Analisi e ricerche

Medie imprese, le best practice post-crisi: più internazionali, e oltre il core business

E poi occorre eccellere nell’innovazione incrementale e coltivare talenti competenti e veloci nelle decisioni. Queste le costanti rilevate da un’analisi di Assolombarda e Bocconi su 51 realtà lombarde tra 2 e 630 milioni di fatturato. Burocrazia, reputazione dell’Italia all’estero, tasse e supporto delle istituzioni all’export le grandi criticità. «L’Europa ormai è mercato domestico»

Pubblicato il 10 Set 2015

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Forse il principale modello vincente nel manifatturiero italiano è la media impresa “multinazionale tascabile” di proprietà familiare, capace di essere leader di nicchia a livello internazionale, e a volte mondiale. Ma quali sono le best practice che hanno permesso a queste realtà di superare la dura crisi economica degli ultimi anni?

Essere consapevoli della necessità di crescere, espandendosi oltre il core business; eccellere nell’innovazione incrementale; continuare ad ampliare la presenza all’estero, soprattutto diretta; sapersi sviluppare internamente, anche grazie alla solidità del rapporto con i dipendenti, ma sempre pronti a cogliere opportunità di alleanze o acquisizioni; saper conciliare business e famiglia, attuando i passaggi generazionali nei tempi giusti; saper coltivare all’interno i “talenti ordinari”, e all’esterno i “trust-based network”; e superare i preconcetti sulle strategie finanziarie a supporto della crescita.

Questa è in sintesi la risposta di una ricerca qualitativa di Assolombarda e Università Bocconi che ha coinvolto 51 imprenditori e top manager di medie aziende manifatturiere multinazionali (nel report si usa l’acronimo M3, che sta appunto per medie, manifatturiere, multinazionali) con sede a Milano, Lodi, o in Brianza.

Il lavoro del gruppo di ricerca, guidato da Guido Corbetta, docente del Dipartimento di Management e Tecnologia dell’università milanese, è riassunto nel report “Best Practice e limiti da superare per il rilancio delle imprese M3″, e si basa su otto focus group con i partecipanti, le cui aziende complessivamente danno lavoro a 16mila persone, e generano un fatturato di 3,9 miliardi di euro.

Si tratta in grandissima parte di realtà a proprietà e gestione familiare, con fatturato medio di 76 milioni (1,6 la più piccola, 630 la più grande), dei settori più classici del made in Italy (produzione di macchinari, chimico-farma, metallurgia, moda/abbigliamento, alimentare), finanziariamente molto solide (debt/equity medio 0,8%), con profittabilità media superiore a quella delle aziende familiari lombarde nel periodo 2009/2013.

Distinguere tra innovazione di prodotto e di processo? Pura accademia

L’obiettivo principale dell’analisi è appunto di valorizzare le best practice di crescita, e di sintetizzare i fattori di ostacolo a tale crescita per contrastarli a livello associativo. «Quest’indagine sottolinea il ruolo delle medie imprese nel sistema manifatturiero italiano – dichiara in un comunicato Michele Angelo Verna, Direttore Generale di Assolombarda -. Dal confronto diretto con un gruppo di imprenditori abbiamo potuto mappare punti di forza e debolezza di queste realtà, e quindi definire una strategia che faccia leva sugli elementi di competitività e identifichi le macro-aree su cui intervenire per supportarle al meglio».

Più in dettaglio, quindi, dal punto di vista degli imprenditori i fattori di crescita sono in larga parte (92%) interni. I più importanti sono l’innovazione di prodotto e/o processo, e l’internazionalizzazione. Nel primo caso, spiega il report, la distinzione tra innovazione di prodotto e di processo è considerata puramente accademica. «È infatti attraverso la combinazione creativa di queste due innovazioni in un unicum spesso difficile da distinguere che le aziende hanno difeso o rafforzato il posizionamento rispetto ai concorrenti».

