Strategie

Revevol, il pioniere della G Suite in Italia che trasforma il lavoro in azienda con il cloud

Massimo Cappato, fondatore e AD di Revevol, è stato fra i primi in Italia a intuire le potenzialità della collaboration in cloud, una strada aperta da Google 10 anni fa: ha lasciato la carriera in consulenza per fondare l’azienda, che ha poi sviluppato una soluzione di document management adottata dalla stessa BigG. «La parte distintiva dei progetti è il change management. La tecnologia funziona. Il punto è: gli utenti saranno in grado di usarla?»

Pubblicato il 04 Set 2019

Manuela Gianni

Direttrice, Digital4Executive

revevol

Prevedere 10 anni fa che la Gmail di Google sarebbe diventata l’attuale G Suite e che avrebbe dilagato nelle aziende non era affatto scontato. I pochi che ebbero allora questa intuizione hanno cavalcato in anticipo la grande onda della collaboration in cloud, che in poco tempo ha portato nelle aziende una nuova generazione di sistemi, facendo diventare obsolete le soluzioni on premise. Non è stato solo un salto tecnologico, ma una trasformazione profonda del modo di lavorare, di comunicare, di condividere informazioni, di gestire i processi documentali, abilitata da soluzioni in cloud pensate per le aziende ma facili da usare, come quelle consumer. Un vero cambio di paradigma organizzativo.

Fra chi ebbe allora quella intuizione c’è Massimo Cappato, Amministratore Delegato di Revevol Italia, società che, come recita il pay off, è “Nata nel cloud per guidare la trasformazione digitale”.

Nel 2007 è stata il primo partner europeo di Google Apps for Business, come si chiamava allora la G Suite, e oggi è una “multinazionale tascabile” con oltre 700 clienti in tutto il mondo. Nel frattempo, all’offerta di collaboration di Google sono state affiancate quella di Microsoft e Workplace by Facebook. Nell’ambito del Gruppo Revevol è stata anche sviluppata una piattaforma per la gestione dei processi collaborativi, AODocs, oggi utilizzata internamente anche dalla stessa Google, come ci spiega Cappato. Ingegnere, dopo un’esperienza decennale come consulente di grandi corporation in una delle “Big Four” il manager decise di ricominciare da zero la propria vita lavorativa come imprenditore, scommettendo tutto su Google.

Revevol nasce nel 2007 per portare nelle aziende il cloud di Google. Come è andata?

Google è stata la prima a portare nelle aziende la tecnologia del mondo consumer e a proporre la collaboration in cloud. Allora aiutavo le grandi aziende nella strategia e nel sourcing di ICT, come consulente. Quando vidi la soluzione, intuii che sarebbe stata un’onda che avrebbe spazzato tutto. Così nel gennaio 2011 diedi le dimissioni e fondai Revevol, in collaborazione con i miei soci francesi che avevano avuto la stessa intuizione. Fu proprio Google a metterci in contatto, siamo nati da subito come una multinazionale. In Italia sono partito da solo, e oggi siamo 40, con competenze elevatissime. Tra l’altro, abbiamo realizzato uno dei più grandi progetti di collaboration in cloud a livello mondiale, il passaggio a GSuite del maggiore gruppo industriale italiano: una grande soddisfazione!

Oggi dove è presente Revevol?

In Europa abbiamo sedi a Parigi, Milano, Madrid, negli USA ad Atlanta e San Francisco. Abbiamo anche una filiale in India, da cui eroghiamo supporto ai clienti H24. Negli ultimi 5 anni abbiamo gestito progetti in 30 lingue, siamo veramente globali e multietnici. Nella sola sede di Milano lavorano persone di 5 nazionalità diverse.

Oltre a essere il vostro principale partner, Google è poi diventato anche vostro cliente?

