LEADERSHIP

Goleman: «L'intelligenza emotiva è due volte più importante delle competenze tecniche»

Daniel Goleman, il padre della teoria della Emotional Intelligence, spiega perchè è importante integrarla nei principi dell’azienda e come è utile ai leader, soprattutto oggi. «Per ottenere il massimo da un team non basta avere skill tecniche eccellenti e un altissimo IQ. Ma neppure essere “solo” simpatici o gentili»

Aggiornato il 22 Set 2023

Daniel Goleman è prima di tutto uno psicologo, ma è anche uno degli autori più famosi di management strategico. Il suo concetto di intelligenza emotiva (Emotional Intelligence), enunciato nel best seller “Intelligenza emotiva, che cos’è e perché può renderci felici” del 1995, ha avuto profondi impatti non solo nel campo della psicologia e dell’insegnamento, ma anche sulle teorie della leadership aziendale.

Ormai ultra settantenne, Goleman è ancora un attivo divulgatore. La sua fama si deve a un’idea oggi tutto sommato accettata universalmente, ovvero l’importanza delle soft skill nel lavoro, perchè l’intelligenza emotiva è proprio questo. Negli anni, ha sviluppato il concetto di EQ con libri, consulenze e conferenze in tutto il mondo. È stato dichiarato dal Wall Street Journal e dal Financial Times uno dei più influenti business thinker al mondo, e la Harvard Business Review ha definito l’intelligenza emotiva “un’idea rivoluzionaria”, premiando il suo articolo “The Focused Leader” con l’HBR McKinsey Award come miglior articolo dell’anno 2013. Articolo poi sviluppato l’anno dopo in un altro best seller, intitolato “Focus: The Hidden Driver of Excellence”.

Daniel Goleman

Psicologo e Co-Director Consortium for Research on Emotional Intelligence in Organizations, Rutgers University

Cosa è l’intelligenza emotiva (e cosa non è)

Goleman ha sistematizzato e tradotto in best practice un concetto semplice, e cioè che per essere un leader di successo non bastano competenze tecniche eccellenti, e neanche un altissimo quoziente d’intelligenza (IQ). Occorre anche una componente irrazionale ed emotiva, detta appunto Emotional Intelligence, o EQ per distinguerla dall’IQ razionale. E cioè un mix di capacità di conoscere e controllare se stessi, e di capire e coinvolgere gli altri, che è innato ma in parte si può migliorare e ottimizzare. E che, naturalmente, migliora la qualità delle relazioni e il nostro benessere mentale.

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Più volte Goleman ha parlato delle competenze necessarie per sviluppare il self management e ottenere alte prestazioni, del potere dell’autoconsapevolezza come base per il proprio sviluppo professionale, di come diventare un leader di successo sviluppando profonde relazioni interpersonali.

Cosa è l’EI per Salovey e Mayer

Negli ultimi anni, la disciplina dell’intelligenza emotiva ha catturato l’attenzione di un pubblico aziendale sempre più ampio, fatto di manager e C-level interessati a padroneggiare al meglio le proprie emozioni per garantire una leadership più illuminata e inclusiva, creare un ambiente di lavoro più coeso e produttivo.

Non molti conoscono la vera origine del concetto di EI, che viene spesso attribuito erroneamente a Golem ma che in realtà è stato definito per la prima volta dagli psicologi americani Peter Salovey e John Mayer nel 1990.

I due, accademici di Yale, l’hanno identificata nella capacità di monitorare e rielaborare le proprie emozioni tenendo conto anche di quelle altrui, discriminare le diverse emozioni e utilizzarle per orientare pensieri e azioni. Secondo Salovey e Mayer, l’intelligenza emotiva è composta da tre abilità principali:

  • Riconoscimento delle emozioni
  • Regolazione delle emozioni
  • Corretto utilizzo delle emozioni

L’intelligenza emotiva porta a decisioni migliori?

