Analisi e indagini

La media impresa “inclusiva” traina l’industria italiana, delude la grande azienda

L’analisi di Mediobanca e Unioncamere su 3300 manifatture italiane (50-499 addetti, 16-355 milioni di fatturato), mostra dati di produttività, margini e vendite molto migliori delle realtà più piccole e più grandi. «Un modello virtuoso, in parte antitetico al capitalismo globale. Le priorità sono governance ed export verso Paesi lontani, non la crescita verso una dimensione perdente»

Pubblicato il 08 Mar 2017

fabbrica-stabilimento-supply-170308113408

Non è vero che il manifatturiero italiano è in crisi, anzi è il motore della crescita della nostra economia. E al suo interno, la media impresa è il modello vincente, anche grazie ad alcuni elementi opposti rispetto al capitalismo globale. Sono alcune conclusioni – non certo scontate – del rapporto Mediobanca-Unioncamere 2016 sulle medie imprese industriali italiane, presentato qualche settimana fa da Gabriele Barbaresco, Direttore Area Studi di Mediobanca, in un convegno al Politecnico di Milano.

«Si è molto parlato della manifattura come causa della crisi economica in Italia, ma il 75% del nostro PIL è fatto di servizi: l’industria vale solo il 15%, che sale al 25% considerando settori correlati come l’edilizia. Inoltre il manifatturiero negli ultimi 20 anni ha visto crescere la produttività dell’1,1% medio annuo, più di tutti i comparti di servizi tranne ICT e Finanza. E genera più del 70% della spesa in R&S, e l’80% dell’export».

Sfatato il mito del manifatturiero “pecora nera”, Barbaresco si è concentrato sulle medie imprese industriali italiane, definite nel report come le società di capitale a controllo italiano tra 50 e 499 addetti con fatturato annuo tra 16 e 355 milioni di euro. Sono circa 3300 imprese, che rappresentano il 16% sia del valore aggiunto manifatturiero italiano, sia dell’export.

«I dati parlano da soli. Tra 2010 e 2014, le medie imprese hanno ottenuto una crescita annua di produttività del 3,5%. Le più grandi e le più piccole sono sotto l’1%» (vedi grafico 1 in fondo). Nel decennio 2005-2014, le medie imprese hanno aumentato il fatturato netto del 24%, il fatturato all’estero del 44%, il ROI del 49% e ridotto del 26% il rapporto di indebitamento. E incrociando le crescite del margine operativo e del fatturato, emergono nettamente come la categoria migliore, mentre le imprese più grandi hanno leggermente aumentato (6%) il fatturato ma peggiorato di oltre l’80% i margini.

Più si esporta, più è alto il merito creditizio

Venendo all’export, dal 1996 al 2014 le medie imprese industriali che esportano sono salite dall’82% a oltre l’88% del totale, la loro quota di fatturato all’estero dal 39% al 48%, e il valore assoluto di fatturato export da 31 a oltre 65 miliardi di euro. «Questa forte presa sui mercati esteri si riflette positivamente sullo “stato di salute” dell’azienda: abbiamo accertato una correlazione netta e molto interessante tra quota di export e merito creditizio delle medie imprese industriali».

Un elemento migliorabile è il mix di mercati di destinazione. Le nostre medie imprese preferiscono i più vicini, cioè l’Eurozona (65% del fatturato da export, contro il 53% del resto del manifatturiero). «Ma le opportunità migliori sono nei più lontani e rischiosi: chi esporta per esempio in Africa sub-sahariana, Russia o Cina ottiene ROI del 12-13%, cioè dal 5 all’8% in più rispetto a chi non esporta in quelle aree».

Il modello “inclusivo”: una parte di profitto è condivisa con i dipendenti

Altro punto chiave è la governance: in Italia, si sa, 2 aziende su 3 sono familiari. «I dati parlano chiaro: chi ha risolto il passaggio generazionale ha ROI, ROE e tasso di export più alti» (vedi grafico 2 in fondo). Il problema è che il 66% delle nostre imprese ha manager parenti dell’imprenditore: in Spagna sono il 35%, in Francia il 26%. «Dalle nostre analisi emerge che le aziende con board bilanciato tra famiglia e manager esterni hanno i migliori ROI, mentre i peggiori sono ai due estremi: board “tutto in famiglia”, o tutto in mano ai manager».