Sì, è così, è una storia singolare. Dopo aver realizzato tanti progetti con alcuni dei principali clienti Google in Italia e nel mondo, ci siamo accorti che uno strumento come Google Drive è ottimo per la collaborazione interna alle imprese ma non è adatto da solo a supportare i processi aziendali strategici. Non parlo tanto di processi verticali, quelli gestiti da applicativi specifici come ERP o CRM, ma soprattutto di quelli che incorporano il DNA di un’azienda, e che devono essere flessibili, per poter evolvere. Sono “il middleware del business” e customizzare applicativi verticali in questi casi è un errore fatale. Nasce da qui AODocs, un sistema di gestione documentale e automazione di processo basato sullo stack tecnologico Google, che oggi ha 5 milioni di utenti, in grandi aziende come Solvay o Whirlpool così come in piccole o medie aziende in tutto il mondo, ed è utilizzato dalla stessa Google al suo interno.

Poi avete arricchito l’offerta con Microsoft, Facebook e altri applicativi in cloud…

Sì, siamo diventati anche partner Microsoft quando ha rilasciato Office365, per lasciare ai clienti la libertà di scegliere, e abbiamo aggiunto un terzo pilastro per il Digital Workplace, Facebook, che ci ha scelti come partner per il lancio globale di Workplace. Oggi la soluzione ha più di 2 milioni di utenti paganti ed è adottata da aziende come Nestlè e Vodafone, ma siamo ancora all’inizio. Credo che ci sia un potenziale di innovazione dirompente al servizio dell’enterprise, come accadde con Google 10 anni fa. Significa creare engagement con i dipendenti attraverso i social, ma in modo controllato. Inoltre si integra bene sia con Microsoft sia con Google: è senza dubbio il workplace del futuro, la scelta da fare è solo se accompagnarlo a Office365 oppure a G Suite.

Quali sono gli elementi di valutazione quando le aziende devono scegliere fra Google e Microsoft?

Non esiste la risposta assoluta, va calata sul caso concreto. Google implica una forte discontinuità nel modo di lavorare ma rende più facile rendere tutti più collaborativi, mentre con Microsoft è più semplice realizzare una trasformazione modulare e differenziata, su cluster di utenti. Le aziende ci chiamano anche per aiutarle nella scelta: sappiamo dare un contributo concreto, facciamo toccare con mano le soluzioni, attraverso i POC. Il cloud permette di farlo, non si sceglie più il software come un tempo “sulla carta”.

Qual è il vostro modello di vendita?

Puntiamo sul prodotto e su progetti brevi, limitando le customizzazioni al minimo indispensabile e senza far pagare al cliente cifre insensate per i servizi di integrazione. Non facciamo mai “body rental”, e questo è importante per le nostre persone: ci permette di selezionare i migliori. Non vogliamo vendere sviluppi custom che creano lock in: tutti i clienti usano la stessa piattaforma, questo è il cuore della nuova informatica in cloud. Occorre orchestrare il più possibile servizi senza sviluppare. È la nostra etica nel rapporto-cliente fornitore.

La parte distintiva dei progetti è il change management finalizzato all’ “adoption”, più che la parte tecnica. L’integrazione è minima, oggi la tecnologia funziona. Il punto è: gli utenti saranno in grado di usarla? Misuriamo l’utilizzo reale: le aziende comprano tanta tecnologia che poi non usano.

Prima di iniziare il progetto interagiamo con gli utenti di business, non solo con l’IT, per individuare i problemi reali e da qui costruiamo il progetto, accompagnando le persone verso nuovi modi di lavorare.

Qual è il focus per il futuro?

Il futuro prossimo è Intelligenza Artificiale e Machine Learning. Abbiamo già portato in cloud i dati e i documenti, ora stiamo aggiungendo lo strato di AI per estrarre valore. Sono 200mila i documenti aggiunti ogni giorno in AODocs. È una sfida appassionante, oggi è visibile solo la superficie. Il gap fra i clienti che sono andati in cloud e quelli che non lo sono si allargherà: non c’è più tempo per stare a guardare.

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