L’idea dei due studiosi è che i sentimenti porterebbero le persone, quindi anche i leader aziendali, a prendere decisioni migliori. Come? Trovando soluzioni più creative ai problemi, sviluppando un atteggiamento adattivo nella gestione degli imprevisti e più comprensivo verso le esigenze altrui, facendo leva su quattro abilità:

  • Capacità di identificare, recepire correttamente e valutare le emozioni (proprie e altrui), quindi arrivare a capire quel chi si prova e quello che gli altri provano;
  • Facilitazione emotiva del pensiero, ovvero la capacità di farsi guidare dalle emozioni nel prendere decisioni;
  • Interpretazione di emozioni complesse, come quelle che contemplano insieme fascinazione e paura, oppure sorpresa e disgusto, rilevando i corretti passaggi di transizione tra le diverse emozioni provate;
  • Capacità di gestire le emozioni incanalandole correttamente per raggiungere gli obiettivi, attenuando il peso di quelle negative e assecondando quelle positive.

Il modello di Bar-On sull’intelligenza emotiva

Un’altra definizione talvolta citata negli studi di management è quella proposta dallo psicologo israeliano Reuven Bar-On nel 1997, secondo cui l’EI comprende un insieme di abilità e conoscenze acquisite, competenze emotive e sociali che, nel loro insieme, determinano la capacità di un individuo di interagire in modo efficace con gli altri. Queste competenze sono suddivisibili in cinque meta-fattori:

1) La consapevolezza delle emozioni e l’espressione dei sentimenti;

2) La comprensione profonda dei sentimenti e la capacità di interagire con gli altri;

3) La gestione e il controllo delle emozioni;

4) La capacità di adattarsi al cambiamento e risolvere problemi personali e interpersonali;

5) La capacità di generare emozioni positive per migliorare la motivazione personale, al fine di favorire un comportamento emotivamente e socialmente intelligente.

Questi cinque meta-fattori includono in totale 15 skill, tra cui la consapevolezza, l’assertività, l’empatia, la responsabilità sociale e la tolleranza allo stress, che identificano altrettante qualità di un buon leader aziendale.

La reazione più efficace contro lo stress

Gli studi oggi confermano che maggiore è la nostra intelligenza emotiva, migliore sarà la nostra risposta di fronte a situazioni di stress. Inoltre l’IE migliora il nostro umore e ci permette di ottenere una maggiore soddisfazione sia a livello personale che professionale.

«Dopo oltre vent’anni continuo a trovare articoli, anche su testate autorevoli, che dicono che l’intelligenza emotiva è essere simpatici, o gentili, o empatici, o addirittura valorizzare la propria parte femminile». L’ultima cosa è falsa – non è vero che le donne hanno EQ più alta, e non c’è una prevalenza di genere nei top performer – e le altre sono solo una parte della verità”, scrive Goleman. Che definisce la EQ come “la capacità di riconoscere le proprie emozioni, quelle degli altri, gestire le proprie e interagire in modo costruttivo con gli altri”.

Quali competenze occorre sviluppare

Questa definizione si traduce in un modello che comprende 5 domini e 12 competenze. Più precisamente, i domini, con relative competenze, sono:

  • Self Awareness (consapevolezza di se stessi).  La base dell’intelligenza emotiva;
  • Self Management (autocontrollo). Parliamo di ottimismo, adattabilità, autoregolazione, capacità di definire e raggiungere obiettivi;
  • Social Awareness (coscienza sociale). Include l’empatia e la consapevolezza organizzativa;
  • Relationship Management (gestione delle relazioni). Si riferisce alla capacità di ispirare e influenzare gli altri, di aiutarli agendo come un coach o un mentore, gestire i conflitti e lavorare in team;
  • Empathy (empatia). Fa riferimento alla capacità di comprendere, pienamente e profondamente, gli stati d’animo altrui.

Gestire se stessi e sintonizzarsi sugli altri

Semplificando al massimo, secondo Goleman l’EQ determina il successo della leadership attraverso due componenti. La prima riguarda “l’interno”: i leader sono capaci prima di tutto di gestire bene se stessi. Parliamo quindi di “self mastery”, self awareness, capacità di gestire emozioni contrastanti e spiacevoli, di mantenersi focalizzati sugli obiettivi anche durante le crisi, e fortissima adattabilità.

