborare, internamente ed esternamente all’organizzazione. Ne è un esempio la social collaboration interna, che prevede un’interazione non gerarchizzata che richiede la governance di Social Media Manager, capaci di impostare (e di monitorare) una strategia social in linea con il modello di business, e di Reputation Manager, che seguono il sentiment degli utenti sui social e la reputazione aziendale.

«La diffusione di Internet e il crescente utilizzo di device connessi, in ogni momento e in ogni attività quotidiana rendono i Social il canale che oggi meglio di qualunque altro può rafforzare il rapporto tra le aziende e i clienti. I Social rappresentano il filo conduttore che permette all’azienda di interagire in modo dinamico con i propri clienti e di comunicare i valori, gli obiettivi e l’identità che la contraddistinguono» evidenzia Laura Cavallaro, Associate Partner di P4I-Partners4Innovation.

Dal canto suo, il Mobile ha già dimostrato da tempo di avere un impatto rilevante sulle competenze, soprattutto su quelle di chi si occupa di sviluppo di soluzioni, a cui si richiede di saper operare su nuove piattaforme e nuovi ambienti Mobile nativi.

Poi c’è il mondo dei Big Data, che genera domanda di figure dedicate alla gestione e analisi dei dati, figure capaci di interpretare, correlare e valorizzare le basi di dati sfruttando modelli e algoritmi di machine learning avanzati, strumenti di Data Visualization e Distributed Computing.

Infine il Cloud che, con le sue rinnovate logiche di fruizione delle tecnologie a garanzia di una maggiore flessibilità in ambito infrastrutturale e applicativo, richiede profili in grado di ridisegnare i sistemi secondo nuovi criteri, di definire una strategia Cloud e valutarne l’impatto nel business, e di gestire il rapporto con i fornitori ICT.

Se pensa poi all’Internet of Things, richiede professionisti con competenze di progettazione e sviluppo di architetture e applicazioni diverse da quelle più tradizionali, e con competenze di gestione e monitoraggio di servizi basati su oggetti connessi.

Infine, la Cybersecurity genera la necessità di avere da una parte competenze di natura tecnologica, e dall’altra le skill per definire politiche, strategie e programmi di security, nonché gestire, coordinare e di pianificare.

Quali sono le Digital Soft Skill

A queste Competenze Digitali fanno capo le abilità trasversali, che riguardano relazioni e comportamenti delle persone in qualsiasi contesto lavorativo, consentendo di utilizzare efficacemente i nuovi strumenti digitali. Le Digital Soft Skill non si imparano a scuola o a lavoro, e sono difficilmente quantificabili: dipendono dalla cultura, dalla personalità e dalle esperienze vissute dal singolo, sono strettamente connesse al modo di interagire, comunicare e cooperare in team.

Ad esempio, fanno parte di questa categoria: le capacità di problem solving e di risoluzione dei problemi tecnici; il knowledge networking che consente di recuperare e capitalizzare le informazioni che si trovano in rete; il new media literacy inteso come il grado di alfabetizzazione rispetto ai nuovi media, ai loro linguaggi e ai loro formati; la capacità di gestire i flussi comunicativi online nel rispetto della netiquette aziendale.

P4I-Partners4Innovation, la società del Gruppo Digital360 che offre servizi di Advisory e Coaching a supporto dell’Innovazione Digitale e Imprenditoriale, ha fornito una classificazione delle Competenze Digitali Soft, che nasce dalla rielaborazione di due modelli: il modello Digital Competence Framework (DIGCOMP), sviluppato dalla Commissione Europea, e il modello delle Digital Soft Skills, sviluppato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano.

Le categorie individuate sono quattro. La prima, il Knowledge Networking, è le capacità di individuare, salvare, organizzare, dare valore e condividere informazioni disponibili online sui social network e nelle comunità virtuali. In questo caso le Competenze Digitali richieste sono una declinazione delle attività a supporto della gestione dei dati, delle informazioni e dei contenuti digitali, e riguardano la capacità di navigare, ricercare e filtrare, valutare, sviluppare, integrare e rielaborare, gestire e condividere con le tecnologie digitali.

