Management

Social innovation nell’era digitale, oggi serve fare impresa in modo sostenibile e inclusivo

È possibile per un’azienda coniugare sostenibilità economica ed etica sociale? La risposta è sì, soprattutto in chiave hi-tech, come spiega Mario Calderini, titolare del corso Social Innovation in Management Engineering al Politecnico di Milano. Le tecnologie permettono di creare servizi e prodotti con un apporto di capitale minimo, promuovendo il riuso intelligente. Per consumatori sempre più attenti, disposti a pagare di più per filiere certificate e comportamenti corretti

Pubblicato il 20 Mar 2017

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Mario Calderini, titolare del corso Social Innovation in Management Engineering, Politecnico di Milano

Negli ultimi anni si sente parlare sempre più spesso di responsabilità sociale d’impresa o, nel mondo anglosassone, Corporate Social Responsibility (CSR). Le aziende ci tengono a comunicare il loro impegno concreto nelle iniziative di inclusione sociale, nei progetti di conservazione ambientale e divulgazione culturale e l’opinione pubblica è sempre più sensibile a queste tematiche. Spesso, poi, gli investimenti in marketing vengono dirottati in attività di natura etica che rientrano in una nuova visione strategica d’impresa. Non si tratta, quindi, di filantropia ma di una vera e propria inversione di rotta nei modelli economico-finanziari delle aziende moderne. Modelli che, nelle grandi organizzazioni, coesistono all’interno della medesima impresa e che le per aziende di nuova costituzione spesso rappresentano il “core business”, la strategia per eccellenza.

«Quando si parla di innovazione in chiave social – esordisce Mario Calderini, titolare del corso Social Innovation in Management Engineering presso il Politecnico di Milano alcuni pensano a qualcosa di noioso, altri di eccitante e trendy. La verità è che ci stiamo confrontando con un concetto vecchio che, però, oggi diventa centrale per il nuovo modo di fare impresa. L’innovazione sociale permette di generare nuove idee, nuove relazioni e collaborazioni, andando a coprire esigenze sociali che sono state ignorate dal mercato tradizionale».

Ma cos’è, dunque, un’impresa social?

Si tratta di un’impresa che fa propri alcuni aspetti etici e morali, come il rispetto per l’ambiente, l’inclusione sociale e la promozione culturale, del tutto

trascurati durante le prime fasi dell’industrializzazione (e anche in anni recenti). Il nuovo imperativo è “blended value”, perché l’impegno a preservare il territorio e il benessere delle persone non solo è un dovere sociale ma anche un moltiplicatore formidabile del ritorno sugli investimenti di marketing per queste aziende. Il concetto del “valore misto”, introdotto in anni recenti all’interno delle più importanti scuole manageriali, si aggancia a un modello di business per cui le organizzazioni, le aziende e gli investimenti sono valutati non sulla loro capacità di generare profitto ma su un mix di metriche di carattere sociale, ambientale e finanziario.
Le imprese sociali sono quelle che hanno come obiettivo principale una finalità di carattere etico e che reinvestono la maggior parte dei profitti ottenuti a sostegno di questo scopo o in progetti in favore della comunità, anziché distribuire dividendi tra gli azionisti.

Anche in Italia sono sempre più numerose le realtà – Barilla, Ferrero, Pirelli, Hera, giusto per citarne alcune – che pubblicano con regolarità (spesso con cadenza annuale) un bilancio sociale. Quest’ultimo è un documento con il quale un’organizzazione o un ente comunicano periodicamente in modo volontario (non esiste infatti una normativa che disciplini la materia) il risultato delle proprie attività non limitandosi ai soli aspetti contabili e finanziari ma includendo anche indicazioni in merito a finalità di ordine culturale, divulgativo, di inclusione sociale. Altre realtà, invece, nascono proprio come imprese sociali. Negli ultimi anni stiamo assistendo all’affermazione di questa nuova imprenditorialità etica, attenta al benessere della collettività e alla salute dell’ambiente. «Il mondo accademico ha sempre faticato a considerare l’innovazione sociale parte dell’innovazione – puntualizza il professore –. Oggi, però, le cose stanno cambiando e sono diverse le università che offrono percorsi formativi specifici. Io ai miei studenti parlo spesso di new social venture, una tipologia di imprese del tutto nuova rispetto alle no-profit del passato, che necessitano di manager preparati e attenti». Queste realtà nascono perché si verificano, specie nei paesi occidentali, alcune condizioni favorevoli. Gli enormi cambiamenti sociali che stiamo vivendo, infatti, rendono i consumatori sempre più attenti alle implicazioni ambientali e sociali delle loro abitudini di consumo. Evitano di acquistare abiti e scarpe prodotte utilizzando manodopera minorile, per contro sono disposti a pagare qualcosa in più per premiare le aziende che promuovono finalità etiche. Inoltre, il mondo del welfare e dell’assistenza attinge sempre più spesso a capitali privati per sostenersi, visto che i fondi pubblici scarseggiano. Senza contare il fatto che si diffondono nuovi paradigmi economici abilitati dal progresso tecnologico, che permette di produrre beni e servizi in modo molto più economico rispetto al passato.

