Diversità e inclusione, insieme a equità, sono le parole che racchiudono la grande questione del presente e che impongono a tutte le aziende una riflessione profonda su come comunicano, all’interno dell’organizzazione e verso il mondo esterno. È una riflessione che deve partire dal linguaggio utilizzato e dalla conoscenza del suo reale significato, perché le parole sono intimamente collegate alla realtà, la condizionano e la possono trasformare.
Lo ha spiegato la linguista Vera Gheno intervenendo al Markering & Sales Forum organizzato da Performance Strategies. «La realtà influenza la lingua, perchè quando viene inventata una cosa nuova c’è bisogno di chiamarla per nome: Bruno Migliorini, grande linguista del 900, definiva l’essere umano “onomaturgo”, ovvero datore di nomi alle cose. Ma è vero anche il viceversa: la lingua influenza la visione della realtà».
L’esempio che l’esperta fa riguarda la parola “invertito”, utilizzata fino a 10-15 anni fa per definire gli omosessuali. «È la classica parola che non solo contiene una descrizione, ma anche un giudizio, ovvero che la persona è contro natura. Nel momento in cui si è iniziato ad abbandonare questa dizione per un più neutro gay o omosessuale, piano piano la società ha iniziato a guardare ad altre sessualità in maniera differente».
Comunicare la diversità e inclusione in azienda: una necessità moderna
Per affrontare correttamente il tema della diversità, inclusione ed equità in azienda è dunque necessario pesare le parole. Se si vuole rendere il Marketing inclusivo, la comunicazione deve riflettere sull’uso che fa del linguaggio, sapendo che l’errore è sempre in agguato e quindi ogni passo va fatto con cura, come nel free climbing: «Arrampicarsi su una montagna comporta che a ogni passo si controlli di avere la presa salda – dice Gheno -. Se è sempre normale incappare in errori di comunicazione, oggi c’è un rischio in più: l’iperconnessione ci ha resi tutti personaggi pubblici, per cui una frase o un’azione che facciamo in un certo contesto può facilmente finire in un altro e apparire fuori luogo».
Me è davvero necessario, ci si potrebbe chiedere, parlare di diversità e inclusione in azienda o siamo nel pieno di una tendenza passeggera destinata a esaurirsi? Risponde l’esperta: «Per quanto possa essere percepito come una moda, è diventato oggi una necessità. La globalizzazione ha ridotto le dimensioni del nostro mondo e Internet ci mette di fronte alla diversità continuamente. Questo incontro è dunque diventato pane quotidiano di chiunque».
Il punto è che viviamo in un contesto sociale che è istintivamente è xenofobo. «Come ci spiega l’evoluzionista Telmo Pievani, agli esseri umani non piace la differenza. È sempre qualcosa per cui bisogna faticare e che peggiora nel tempo: dopo una certa età gli esseri umani sono sempre più infastiditi dalle novità», puntualizza Gheno.
In questo, le aziende hanno una grande responsabilità, perché una volta finita la scuola l’azienda rimane uno dei pochi posti dove si fa formazione. «La lingua è qualcosa su cui ci si continua a formare per tutta la vita e quindi in ambito aziendale c’è la possibilità di creare dei circoli virtuosi», dice Gheno, che ricorda anche che c’è una dimensione da non sottovalutare, quella del potere: chi all’interno di una società ha più potere, economico, politico, sociale o imprenditoriale, ha anche più modo di far sentire le proprie parole. E, viceversa, chi non ce l’ha non viene ascoltato.
C’è un altro motivo fondamentale per cui è determinante, nel contesto della comunicazione aziendale, ragionare su queste questioni profonde prima di proporsi al mercato come una realtà attenta ai bisogni di questa o quella categoria: è l’unico modo per evitare il washing, il rischio di comunicare qualcosa che, in realtà, non viene fatto, con un effetto boomerang.
Il linguaggio inclusivo, o ampio
Se è vero che le parole evolvono con la società e la definiscono, ne deriva che oggi è necessario usare un linguaggio inclusivo (Gheno preferisce usare il termine linguaggio ampio), che significa usare parole ponendo attenzione alle caratteristiche umane che possono provocare discriminazioni.
La società moderna si riconosce nei termini diversità, inclusione ed equità, ma non è sempre stato così, proprio perché il linguaggio evolve con il contesto. Ci si è arrivati dopo una serie di passaggi, e altri ancora seguiranno negli anni a venire. In passato si parlava di tolleranza: ma la diversità non è qualcosa che va tollerato, come un problema di salute. Poi si è iniziato a utilizzare integrazione, ma anche questa parola contiene un messaggio che suona così: “puoi far parte della nostra società a patto che ti comporti come noi”.
Anche il concetto di inclusione ha i suoi limiti, perché è tutto spostato su chi fa l’inclusione, non su chi la subisce. «Stranamente non sembra tenere conto di quello che desiderano le persone incluse – dice Gheno -. Fabrizio Acanfora suggerisce invece di utilizzare “convivenza delle differenze”. La diversità non è un fastidio, qualcosa da sistemare, ma la naturale presenza di caratteristiche differenti negli esseri umani che convivono.
Ecco le parole che, secondo l’esperta, rispondono oggi a questi nuovi bisogni: sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale, etnia, religione, disabilità, neurotipicità, corpi non conformi, caratteri non conformi, status socioeconomico.
Sono in molti a pensare che tutto questo non sia davvero importante, che nominare queste categorie sia superfluo. Ma la linguista ci spiega che lo è, anche se non ce ne rendiamo conto: «Noi esseri umani siamo animali che ragionano per tassonomie, per cui attraverso la lingua capiamo la realtà. Come diceva Aristotele, la nostra è una società basata sul logos cioè sulla capacità del linguaggio. Chi non ha il logos fa meno parte della polis. La parola ha una infinita potenza, che non è mai fine a se stessa ma ci può davvero aiutare a vivere in maniera migliore, dentro e fuori dall’ambito professionale», conclude Gheno.