La seconda, la Virtual Communication, fa riferimento alla capacità di comunicare efficacemente, coordinare i progetti e gestire la propria identità digitale in ambienti digitali. In questo caso le Competenze Digitali di riferimento sono 4: interagire con le tecnologie digitali, collaborare attraverso le tecnologie digitali, gestire l’identità digitale, strutturare contenuti digitali in modo visuale.

La Digital Awareness è la terza, e comprende tutte quelle competenze che garantiscono l’uso corretto degli strumenti digitali con la dovuta attenzione all’equilibrio tra vita professionale e salute personale, come proteggere i dispositivi, proteggere i dati personali e la privacy, tutelare la salute e il benessere e la Netiquette (il “galateo della rete”, ndr).

Infine, la quarta è il Self Empowerment, che vuol dire possedere le conoscenze necessarie e padroneggiare gli strumenti digitali per risolvere i problemi, ed essere in grado di risolvere problemi complessi attraverso un utilizzo consapevole degli strumenti digitali. Per queste categoria le competenze specifiche sono rivolte a risolvere problemi tecnici, individuare i bisogni e le risposte tecnologiche, individuare i gap di competenza digitale, essere aperti.

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L’effetto Coronavirus sulle competenze digitali

Sviluppare le competenze digitali non è semplice. Serve che le persone abbiano uno stimolo a farlo, un vantaggio. Il nostro cervello è naturalmente resistente ad affrontare lo sforzo di abbandonare l’abitudine, che è la strada che richiede meno energie. Oggi la tecnologia è molto più semplice, che in passato ma se le persone non ne comprendono le potenzialità non le utilizzano. Il lockdown ha innescato questo stimolo e tutti abbiamo fatto un passo avanti arricchendo il nostro bagaglio di competenze digitali. La vita si è spostata online: lo smart working, la scuola a distanza, i corsi di ginnastica, le partite di bridge, gli aperitivi con gli amici. E tutti hanno dovuto fare uno sforzo.

Tutti hanno dovuto scaricare applicazioni, hanno scoperto nuove funzionalità, utilizzato in modo diverso smartphone e pc, risolto da soli problemi che non avevamo mai affrontato. Chi lavora da casa ha imparato a usare davvero gli strumenti di collaboration, gli studenti hanno preso più confidenza con i computer, gli anziani hanno scoperto le videochiamate e whatsapp. Necessità fa virtù e, in due mesi, è successo quello che avrebbe richiesto anni e enormi sforzi.

Competenze Digitali: bisogna fare i conti con il Digital Mismatch

Il Digital Mismatch è il divario tra le competenze possedute dai lavoratori e quelle che oggi richiede il mondo del lavoro. La richiesta di Competenze Digitali sta vivendo una crescita esponenziale, tuttavia non c’è ancora un adeguato riscontro in termini di formazione universitaria e aziendale, questo nonostante gli atenei cerchino dal canto loro di offrire percorsi di laurea con focus su Big Data e Data Scienze, Sicurezza Informatica e Cybersecurity, e Intelligenza Artificiale per provare a colmare questo gap. Secondo il quinto Osservatorio delle Competenze Digitali nel bienno 2019-2021 si riscontra una carenza di 5.100 laureati.

Il tema della competenze e della preparazione universitaria è stato affrontato anche della ricerca “Il futuro è oggi: sei pronto?”, condotta da University2Business, che ha messo in luce come oltre 2 aziende su 3 considera le competenze imprenditoriali e digitali requisiti molto importanti per assumere, ma ben il 76% fatica a trovare laureati digitalmente preparati. Allo stesso tempo, però, sono ancora le poche le imprese che investono nello sviluppo di competenze digitali (38%) e imprenditoriali (28%) dei propri dipendenti. Quando si tratta di inserire un neolaureato in azienda, per un’impresa su due le competenze digitali sono molto importanti (53,4%), addirittura fondamentali per il 19%. Ma trovare personale preparato è difficile per uno su due (51%), molto difficile per uno su quattro (24,7%). Anche le competenze imprenditoriali sono molto apprezzate: importanti per il 55,4% delle imprese e fondamentali per l’8%.