Quanto allo sviluppo internazionale, è considerato una leva decisiva per la competitività (molte l’hanno iniziato addirittura negli anni ’60 o ’70, e molte sono anche quelle che producono sul posto per il mercato locale), e avviene attraverso “trust-based network”, cioè relazioni di fiducia con partner locali con cui si condividono principi e visioni di come competere.

Da sottolineare poi che spesso l’Europa è considerata ormai mercato domestico. Sono significative le frasi di tre intervistati: «Ormai per noi le vendite in Europa non sono più considerate export»; «per noi internazionalizzazione significa muoversi su mercati extra-europei»; e «se vogliamo diventare la prima azienda al mondo nel nostro comparto, la produzione realizzata in Europa non può superare il 50% del totale».

Digitalizzazione: apprezzati stampa 3D, web per informare, ed eCommerce

Altri fattori di crescita ritenuti rilevanti sono la capacità di riorganizzare la struttura per adeguarla al mercato, le persone – le capacità più apprezzate sono competenza, passione, velocità decisionale, capacità di cogliere le opportunità -, la visione strategica della “testa pensante”, la diversificazione dei prodotti/servizi in funzione dei mercati, la loro personalizzazione per fidelizzare i clienti, e la costruzione di una solida reputazione.

Solo l’8% cita fattori di crescita esterni, e tra questi prevalgono le opportunità offerte dal mercato e la digitalizzazione, per la quale gli strumenti più apprezzati sono la stampa 3D per prototipi e simulazioni, il web come canale d’informazione a clienti e mercato, l’eCommerce per raggiungere mercati altrimenti fuori portata.

Passando ai fattori che limitano lo sviluppo, secondo gli intervistati sono invece in larga parte esterni, non direttamente controllabili. Sono nell’ordine difficoltà di mercato/settore, burocrazia, sistema Paese (ovvero la reputazione e competitività dell’Italia all’estero, e il supporto delle istituzioni alle aziende che operano all’estero), pressione fiscale, difficoltà d’accesso al credito, costi dell’operare in Italia (infrastrutture, sicurezza, esigibilità dei crediti), sistema del lavoro. Pochi invece i fattori interni di ostacolo, e con percentuali molto basse: manager e scelte aziendali, carenza di tecnici specialistici, e infine la dimensione aziendale, citata solo dal 2%: la taglia “media”, quindi, non è percepita affatto come una limitazione.

Il 60% ha già affrontato almeno un passaggio generazionale

In conclusione, quindi, il successo di queste realtà secondo i ricercatori si basa sulla passione, motivazione e competenze in prodotti/mercati/tecnologie di «talenti ordinari». La forte focalizzazione permette di accumulare risorse e competenze sufficienti per competere in contesti geografici anche molto ampi, nonostante le medie dimensioni.

Sono realtà veloci nelle decisioni, nel cogliere le occasioni, nei processi di realizzazione e nella loro modifica. Riguardo alla gestione familiare, più del 60% ha già affrontato con successo il passaggio generazionale – talvolta più passaggi – mentre solo una parte si trova a gestirlo per la prima volta. Il rapporto con i collaboratori è ricco, profondo e basato sul lungo termine, ed è alto il grado di solidità patrimoniale e finanziaria: le banche, con cui i rapporti sono aperti e positivi, sono praticamente l’unica fonte di finanziamento esterna, ma prevale largamente l’autofinanziamento.

Quanto ai punti di debolezza su cui agire, il report elenca la scarsa capacità di lettura delle evoluzioni di contesto nel medio-lungo termine, e di definizione di strategie che ne tengano conto; la dimensione ancora ridotta rispetto ai concorrenti internazionali; la rarità di ”veri” organi di governance; la resistenza a valutare strumenti finanziari alternativi a banche e autofinanziamento; le linee di comando a volte non chiare per i prossimi passaggi generazionali; la difficoltà ad attrarre manager di valore, che pure sono disponibili sul mercato, dopo la crisi economica; e la ridotta conoscenza delle dinamiche più avanzate del business e delle tecnologie di frontiera digitali.

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