Editoriale

Perché mai le banche dovrebbero finanziare le PMI?

Sono cattive le banche italiane che erogano poco credito alle piccole e medie imprese? Considerato che il loro obiettivo è remunerare il capitale e salvaguardare al contempo la sicurezza dei nostri depositi, hanno giustificazioni reali. Ma oggi appare indispensabile operare per agevolare l’accesso ai finanziamenti, attraverso interventi a supporto delle PMI: ridurre la tassazione sul lavoro e accelerare le procedure di fallimento sono due tra i più urgenti

Pubblicato il 12 Dic 2013

Banche

@umbertobertele

Umberto Bertelè, che presiede l’Advisory Board di ICT4Executive, è ordinario di Strategia e sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano e presidente onorario del MIP. È autore del libro “Strategia” edito da Egea Clicca qui per scaricare il pdf

Troppo spesso pensiamo che la numerosità delle PMI sia una peculiarità del nostro Paese, ma non è così. Come il Chief European Commentator dello Wall Street Journal Simon Nixon faceva notare di recente, hanno una dimensione piccola o media il 99 per cento delle imprese dell’eurozona: “imprese che assorbono i due terzi circa dell’occupazione totale, che hanno rappresentato storicamente i principali motori dell’innovazione e della crescita, che usano il credito bancario come strumento predominante di finanziamento e che in questa fase storica si scontrano con grandi difficoltà per ottenerlo, con forti rischi per la ripresa dell’economia dell’eurozona stessa”.

Sono cattive le banche che erogano poco credito alle PMI, non facendo quello che la gran parte di noi ritiene il loro vero mestiere e dovere? È colpa dell’effetto-sirena esercitato dai titoli di stato o dal “mercato delle scommesse” (derivati ecc.)?

Credo che la risposta a queste domande, e a quella provocatoria contenuta nel titolo che le riassume, non possa essere immediata e meriti invece qualche riflessione, anche per cercare di comprendere quali correttivi potrebbero essere messi in atto.

Sono cambiate in primo luogo, rispetto al periodo ante-crisi, alcune fondamentali regole del gioco. Le nuove regole introdotte per evitare il rischio di fallimenti a catena con effetti sistemici impongono alle banche un uso della leva molto più moderato: questo significa che a parità di prestiti il capitale proprio deve essere molto più alto o che a parità di capitale il livello dei prestiti deve essere fortemente ridotto (in diversi casi dimezzato), con un pesante abbassamento della redditività dello stesso (ben visibile nei cali subiti dal valore di borsa delle banche commerciali). Occorre cioè più capitale di prima, remunerato peggio, se non si vuole restringere il credito. Se questo è vero in tutta l’eurozona, la situazione delle banche italiane è resa più critica dallo squilibrio (dell’ordine dei 300 miliardi di euro) storicamente esistente fra depositi e prestiti: squilibrio facilmente finanziato sul mercato obbligazionario quando lo spread del nostro Paese era molto basso, molto più costoso ora se non passando per il “provvidenziale” piano LTRO messo a punto da Draghi come capo della BCE (piano però “fatto su misura” per favorire l’acquisto dei titoli di stato e per questa via ridurre lo spread del Paese e di riflesso delle banche).

È intervenuto in secondo luogo un problema di carenza di informazione. Il processo di consolidamento da un lato e di razionalizzazione (anche a seguito dello sviluppo del digitale) dall’altro, intrapreso dal sistema bancario europeo, che ha portato alla chiusura di numerose agenzie (4.600 circa ad esempio nelle prime sette banche italiane dal 2008 a oggi) e alla centralizzazione di diverse funzioni, ha spesso provocato una cesura fra le banche e le PMI loro clienti, rendendo molto più difficile la valutazione della bontà delle stesse, soprattutto ove sono le risorse umane l’asset fondamentale.

In terzo luogo, è emerso con ancora maggiore risalto (a causa della numerosità dei fallimenti), e soprattutto nei Paesi cosiddetti “periferici” del Sud Europa (tra cui il nostro), il problema della “opacità” e della lentezza delle procedure fallimentari, che – diminuendo o allontanando troppo nel tempo la possibilità delle banche di recuperare almeno in parte i danari concessi – aumentano la pericolosità della concessione di crediti alle PMI: pericolosità aggravata dal fatto che le leggi anti-usura (da diversi punti di vista comprensibili) impediscono di prezzare correttamente il rischio al di là di un certo limite.

Le banche, che sono imprese che devono remunerare il capitale e nel contempo istituzioni che devono salvaguardare la sicurezza dei nostri depositi, hanno quindi “dalla loro” una serie di giustificazioni (oltre a quella che le minori erogazioni sono dovute almeno in parte alla minore domanda per nuovi investimenti): giustificazioni che non raramente usano anche per coprire la non concessione di crediti quando ce ne sarebbero tutte le condizioni, perché altre destinazioni promettono maggiori soddisfazioni a breve in termini di profittabilità e/o di acquisizione di gratitudini politiche.

Ma la posta in gioco è molto alta e le scelte di mercato, in assenza di correttivi che rimuovano le non-convenienze a prestare soldi alle PMI, possono essere molto dannose per l’economia reale. È indispensabile operare per rimuovere gli ostacoli reali, o per evitare che essi vengano usati come alibi, ed è indispensabile farlo in tutta l’eurozona: perché, come sostiene Simon Nixon, per i policy makers dell’eurozona stessa “SME funding is now the single biggest policy challenge”.  È forse ancora più indispensabile farlo in Italia, ove la “pattuglia” delle grandi imprese di respiro internazionale è più sparuta rispetto agli altri grandi Paesi e ove quindi il futuro è ancora più legato alla sorte delle PMI.

Ne avremo la forza? La speranza è l’ultima morire, alcune soluzioni sono sotto gli occhi di tutti, ma realizzarle appare spesso un’operazione titanica.

Ne cito due. Occorre, come chiede con insistenza Confindustria, rafforzare le imprese – le PMI in particolare – intervenendo sulla tassazione del lavoro e trovando le risorse con la spending review: ma Confindustria dovrebbe iniziare a dare il buon esempio, “facendo pulizia in casa propria” e chiedendo una redistribuzione radicale delle mille provvidenze destinate alle imprese socie, troppo spesso finalizzate al mantenimento in vita di veri e propri zombie. Occorre intervenire con vigore sulla legislazione fallimentare e soprattutto sull’organizzazione della giustizia civile, per riportarci ai tempi medi europei per arrivare a sentenza: ma, soprattutto per il secondo punto, ci si scontra con una resistenza formalmente ispirata all’autonomia, ma troppo spesso di marca corporativa.

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