L’European Centre for the Development of Vocational training dell’Unione Europea (Cedefop), dal canto suo, ha stimato che dal 2020 al 2025 circa 46 milioni di opportunità di lavoro (su un totale di 107 milioni) nasceranno per lavori altamente qualificati, che prevedono una preparazione di livello universitario o fortemente specializzata. In un orizzonte temporale che arriva fino al 2025, le stime per l’Europa prevedono la creazione di nuovi posti di lavoro per ruoli e professioni a elevata qualificazione e una diminuzione di quelli a bassa qualificazione. La differenza sta nelle Competenze Digitali, che non saranno esclusivamente di natura tecnologica, ma faranno riferimento a un mix più ampio e complesso che contempla competenze di processo, abilità sociali e soft skill. Queste ultime giocheranno un ruolo di primo piano, considerando che sono determinanti per risolvere problemi complessi, gestire il cambiamento, collaborare e relazionarsi, adattarsi con flessibilità e comunicare.

I dati sulle Competenze Digitali

L’importanza delle competenze digitali riguarda ogni settore. Tuttavia, in Europa come nel resto del mondo esiste ancora un gap tra mercato della domanda e dell’offerta di talenti digitali, secondo le stime della Commissione Europea: solo il 3,5% degli studenti universitari frequenta un corso di laurea in ICT, e 1 lavoratore su 3 non possiede competenze digitali di base. Questa carenza si riflette sulle performance aziendali: 4 aziende su 10 hanno dichiarato un calo nella produttività e nella retention dei clienti a causa della mancanza di abilità digitali. In effetti, nei paesi dell’Unione Europea si è stimato che nel 2016 circa il 37% della forza lavoro avesse competenze digitali insufficienti per portare avanti il proprio lavoro; all’interno di questa percentuale ricadono anche i lavoratori che non hanno alcuna competenza digitale, considerato che non utilizzano Internet. Questi costituiscono l’11% della forza lavoro dell’UE, ma tale percentuale supera il 25% per paesi come Portogallo, Bulgaria, Romania e Italia. Oggi siamo ancora lontani dall’ottenere risultati apprezzabili in termini di maggiore diffusione delle competenze digitali, visto che il miglioramento rispetto a cinque anni prima è stato solo dell’1%.

Guardando all’Italia, l’Osservatorio delle Competenze Digitali ha messo in luce come gli effetti della digitalizzazione vadano ben oltre la creazione di nuove professioni: il peso delle competenze digitali cresce, infatti, in tutte le aree aziendali di tutti i settori con un’incidenza media del 13,8%, con punte che sfiorano il 63% per le competenze digitali specialistiche nelle aree “core” di Industria e il 41% nei Servizi. L’analisi dell’Osservatorio ha riscontrato anche una forte correlazione tra Competenze Digitali e soft skill, inteso come l’insieme di tutte quelle abilità trasversali un po’ a tutti mestieri che connotano comunque una più evoluta professionalità: apertura al cambiamento, conoscenza dell’inglese, problem solving, team working, pensiero creativo, capacità di parlare in pubblico, di gestire il tempo e di comunicare con i clienti. La presenza di soft skill è infatti uguale o maggiore rispetto alla media di settore nelle professioni in cui contano di più le Competenze Digitali, con rispettivamente 35% nel Commercio, 36% nei Servizi e 35% nell’Industria.

«Secondo la nostra esperienza – continua Laura Cavallaro – le aziende italiane spesso nascondono un grande potenziale in termini di risorse umane: nella vita quotidiana le persone possono mostrare attitudini e capacità nell’utilizzo dei mezzi informatici che in azienda non vengono sfruttate. Supportare le aziende per liberare tale potenziale è la sfida che ci poniamo ogni giorno e che cerchiamo di portare avanti con iniziative sempre nuove, come Hackathon o Innovation Community, che possano stimolare la creatività dei lavoratori e propagare lo spirito d’innovazione a tutto il network aziendale».

