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10 anni che hanno cambiato il mondo: il vortice della Digital Economy e le strategie dei nuovi Big

Abbiamo raccolto in un eBook in pdf le riflessioni pubblicate dal 2010 al 2019 su Digital4Executive da Umberto Bertelè, professore emerito di Strategia al Politecnico di Milano. Un’occasione per ripercorrere le tappe più importanti della trasformazione digitale attraverso l’analisi delle strategie dei suoi protagonisti. Pubblichiamo la prefazione

Pubblicato il 12 Feb 2019

strategia

Digital4Executive ha raccolto in un e-book in pdf, sfogliabile e scaricabile a questo link, le riflessioni pubblicate sulla nostra testata nell’arco di un decennio da Umberto Bertelè, economista, professore emerito al Politecnico di Milano e autore del libro “Strategia” (Egea). Pubblichiamo la prefazione del libro.

Il primo articolo che appare nell’ebook “Anniversari: dieci anni fa lo scoppio della bolla Internet” è del luglio 2010, l’ultimo “Warren Buffett ha sbagliato (questa volta) scommettendo su Apple?” del gennaio 2019. Vi è meno di un decennio fra l’uno e l’altro. Ma un decennio che ha visto una crescita impetuosa del processo di digitalizzazione e una sua diffusione capillare nell’economia, nella organizzazione della società e in generale nella nostra vita. Un decennio che ha visto la crescita smisurata di alcune imprese e la totale disruption di altre. E il confronto fra i due articoli ne è una testimonianza.

Nel luglio 2010 l’iPhone – iniziatore dell’era della connessione permanente a Internet che ora coinvolge più di metà dell’umanità – aveva meno di tre anni di vita e Apple con il suo lancio aveva quasi raddoppiato la capitalizzazione (da 130 a 215 miliardi di $ circa), superando quella del nemico storico Microsoft, molto lontana ormai dai fasti del periodo ante-bolla. Al valore di Microsoft (175 miliardi) si stava avvicinando Google (160 miliardi), quotata solo sei anni prima, sull’onda del grande successo dell’(allora) innovativo digital advertising. Tencent era anch’essa entrata in Borsa da sei anni, l’altra grande cinese Alibaba ne era ancora lontana, mentre Facebook – fondata solo sei anni prima – si stava preparando ad entrarvi (come avvenne con successo l’anno successivo). Amazon, ormai sedicenne, stava proseguendo la sua crescita e aveva da poco superato quota 50 miliardi. Uber e Airbnb, le imprese-simbolo della sharing economy, erano in giovanissima età – 1 e 2 anni rispettivamente – e si stavano preparando a sfruttare la nuova moda del venture capital: non mettere le imprese in Borsa subito, ma (con gli ovvii rischi) farle crescere come private – finanziandone gli aumenti di capitale – per incamerare una fetta molto più rilevante del valore da esse creato (con Facebook primo caso di grande successo nel 2011 seguito da quello record di Alibaba nel 2015).

Il resto dell’economia si leccava ancora le ferite provocate dalla grande crisi iniziata nel 2008: Exxon valeva 235 miliardi circa, più di Apple ma lontana dai quasi 400 di fine 2007; General Electric, colpita nella sua rilevantissima componente finanziaria, era scesa a quota 120 dai quasi 300 di fine 2007; Ibm, un’altra ex-top, era a quota 130; General Motors era appena rientrata in Borsa, dopo essere uscita dalla bancarotta con il finanziamento dello Stato. Il termine digital disruption non era ancora di moda, anche se l’articolo ne evidenzia con chiarezza i primi casi: dai giornali – entrati in profonda crisi per la concorrenza negli acquisti da parte dei loro stessi siti e nella pubblicità da parte del digital advertising – alle imprese come Nokia, a lungo leader mondiale nel mobile, confinata dai successi di Apple e Samsung nella fascia più bassa del mercato.

Molto diverso il quadro che traspare dall’ultimo articolo del gennaio 2019. Se il primo esaltava la fase di crescita dello smartphone, l’ultimo si chiede se lo smartphone stesso – prodotto simbolo dell’era digitale – non si sia avviato verso la fase di maturità del suo ciclo di vita. Se il primo esaltava il quasi raddoppio di valore di Apple con il lancio dell’iPhone, il secondo si chiede se la caduta di 400 miliardi di $ nella capitalizzazione di Apple, tre mesi dopo aver raggiunto l’impressionante quota di 1.100 miliardi, non sia da attribuire solamente alle difficoltà dei consumi in Cina, ma rifletta i dubbi degli investitori sulla capacità del brand di continuare a sostenere prezzi-premio elevati (addirittura cresciuti negli ultimi tempi per compensare il rallentamento nella crescita): dubbi peraltro già affiorati ben due volte e poi risolti nel passato (“Apple sulle montagne russe”, febbraio 2016), ma sempre più consistenti. Si chiede se si profili la necessità per Apple di individuare una strategia alternativa in grado di garantirle profittabilità e profitti altrettanto elevati: un obiettivo tutt’altro che banale, essendo questi ultimi superiori ai 60 miliardi di $ (circa il doppio rispetto a Microsoft, Alphabet-Google e JPMorgan). Si chiede se la prospettiva indicata da Tim Cook, di trasformare sempre più Apple in una società di servizi online ad alto valore aggiunto approfittando dell’oltre un miliardo di suoi dispositivi (iPhone, iPad, Mac …) tuttora attivi, sia realistica o diventi viceversa indispensabile, per raggiungere un numero adeguato di potenziali clienti, svincolare (con un rovesciamento della sua storica strategia) la fruizione dei suoi servizi dal possesso dei suoi dispositivi. Il tutto in un contesto generale in deterioramento – caratterizzato da una forte reazione alla globalizzazione e all’emergere di guerre commerciali – e in un clima di crescente ostilità verso l’enorme potere acquisito dalle big tech.

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