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Diritto all'oblio: cos'è, quando e come esercitarlo, la normativa italiana

In un momento storico in cui la privacy è essenziale ma la memoria del web è potenzialmente eterna, occorre prestare grande attenzione a cosa i motori di ricerca restituiscono in merito al nostro brand o alla nostra persona. In casi estremi, esiste uno strumento che permette una richiesta di rimozione dei risultati negativi: parliamo del Diritto all’Oblio di Google

Aggiornato il 08 Mar 2023

Il diritto all’oblio è uno strumento utile e necessario perché personaggi pubblici e aziende hanno, in questo modo, la facoltà di tutelarsi da danni d’immagine dovuti a risultati web negativi.
Si parla spesso di brand reputation management, in senso preventivo e protettivo, ma cosa fare quando ormai una reputazione è già stata compromessa? Al netto della gestione delle crisi del momento, se abbiamo risultati fortemente negativi che si attestano ai primi posti nella SERP (Search Engine Results Page) di Google, su testate autorevoli o che invadono senza tregua i canali social, come rimuoverli?

Accade più spesso alle persone che non ai marchi: il personal branding diventa essenziale, inteso anche come monitoraggio costante e rilevazione del sentiment. Questo perché la lesione della reputazione personale di politici, amministratori delegati e VIP può portare gravi conseguenze. In una dimensione più “locale”, anche piccoli imprenditori e professionisti come medici, avvocati o commercialisti possono essere fortemente danneggiati da illazioni, implicazione in illeciti o errori reali ma commessi in buona fede.

Dunque, cosa fare se i risultati negativi sono già presenti, magari su testate forti che si attestano ai primissimi posti nei risultati di ricerca di Google? Vediamo cos’è il diritto all’oblio e come farne richiesta in maniera corretta.

Come ripulire la SERP

Esistono attività e risorse che si possono mettere in campo per cercare di ripulire le SERP in maniera proattiva e positiva. Il monitoraggio costante, tramite tool specifici e settaggio degli Alert di Google sul proprio nome brand, ad esempio, ma anche un’attenta moderazione dei commenti sulle pagine social personali o aziendali. Ovviamente, questo dovrà avvenire mettendo sempre al centro l’utente e fornendo risposte adeguate al contesto, sia come contenuti che come tono di voce.

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La creazione e diffusione di contenuti positivi legati a un brand o a un personaggio pubblico, come articoli di un Blog ufficiale che forniscano informazione realmente interessanti e utili al pubblico, possono essere un altro ottimo modo per mostrare competenza e per farsi trovare dagli utenti attraverso risultati positivi.

Nei casi in cui ci sia una testata specifica, magari autorevole ma locale e avvicinabile, è pensabile anche agire attraverso azioni di PR vere e proprie. Come? Contattando la redazione e chiedendo delle rettifiche, se si hanno a disposizione informazioni aggiornate o più veritiere.

Cosa è la rimozione delle informazioni personali

Tutto utile, ma ci sono situazioni in cui i risultati negativi esistono già sulle pagine di ricerca di Google. Magari ai primissimi posti e magari da parte di fonti talmente autorevoli da essere difficilmente contattabili o impossibili da scalzare tramite contenuti propri e rettifiche autoprodotte.

Il diritto all’oblio messo a disposizione da Big G stesso a partire dal 2014, nasce proprio per fronteggiare questa situazione. Si tratta di un form denso di informazioni, identificato come “Modulo di richiesta per la rimozione delle informazioni personali ai sensi delle leggi sulla privacy europee” . Un documento da compilare con grande attenzione e dovizia di particolari, che il colosso di Mountain View potrà poi valutare, decidendo se la richiesta di rimozione è valida o meno.

Quando si può richiedere la rimozione ai sensi delle leggi sulla privacy

Innanzitutto, è bene spiegare che questo intervento può andare ad agire solo sui risultati negativi presenti nella SERP di Google: sono esclusi, quindi, i risultati degli altri motori di ricerca e delle piattaforme social.

E soprattutto, è essenziale sapere che non si tratta di una vera e propria “rimozione”: questo termine è utilizzato in modo improprio dato che, in realtà, quella che viene inoltrata è una richiesta di de-indicizzazione di specifiche URL. De-indicizzare significa, infatti, non che i risultati vengono del tutto cancellati, ma semplicemente che non saranno più mostrati nelle search engine result page per le specifiche query relative al brand o al nome della persona coinvolta.

Importante capire quando una richiesta è considerata legittima e valida: bisogna compilare il modulo in ogni sua parte, in modo corretto, ed eventualmente presentare regolare documentazione aggiuntiva che attesti la veridicità di quanto stiamo affermando. Fino a qualche anno fa, senza documenti legalmente validi da caricare come allegati alla domanda, la richiesta non veniva nemmeno presa in considerazione né approvata. Oggi, il campo upload della documentazione non è più presente nel modulo, ma Google si riserva di chiedere informazioni aggiuntive per completare la procedura.

Cosa dice la normativa in Italia: privacy e GDPR

Ci sono state lunghe contestazioni relative all’applicazione del diritto all’oblio a livello internazionale: Google, infatti, anche secondo la Corte di Giustizia non è tenuto a “valicare le frontiere” digitali. La rimozione, quindi, non si applica in maniera trasversale sui risultati di tutti i Paesi dell’UE.