Infine, l’Osservatorio sottolinea come l’e-Leadership sia in crescita ma non ancora pervasiva: il percorso verso una maggiore consapevolezza dell’impatto del digitale sul valore del business non è ancora completato in diversi ambienti del management italiano. Da qui scaturisce l’elevata quota di aziende ed enti in cui la transizione al digitale è ancora a un livello troppo basso nella scala delle priorità strategiche rispetto all’effettiva urgenza, malgrado la quota crescente di competenze digitali richieste nelle funzioni direttive e manageriali.

Rapporto DESI 2022: Italia ancora in coda alla classifica europea

Dagli indicatori del rapporto DESI 2022 emerge che l’Italia sta colmando il divario rispetto all’Unione europea in fatto di competenze digitali di base, tuttavia resta in basso alla classifica dei 27 Paesi Ue per capitale umano posizionandosi terzultima, appena prima di Romania e Bulgaria. Ancora oggi, infatti, oltre la metà dei cittadini italiani non dispone di esse.

La percentuale degli specialisti digitali nella forza lavoro italiana è inferiore alla media dell’UE e le prospettive per il futuro sono indebolite dai modesti tassi di iscrizione e laurea nel settore delle TIC. Se si desidera che l’UE consegua l’obiettivo del decennio digitale in termini di competenze digitali di base e specialisti TIC, è assolutamente necessario un deciso cambio di passo nella preparazione dell’Italia in materia di competenze digitali.

Digital Skills Index: italiani consapevoli della carenza di competenze digitali

In questo flusso di studi volto a individuare il livello di competenze digitali in Italia, si inserisce anche il Digital Skills Index 2022 di Salesforce. Lo studio, realizzato intervistando oltre 23.000 lavoratori in 19 paesi tra cui oltre 1.300 dall’Italia, non si discosta di molto dagli altri risultati evidenziando come l’86% dei lavoratori italiani afferma di non avere le competenze digitali necessarie per il mondo del lavoro del futuro e l’87% si sente altrettanto impreparato per i prossimi cinque anni. Tuttavia, appena il 17% sta già seguendo percorsi formativi per colmare questo divario. Facendo un focus sulla Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010), l’81% degli intervistati ritiene di avere un livello avanzato nelle competenze social, peccato che però le competenze digitali quotidiane, come i social media e la navigazione sul web, spesso non rispecchiano quelle ritenute fondamentali sul posto di lavoro e necessarie alle aziende per favorire la ripresa, la resilienza e la crescita, competenze digitali che solo uno su cinque (il 19%) pensa di possedere. Alla luce dei risultati complessivi dello studio, ora più che mai le aziende hanno la responsabilità di agire per affrontare il crescente divario di competenze digitali globali.

La strategia nazionale per le competenze digitali in Italia

Come ha  sottolineato il Ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazion, Vittorio Colao, quello delle competenze digitali è un tema centrale oggi per la strategia del Paese: «Se è vero che la dotazione del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è una condizione per la ripresa, è anche vero che si dovrà lavorare non solo sulla trasformazione del modo di erogare il servizio pubblico, ma anche sullo sviluppo di conoscenza e competenze. Quest’ultimo è forse lo sforzo più importante: è tempo di investire in modo massiccio nello sviluppo delle conoscenze digitali delle persone a partire dal sistema educativo fino ad arrivare dentro la nostra PA, dentro le imprese, agendo sia dal lato dell’offerta sia dal lato dello stimolo alla domanda di competenze».