La seconda riguarda l’esterno e comprende la capacità di sintonizzarsi sulle altre persone del team, creare empatia con loro, capire come stanno, cosa pensano del progetto che si sta affrontando, le loro aspettative, risolvere i contrasti, fargli percepire il proprio interesse per loro. Questo permette al leader di capire come comunicare, influenzare, guidare, coinvolgere al meglio, ottenendo così il massimo dal suo team.

Gli studi dimostrano che, in ambito lavorativo, più si sale nei livelli dell’organizzazione, più l’intelligenza emotiva è importante. Ma cosa accade nel nostro cervello? La corteccia prefrontale è responsabile delle nostre decisioni, mentre l’amigdala è il luogo in cui solleviamo e risolviamo i problemi: si trova nel centro emotivo del cervello, è il rivelatore di paura che abbiamo nel corpo. Entrambe vivono in una costante tensione. L’intelligenza emotiva è il risultato della coordinazione armonica tra i centri emotivi e il centro esecutivo del nostro cervello.

Intelligenza emotiva e benessere in azienda

Una maggiore intelligenza emotiva nei dipendenti e nei leader implica una maggior soddisfazione nel lavoro, un maggior engagement, un turnover ridotto, più sentimenti positivi, elevate performance, migliore salute fisica e mentale e un miglior clima all’interno dell’organizzazione. Le aziende dalle alte performance hanno una serie di caratteristiche comuni relazionate con l’intelligenza emotiva, come comprensione interpersonale, franchezza, autoconsapevolezza del team, autovalutazione responsabilità e apprendimento costante.
Per costruire un’organizzazione emotivamente intelligente, è essenziale concentrarsi su questa competenza quando si assume nuovo personale, analizzare l’engagement e dare la giusta importanza all’intelligenza emotiva nella formazione e nello sviluppo dei team. È fondamentale integrare l’IE nei valori e nei principi delle aziende, facendo emergere così la versione migliore di ciascun membro del team.

Il recruiting e il competence modeling

«Ho incontrato il CEO di BlackRock, uno dei più grandi fondi d’investimento al mondo, – ha raccontato Goleman dal palco del World Business Forum di Sydney qualche anno fa -. Mi ha chiesto di spiegargli perché pur assumendo i più brillanti studenti delle migliori business school, le curve di performance nel suo staff rimangono “a campana”, cioè nella media. Gli ho risposto che la ricetta giusta non è assumere i “migliori” in assoluto, ma guardare nella propria azienda chi occupa la posizione per cui si sta facendo la ricerca, o l’ha occupata in passato, individuare il 10% dei top performer, confrontarli con gli average performer e scovare le abilità e competenze che i top performer hanno, e gli average performer non hanno».

Goleman definisce questa tecnica competence modeling. «Molte aziende la applicano, specialmente per selezionare il top management. Ho avuto accesso ai dati di oltre 200 di questi processi di selezione, e ho riscontrato che, per incarichi di tutti i tipi, gli skill di intelligenza emotiva sono due volte più importanti di quelli tecnici o dell’IQ».

Gli skill tecnici li si può imparare a scuola, li possono avere tutti. «Ma più sali in alto nella gerarchia organizzativa, più sarà importante l’intelligenza emotiva. Tra i C-Level, l’85% delle competenze che distinguono i top performer sono di EQ. Sono dati che non ho rilevato io, ma le stesse aziende. Un C-Level non usa più gli skill tecnici. Quello che fa per gran parte del tempo è gestire le persone, oltre che se stesso».

Lo stato di flow

Insomma l’arte della leadership è centrare gli obiettivi attraverso la qualità del lavoro degli altri, precisa lo psicologo americano. «L’arte della leadership consiste nel portare e mantenere le persone nella fascia più alta dei livelli di performance, e questo succede quando le persone sono nel miglior stato di benessere personale. È uno stato ottimale che si chiama flow, in cui la persona stessa rimane stupita dei risultati che ottiene. Uno stato definito attraverso ricerche sui professionisti più diversi, dalle ballerine ai giocatori di scacchi, dai top manager ai militari».