In pratica, se una richiesta presentata a Google Italia attraverso il modulo per la rimozione di URL italiane dovesse venire accettata, quei risultati verranno de-indicizzati solo sulla versione IT del motore di ricerca. Volendo effettuare la rimozione su più Paesi sarà necessario inoltrare più richieste, una per ogni versione nazionale del motore.

Google può, inoltre, utilizzare le informazioni personali indicate nel modulo (tra cui l’indirizzo e-mail e i dati identificativi), e ulteriori dati forniti nella corrispondenza successiva con i propri operatori, allo scopo di evadere la richiesta. Non solo, Google può comunicare dettagli della richiesta alle autorità per la protezione dei dati, nel momento in cui siano necessari a fini di indagine o per contestazioni alle decisioni prese da Google stesso.

Come fare ad esercitare il diritto all’oblio su Google, modulo e passaggi

La procedura, in senso stretto, prevede la compilazione di un modulo online. Oltre ai dati personali e alla dichiarazione del fatto che la richiesta venga effettuata per sé, per la propria azienda o per terzi (necessario in ogni caso l’upload di un documento d’identità dell’interessato), bisogna poi elencare puntualmente ogni URL che si desidera far de-indicizzare. Ovviamente, la richiesta dovrà contenere l’esplicita motivazione del perché vogliamo che vengano de-indicizzate.

Questo vale nel caso in cui si utilizzi il modulo “generale” per presentare la richiesta di rimozione di risultati specifici per query che includono un nome o un marchio sulla Ricerca di Google, ma esistono anche procedure specifiche per altri prodotti Google, come Drive, Maps, Play, Immagini o YouTube.

La Riforma Cartabia

Resta però aperto un punto fondamentale, in un periodo storico in cui la libertà di parola è una tema caldissimo: come far convivere il diritto di cronaca dei giornalisti con il diritto all’oblio delle aziende? L’Italia arriva con qualche anno di ritardo rispetto alla normativa europea nel mettere dei paletti concreti a questa problematica. Il tutto, all’interno della Riforma Cartabia che, tra le altre tematiche legate al diritto dei minori e al penale, parla anche di regolamentazione della web reputation.

Cosa accade, infatti, quando il web si appropria all’istante di notizie trapelate dalle aule di tribunale, prima ancora dell’emissione di una sentenza? Titoli sensazionalistici e presunzione di innocenza spesso non vanno affatto d’accordo. Con buona pace dell’imputato che, sebbene dichiarato innocente e prosciolto a fine processo, si troverà comunque menzionato negativamente su testate online e quotidiani, locali o nazionali che siano.

Oggi, un particolare emendamento della riforma garantirebbe a ogni cittadino, infatti, di poter rimuovere automaticamente e in tempi più rapidi nomi e dettagli inesatti o datati da articoli in rete, tramite la deindicizzazione.

La non rimozione degli stessi sarebbe da considerarsi una vera violazione del principio di non colpevolezza, previsto dalla Costituzione italiana e dalla Corte Suprema Europea. Questo si lega a un altro principio regolamentato da Cassazione e Garante della Privacy, ossia il “diritto all’onore nella società mediatica”.

Diritto di cronaca e diritto all’oblio

Il diritto di cronaca, ovviamente, rimane essenziale, ma deve adattarsi a queste direttive. Magistrati e avvocati dovranno garantire il maggiore riserbo possibile e conferenze stampa e notizie relative a procedimenti in atto non potranno avere luogo se non a porte chiuse, o per casi di estremo rilievo mediatico a livello nazionale.

In un mondo sempre più digitale, infatti, è fondamentale comprendere come le regole reputazionali che valgono nella realtà “fisica” debbano necessariamente estendersi anche all’online. Illazioni, minacce e falsità esplicitate su canali Social e siti web non valgono “meno” del loro equivalente fisico, al contrario: sono sempre e comunque passibili di querela e denuncia da parte del soggetto leso.

Oltre un milione di richieste inoltrate in sei anni

Di recente, Surfshark ha pubblicato uno studio che monitora l’andamento delle richieste di rimozione inoltrate in 32 Paesi europeei dal 2015 a oggi. In questi anni sono state inviate oltre 1.066.000 richieste. Di queste, oltre un milione (il 96% del totale) riguardano informazioni esposte da Google, mentre solo 45mila quelle che risultano sul motore di ricerca targato Microsoft.

L’Italia si colloca al quinto posto tra le nazioni che si distinguono per numerosità di richieste inoltrate (oltre 89mila). In testa si posiziona la Francia (circa 1/4 delle domande), seguita da Germania, Regno Unito e Spagna.

Mentre la metà delle pagine per cui sono pervenute richieste di cancellazione non può essere classificata all’interno di una categoria specifica, circa il 17% è da annoverare tra le informazioni professionali (es. un indirizzo eMail aziendale) ormai divenute obsolete. Una pagina su 10, in media, fa riferimento a informazioni riguardanti attività criminali e il 6% delle domande riguarda la cancellazione di informazioni personali come la residenza o il numero di telefono di rete fissa.

Articolo originariamente pubblicato il 15 Nov 2021

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Greta Lomaestro

Da 11 anni nel settore Comunicazione&Marketing, con un focus sul Digital, mi occupo di consulenza strategica, media relations, contenuti, social media, eventi e formazione. Autrice del libro "Strategia digitale per le PMI"

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