Non è vero che il manifatturiero italiano è in crisi, anzi è il motore della crescita della nostra economia. E al suo interno, la media impresa è il modello vincente, anche grazie ad alcuni elementi opposti rispetto al capitalismo globale. Sono alcune conclusioni – non certo scontate – del rapporto Mediobanca-Unioncamere 2016 sulle medie imprese industriali italiane, presentato qualche settimana fa da Gabriele Barbaresco, Direttore Area Studi di Mediobanca, in un convegno al Politecnico di Milano.
«Si è molto parlato della manifattura come causa della crisi economica in Italia, ma il 75% del nostro PIL è fatto di servizi: l’industria vale solo il 15%, che sale al 25% considerando settori correlati come l’edilizia. Inoltre il manifatturiero negli ultimi 20 anni ha visto crescere la produttività dell’1,1% medio annuo, più di tutti i comparti di servizi tranne ICT e Finanza. E genera più del 70% della spesa in R&S, e l’80% dell’export».
Sfatato il mito del manifatturiero “pecora nera”, Barbaresco si è concentrato sulle medie imprese industriali italiane, definite nel report come le società di capitale a controllo italiano tra 50 e 499 addetti con fatturato annuo tra 16 e 355 milioni di euro. Sono circa 3300 imprese, che rappresentano il 16% sia del valore aggiunto manifatturiero italiano, sia dell’export.
«I dati parlano da soli. Tra 2010 e 2014, le medie imprese hanno ottenuto una crescita annua di produttività del 3,5%. Le più grandi e le più piccole sono sotto l’1%» (vedi grafico 1 in fondo). Nel decennio 2005-2014, le medie imprese hanno aumentato il fatturato netto del 24%, il fatturato all’estero del 44%, il ROI del 49% e ridotto del 26% il rapporto di indebitamento. E incrociando le crescite del margine operativo e del fatturato, emergono nettamente come la categoria migliore, mentre le imprese più grandi hanno leggermente aumentato (6%) il fatturato ma peggiorato di oltre l’80% i margini.
Più si esporta, più è alto il merito creditizio
Venendo all’export, dal 1996 al 2014 le medie imprese industriali che esportano sono salite dall’82% a oltre l’88% del totale, la loro quota di fatturato all’estero dal 39% al 48%, e il valore assoluto di fatturato export da 31 a oltre 65 miliardi di euro. «Questa forte presa sui mercati esteri si riflette positivamente sullo “stato di salute” dell’azienda: abbiamo accertato una correlazione netta e molto interessante tra quota di export e merito creditizio delle medie imprese industriali».
Un elemento migliorabile è il mix di mercati di destinazione. Le nostre medie imprese preferiscono i più vicini, cioè l’Eurozona (65% del fatturato da export, contro il 53% del resto del manifatturiero). «Ma le opportunità migliori sono nei più lontani e rischiosi: chi esporta per esempio in Africa sub-sahariana, Russia o Cina ottiene ROI del 12-13%, cioè dal 5 all’8% in più rispetto a chi non esporta in quelle aree».
Il modello “inclusivo”: una parte di profitto è condivisa con i dipendenti
Altro punto chiave è la governance: in Italia, si sa, 2 aziende su 3 sono familiari. «I dati parlano chiaro: chi ha risolto il passaggio generazionale ha ROI, ROE e tasso di export più alti» (vedi grafico 2 in fondo). Il problema è che il 66% delle nostre imprese ha manager parenti dell’imprenditore: in Spagna sono il 35%, in Francia il 26%. «Dalle nostre analisi emerge che le aziende con board bilanciato tra famiglia e manager esterni hanno i migliori ROI, mentre i peggiori sono ai due estremi: board “tutto in famiglia”, o tutto in mano ai manager».
Il cuore del report è la tesi del “modello inclusivo”: anche in questi anni di crisi e affermazione del liberismo economico – in cui sono state le famiglie e non più gli Stati a indebitarsi per sostenere la domanda – le medie imprese industriali hanno continuato a condividere una parte della crescita e del profitto con i dipendenti.
«Nel nostro campione negli ultimi 20 anni produttività e costo del lavoro per addetto sono rimasti allineati, quindi l’incremento di produttività è stato declinato anche sulla forza lavoro, e non solo sulla remunerazione del capitale. Inoltre emerge un leggero aumento occupazionale e della quota di “colletti bianchi” (dal 30 al 36% del personale), mentre le tute blu sono diminuite» (vedi grafico 3 in fondo).
Grande impresa, in Italia un modello perdente: in 40 anni ha perso il 37% della forza lavoro
Qui Barbaresco cita anche la tesi («un po’ estrema, ma interessante»), di Gianfelice Rocca (presidente di Techint e Assolombarda, ndr), per cui il modello inclusivo emerge soprattutto nelle “medium hi-tech”. Si tratta di medie imprese in cui gran parte del personale ha livelli di qualificazione medi, ed è capace di svolgere anche mansioni diverse da quelle abituali. La varianza dei salari è quindi minima, e lo stesso imprenditore spesso mantiene e reinveste gran parte degli utili in azienda, per cui non ha mai redditi enormemente superiori ai suoi dipendenti.
A fronte dei dati confortanti delle medie imprese, Barbaresco parla apertamente di “delusione” per le più grandi. Le imprese oltre 1000 addetti nel 1971 impiegavano il 25% del totale degli addetti in Italia, nel 2011 sono scese all’11%. «In questi quarant’anni, la grande impresa ha perso il 37% della sua forza lavoro: decisamente non è un modello vincente, ma sul “perché” il dibattito è aperto tra gli economisti». Per Gallino la causa è l’inadeguatezza manageriale, e analogamente Pellegrino e Zingales incolpano il clientelismo (cronyism), cioè la scelta dei manager basata sulla fiducia e non sulle competenze. Secondo Macchiati la colpa è invece del conflitto sociale negli anni 70, secondo Coltorti della scarsa imprenditorialità nell’impresa pubblica.
Industria causa della crisi? Sono i servizi a doversi dare una mossa
Moltissimi spunti, quindi, che Barbaresco ha sintetizzato nelle sue conclusioni. Un primo elemento è che la manifattura rappresenta un quarto del PIL italiano, e non è certo il comparto con le performance peggiori. «È il restante 75% del PIL che deve “darsi una mossa”: dai servizi industriali – mi riferisco per esempio al potenziale inespresso della logistica e del turismo – a banche e assicurazioni, dal commercio – ancora troppo legato a modelli tradizionali – alla Pubblica Amministrazione».
Un secondo è che le medie imprese sono il motore della crescita manifatturiera, perché conciliano obiettivi di efficienza e redistributivi che remunerano sia gli stakeholder (lavoro in primis) sia il capitale. «È un modello ‘virtuoso’ per molti versi antitetico a quello assunto dal capitalismo globale». Ma la crescita è un fenomeno raro e non va sprecato: «La priorità non è iniettare nel sistema “dosi di dimensione”, anche perché il modello della grande impresa è fallimentare e non ha senso tendere a una dimensione perdente, almeno finché non c’è convergenza sui motivi del fallimento».
Un terzo punto è che il modello media impresa è comunque migliorabile. «Per esempio esportando di più nei mercati più lontani, rischiosi ma premianti, e affrontando con obiettività il nodo della governance e del ruolo della famiglia». La politica industriale può aiutare evitando interventi generalisti e top-down su interi settori: «Servono invece azioni “leggere” per mettere le medie imprese nelle stesse condizioni dei concorrenti esteri, e interventi mirati alle esigenze specifiche della singola realtà, esigenze assai diversificate anche entro lo stesso comparto».