Il flow ha alcune caratteristiche che si riscontrano regolarmente. «Una è uno stato di attenzione irremovibile sull’obiettivo, una focalizzazione al 100%. Un altro è la totale flessibilità, per cui qualunque cosa succeda, si è in grado di gestirla. Un terzo è che le competenze personali sono messe alla prova al loro massimo livello, a volte anche oltre. Insomma, si dà il massimo quando ci si sente al massimo».

Ma come creare una situazione del genere? «Un modo è stabilire charamente regole e obiettivi, ma lasciare una certa flessibilità sul modo di raggiungerli. Un altro è il feedback immediato, ovvero mantenere le persone costantemente aggiornate su quanto bene stanno perseguendo l’obiettivo. La terza è mettere alla prova e far crescere le loro competenze e cercare di far coincidere quello che le persone sanno fare con i compiti loro assegnati».

Leadership e social brain, il ruolo dei neuroni specchio

Un aiuto per creare uno scenario adatto al flow, continua Goleman, è il “social brain”. È una scoperta di una decina d’anni fa, quando si è cominciato lo studio dell’interazione tra i cervelli, oltre che del singolo cervello.

«C’è una zona del cervello che funziona come un “radar neurale”, cerca di capire cosa succede nel cervello dell’altra persona e stabilisce con esso una comunicazione che va al di là della comunicazione verbale. Sono i neuroni specchio, scoperti in Italia, che creano un ponte tra cervello e cervello, un ponte che comunica emozioni, sentimenti, intenzioni. Ecco perché le emozioni sono contagiose, e perché la natura umana porta a dare grande attenzione e importanza a quello che il leader del gruppo fa e dice. Il leader è il determinante sia del meglio, sia del peggio».

Insomma, il leader deve usare il “social brain” per far rendere al massimo le persone. «È così che otterrete il miglior ritorno d’investimento dai salari che la vostra azienda paga al vostro team. Gestire lo “stato emozionale” delle persone è estremamente importante, dal top management al front end, cioè i punti di contatto tra azienda e mercato. Chiunque nell’azienda sia l’interfaccia con il cliente, infatti, ha il potere di “farlo stare bene”. E se il cliente “sta bene” non è solo ben disposto verso la persona che fa da interfaccia, ma è ben disposto verso la vostra azienda».

L’intelligenza emotiva si può anche imparare

«Una delle domande che mi fanno più spesso è se l’intelligenza emotiva si può imparare. La risposta è sì – spiega Daniel Goleman -. Se un leader ha delle deficienze di empatia, o nella gestione delle proprie emozioni, può migliorarsi su questi punti come su qualunque altro skill di intelligenza emotiva».

Deve, però, essere disposto a investire tempo e impegno, e avere un’idea precisa di come viene percepito dalle persone, cioè dei suoi reali punti di forza e debolezza. «Occorre definire un accurato profilo EQ di partenza, il miglior modo è fare un’indagine anonimizzata tra tutti quelli con cui si lavora quotidianamente. Inoltre deve fare un “contratto” con se stesso: se per esempio la parte da rafforzare è la capacità di ascoltare, deve fare pratica su questo ogni volta che ne ha occasione, mettendo in background tutto il resto e focalizzandosi sull’ascolto. Se fa questa cosa regolarmente, dopo qualche mese diventerà spontanea. Ottenere risultati da soli però è molto difficile, meglio farsi aiutare da un “coach” con un programma personalizzato».

Altra domanda frequente è come rilevare l’intelligenza emotiva di un dipendente o un candidato. «Un modo è improvvisare una “simulazione di lavoro”. Sottoporre un compito o un problema – per esempio ricomporre un litigio tra due persone – e studiare come il candidato lo affronta al momento. Un altro modo è chiedere alla persona durante il colloquio qual è il peggiore errore che ha fatto sul lavoro e come lo ha gestito».

 

Articolo originariamente pubblicato il 02 Nov 2021

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