Il ruolo della tecnologia nel capitalismo ibrido delle socialtech

La tecnologia, in questo circolo virtuoso, gioca un ruolo essenziale, tanto che il professor Calderini arriva a identificare una categoria specifica di new social venture, le socialtech (tecnology social venture). Si tratta di realtà che impiegano metodi di produzione più modulari, agili ed economici, fortemente orientati al riuso e al riciclo. Molte si rifanno ai principi della “circular economy” e adottano processi produttivi a bassissimo impatto ambientale, come il cradle-to-cradle1.

«Il valore di un’organizzazione, oggi, nell’economia digitale – commenta Calderini –, non è più legato a macchinari e capannoni ma a inventiva, capacità imprenditoriale, lungimiranza nel saper cogliere nuove opportunità di business. Le tecnologie, specie quelle ICT, diventano sempre più democratiche e si diffondono alla stregua di commodity Questo permette alle organizzazioni di iniziare a operare sul mercato e sopravvivere nel lungo periodo con un ridotto apporto di investimenti privati. Le socialtech rappresentano uno sviluppo davvero interessante per il futuro dell’innovazione in chiave sociale». Le socialtech fanno propri modelli manageriali all’avanguardia e sono strutturate per far leva sulle tecnologie più attuali traducendo le opportunità di inclusione sociale in un business destinato a durare nel tempo. Si tratta di nuove entità economiche più robuste di quelle tradizionali in termini di organizzazione, management e governance, che offrono un ritorno sugli investimenti decisamente ridotto rispetto ai modelli di capitalizzazione delle imprese tradizionali: non il 10/20% ma il 3/4%, con la soddisfazione però di veder migliorate le condizioni di porzioni più o meno rilevanti della società civile. Sono guidati da una nuova classe di manager “illuminati”, in grado di applicare paradigmi gestionali più flessibili rispetto al passato nel valutare il break-even, il punto di pareggio economico di un’iniziativa, ma comunque fortemente orientati a una gestione finanziaria oculata. «È una forma di capitalismo ibrido – conclude Calderini – che è cosa ben diversa dalla filantropia… E proprio questa nuova forma di investimento dominerà i mercati in futuro. Nell’arco di alcuni decenni non ci saranno più distinzioni tra aziende tradizionali e no-profit, ma solo realtà che operano nel capitalismo ibrido. Io credo che il futuro sia in mano alle socialtech».

***********Innovazione frugale e frugal engineering: il caso Tata Nano***********

Calderini cita a più riprese, durante i suoi interventi, la cosiddetta “frugal innovation”. Si tratta di una branca dell’innovazione sociale che va incontro ai bisogni di quella parte di umanità che vive nei paesi emergenti, dove con un minimo sforzo è possibile apportare benefici sostanziali e migliorare le condizioni di vita di una grossa fetta della popolazione. Grazie alla frugal innovation e alle numerose imprese sociali che si sono costituite negli ultimi anni, in India e in Sud America è stato possibile fornire diversi servizi pubblici prima negati ai più. Negli ultimi tempi la frugal innovation è stata spesso sostituita dal “frugal engineering”, a indicare quel processo per cui si tendono a rimodulare i componenti base di un prodotto per poi ricostruirlo in modo più economico e sostenibile, solitamente a fronte di un design semplificato e “senza fronzoli”. L’esempio classico è la Tata Nano, vettura low cost (gli ultimi modelli sono venduti a un prezzo variabile tra i 2.500 e i 4.000 euro) essenziale negli allestimenti e spartana nel design, introdotta dal colosso indiano dell’automotive Tata Motors nel 2009.

***********Imprese benefit: Italia seconda al mondo (dopo gli USA) a riconoscerle***********

Aziende che operano con lo scopo di ottenere un profitto ma che, contemporaneamente, hanno istituzionalizzato tra i propri obiettivi anche quello di generare

benefici per l’ambiente circostante, i dipendenti, i fornitori o altri portatori di interessi coinvolti nella loro attività. Sono le aziende “benefit”. Esistono dal 2010 negli Stati Uniti, si chiamano “benefit corporation”, o più semplicemente “b corp.” e dallo scorso anno hanno ottenuto un riconoscimento giuridico anche in Italia. L’ultima legge di Stabilità, infatti, ha introdotto la possibilità fregiarsi del titolo di “società benefit” aggiungendo alla ragione sociale (SpA, Srl…) la nuova sigla “sb”. Per una volta, quindi, l’Italia non è fanalino di coda, anzi… siamo, infatti, il secondo paese dopo gli Stati Uniti a disciplinare questo tipo di azienda: non una Onlus, non una no-profit, non un ente filantropico ma una società che persegue benefici comuni in modo economicamente sostenibile nel tempo. Ovviamente, le metriche finanziarie tradizionali non sono idonee a misurare il raggiungimento degli obiettivi societari delle imprese benefit. La loro valutazione sarà rappresentata da un mix vario di indicatori di performance economiche e qualitative.

1Il C2C (cradle-to-cradle, ovvero dalla culla alla culla) è un approccio alla progettazione dei processi industriali che si propone di reimmettere gli scarti della produzione e i materiali di risulta nel processo produttivo, trasformandoli in elementi naturali in grado di rigenerarsi.

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