Il cuore del report è la tesi del “modello inclusivo”: anche in questi anni di crisi e affermazione del liberismo economico – in cui sono state le famiglie e non più gli Stati a indebitarsi per sostenere la domanda – le medie imprese industriali hanno continuato a condividere una parte della crescita e del profitto con i dipendenti.

«Nel nostro campione negli ultimi 20 anni produttività e costo del lavoro per addetto sono rimasti allineati, quindi l’incremento di produttività è stato declinato anche sulla forza lavoro, e non solo sulla remunerazione del capitale. Inoltre emerge un leggero aumento occupazionale e della quota di “colletti bianchi” (dal 30 al 36% del personale), mentre le tute blu sono diminuite» (vedi grafico 3 in fondo).

Grande impresa, in Italia un modello perdente: in 40 anni ha perso il 37% della forza lavoro

Qui Barbaresco cita anche la tesi («un po’ estrema, ma interessante»), di Gianfelice Rocca (presidente di Techint e Assolombarda, ndr), per cui il modello inclusivo emerge soprattutto nelle “medium hi-tech”. Si tratta di medie imprese in cui gran parte del personale ha livelli di qualificazione medi, ed è capace di svolgere anche mansioni diverse da quelle abituali. La varianza dei salari è quindi minima, e lo stesso imprenditore spesso mantiene e reinveste gran parte degli utili in azienda, per cui non ha mai redditi enormemente superiori ai suoi dipendenti.

A fronte dei dati confortanti delle medie imprese, Barbaresco parla apertamente di “delusione” per le più grandi. Le imprese oltre 1000 addetti nel 1971 impiegavano il 25% del totale degli addetti in Italia, nel 2011 sono scese all’11%. «In questi quarant’anni, la grande impresa ha perso il 37% della sua forza lavoro: decisamente non è un modello vincente, ma sul “perché” il dibattito è aperto tra gli economisti». Per Gallino la causa è l’inadeguatezza manageriale, e analogamente Pellegrino e Zingales incolpano il clientelismo (cronyism), cioè la scelta dei manager basata sulla fiducia e non sulle competenze. Secondo Macchiati la colpa è invece del conflitto sociale negli anni 70, secondo Coltorti della scarsa imprenditorialità nell’impresa pubblica.

Industria causa della crisi? Sono i servizi a doversi dare una mossa

Moltissimi spunti, quindi, che Barbaresco ha sintetizzato nelle sue conclusioni. Un primo elemento è che la manifattura rappresenta un quarto del PIL italiano, e non è certo il comparto con le performance peggiori. «È il restante 75% del PIL che deve “darsi una mossa”: dai servizi industriali – mi riferisco per esempio al potenziale inespresso della logistica e del turismo – a banche e assicurazioni, dal commercio – ancora troppo legato a modelli tradizionali – alla Pubblica Amministrazione».

Un secondo è che le medie imprese sono il motore della crescita manifatturiera, perché conciliano obiettivi di efficienza e redistributivi che remunerano sia gli stakeholder (lavoro in primis) sia il capitale. «È un modello ‘virtuoso’ per molti versi antitetico a quello assunto dal capitalismo globale». Ma la crescita è un fenomeno raro e non va sprecato: «La priorità non è iniettare nel sistema “dosi di dimensione”, anche perché il modello della grande impresa è fallimentare e non ha senso tendere a una dimensione perdente, almeno finché non c’è convergenza sui motivi del fallimento».

Un terzo punto è che il modello media impresa è comunque migliorabile. «Per esempio esportando di più nei mercati più lontani, rischiosi ma premianti, e affrontando con obiettività il nodo della governance e del ruolo della famiglia». La politica industriale può aiutare evitando interventi generalisti e top-down su interi settori: «Servono invece azioni “leggere” per mettere le medie imprese nelle stesse condizioni dei concorrenti esteri, e interventi mirati alle esigenze specifiche della singola realtà, esigenze assai diversificate anche entro lo stesso comparto».

Grafico 1

Grafico 2

Grafico 3

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati

Articolo 1 di 3