Una sensibilità sul tema dimostrata già in precedenza quando il Ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione aveva firmato a fine luglio 2020 il decreto di adozione della Strategia Nazionale per le Competenze Digitali. Nato da un tavolo di lavoro a cui hanno partecipato Ministeri, Regioni, Province, Comuni, Università, istituti di ricerca, imprese, professionisti, Rai, associazioni e varie articolazioni del settore pubblico, oltre alle organizzazioni aderenti alla Coalizione Nazionale (più di 120, che promuovono oltre 130 iniziative), il documento si prefissa quattro obiettivi: combattere il divario digitale, sostenere lo sviluppo delle competenze digitali lungo i cicli di istruzione, promuovere lo sviluppo delle competenze chiave per il futuro e garantire a tutta la popolazione la possibilità di acquisirle. Quattro sono anche gli assi di intervento: competenze digitali nel ciclo dell’istruzione e della formazione superiore, competenze digitali nella forza lavoro attiva, competenze specialistiche ICT e competenze chiave del futuro, competenze digitali dei cittadini.

Le professioni digitali più richieste nei prossimi anni

Come anticipato in apertura, secondo il report “The future of Jobs 2020” del World Economic Forum (Wef) nel 2030 nove lavori su dieci richiederanno competenze digitali avanzate e nel prossimo decennio molti lavori, o semplici compiti, scompariranno in favore di nuove professioni richiederanno nuove competenze.

Se poi si guarda al report “The future of Jobs 2018” l’ipotesi per il 2022 prevedeva la creazione di 133 milioni di posti di lavoro, per un totale di 58 milioni di nuove opportunità lavorative e professioni digitali. L’incremento in particolare era imputato al crescente impiego di macchine e algoritmi: i lavori con domanda crescente saranno quelli che richiedono infatti un alto impiego di tecnologia (analisti di dati, sviluppatori di software e applicazioni, esperti di social ed eCommerce, specialisti in machine learning e intelligenza artificiale, esperti di automazione, designer di interazione uomo-macchina, ingegneri robotici, esperti di big data) o lavori in cui sono richieste doti specificamente umane (addetti al servizio clienti, venditori, specialisti di marketing, training, cultura, organizzazione e innovazione).

Secondo la ricerca per rimanere al passo con le richieste di mercato non meno del 54% dei lavoratori avrà bisogno di essere aggiornato o di aumentare significativamente le proprie competenze e capacità. Tra questi, nei prossimi cinque anni, il 35% necessiterà di un training aggiuntivo di 6 mesi, il 9% di un training da 6 a 12 mesi, mentre al 10% servirà aggiornarsi per più di un anno. Insieme alle abilità tecniche delle professioni descritte sopra, le abilità più richieste saranno le capacità di pensiero critico, creativo, innovativo, l’intelligenza emotiva, il problem-solving complesso, le capacità di leadership e influenza sociale.

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Competenze digitali, un esempio di quanto costa il reskilling alle aziende. Il caso USA

Secondo un altro studio del WefTowards a reskilling revolution: Industry-led action for the future of work” negli Stati Uniti quasi 1,4 milioni di lavoratori dovranno aggiornare le competenze per essere in grado di svolgere nuovi compiti connessi con i cambiamenti strutturali della Digital Transformation, dell’Industry 4.0, e della diffusione dell’AI.

Per la sola economia degli Stati Uniti il costo di reskilling della manodopera per salvaguardare i posti di lavoro si attesterà intorno ai 34 miliardi di dollari, con l’86% a carico delle finanze pubbliche.

 Per quanto riguarda il settore privato, si riuscirà a riqualificare in modo redditizio solo il 25% dei lavoratori tra quelli a rischio disoccupazione (si tratta di circa 350mila persone, ndr), per il resto, valutati tempi e costi del reskilling e il rischio di perdita di produttività, le aziende assumeranno direttamente personale già qualificato. Secondo il Wef, una soluzione per gestire questo momento di passaggio potrebbe essere la promozione della cooperazione tra imprese per ottenere economie di scala: in questo caso, il reskilling che resta profittevole per il settore privato coprirebbe il 45% dei lavoratori a rischio, alleggerendo anche il peso sulle finanze pubbliche.

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