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Supply Chain Finance, un mercato che in Italia vale 570 miliardi di euro

Cicli di pagamento tripli rispetto all’Europa, e tantissimi piccoli fornitori: l’Italia è il target ideale per le soluzioni che finanziano il working capital nelle filiere. Che però coprono solo il 27% del monte crediti. L’Osservatorio Supply Chain Finance del Politecnico di Milano: bisogna avvicinare mondo finanziario e industriale con sistemi di risk rating estesi alle operation

Pubblicato il 11 Mar 2016

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La crisi economica degli ultimi anni ha colpito duramente le imprese italiane: tra 2009 e 2015 il numero di realtà ad alto rischio di fallimento è aumentato del 25%, e il numero di fallimenti è cresciuto da 9mila a 14mila all’anno. E in grandissima parte, la causa sono le difficoltà finanziarie, legate anche ai cicli di pagamento. Le grandi imprese hanno un tempo medio di incasso crediti di quasi 96 giorni contro una media europea di 53, ma soprattutto un tempo medio di pagamento dei debiti commerciali di 149 giorni: più del triplo della media europea (45 giorni), con inevitabili forti ripercussioni lungo le filiere manifatturiere, specialmente per i piccoli fornitori.

Questa, si sa, è una criticità storica dell’economia italiana, ma forse il digitale finalmente può cambiare le cose anche in questo campo, per esempio attraverso le soluzioni di Supply Chain Finance (SCF), che consentono a un’impresa di finanziare il capitale circolante facendo leva, oltre che sulle caratteristiche economiche, finanziarie e di business, sul suo ruolo all’interno della filiera in cui opera.

Il Politecnico di Milano crede fortemente in questa possibilità, tanto da creare tre anni fa un Osservatorio Supply Chain Finance, che ieri ha presentato a Milano il suo report 2015-2016 in un convegno presso Assolombarda.

«Il valore del monte crediti commerciali complessivo di tutte le imprese italiane a fine 2014 era oltre 570 miliardi di euro, contro i 320 della Germania e i 332 del Regno Unito: questo fa dell’Italia un mercato ideale per i fornitori di soluzioni di SCF – ha spiegato Federico Caniato, Direttore dell’Osservatorio -. Ma a fronte di un tale mercato potenziale, le soluzioni di finanziamento del circolante più diffuse in Italia, Factoring e Anticipo Fattura, insieme ne finanziano circa il 26%, cioè 146 miliardi, mentre le soluzioni di Supply Chain Finance innovative, quelle basate su tecnologie digitali – come Carta di Credito, Inventory Finance, Purchasing Finance, o anche Invoice Auction e Dynamic Discounting, appena affacciatesi in Italia – ne coprono 5 miliardi: meno dell’1%».

In altre parole in Italia l’offerta di Anticipo Fattura e Factoring (dove il Reverse Factoring rimane minoritario come incidenza, circa il 5%, ma è in forte crescita), è ormai matura, con quasi 400 banche che offrono l’Anticipo di fattura e circa 40 società di factoring. Ma le soluzioni innovative di Supply Chain Finance sono ancora ai blocchi di partenza, con pochissimi provider specializzati davvero attivi.

Qualche passo avanti nella diffusione di una “cultura della Supply Chain Finance è già stato fatto”, ha detto Stefano Ronchi, Responsabile scientifico dell’Osservatorio: sono partiti diversi progetti di filiera (un esempio nel fashion è il “reverse factoring” evoluto di OTB, il gruppo di Diesel, per una platea potenziale di circa 450 fornitori), sono nate alcune startup specialiste di SCF, e in particolare piattaforme di Invoice Auction, e la digitalizzazione sta avanzando nel manifatturiero.

«Ma per ottenere un vero salto in avanti occorre avvicinare il mondo finanziario e quello industriale. Il primo non sempre trasmette la liquidità disponibile in modo rapido ed efficace, usa modelli di valutazione del rischio spesso basati su dati e logiche non aggiornati, e ha difficoltà ad analizzare le imprese come componenti di una filiera. Il secondo fatica a condividere le informazioni significative con le banche, a comprendere le logiche di valutazione del rischio delle banche, e a rinunciare alla logica del “ciascuno per se” per sposare la logica di filiera».

Oltre alla quantificazione del mercato potenziale, l’Osservatorio Supply Chain Finance in questo report ha approfondito altri tre temi, che qui accenniamo soltanto in attesa di approfondirli prossimamente con articoli ad hoc: costi e benefici della SCF, profilazione finanziaria della Supply Chain, e integrazione di misure di produttività e operative nei modelli di valutazione del merito creditizio.

Nel primo caso i ricercatori del Politecnico di Milano hanno definito un modello di valutazione di costi e benefici che evidenzia che i vantaggi finanziari –

miglioramenti del cash-to-cash, minori costi di finanziamento, ecc. – non sono gli unici conseguibili da una soluzione di SCF. «Le interviste con esperti e aziende utenti rivelano anche miglioramenti importanti (anche se difficili da quantificare) di ricavi e costi, minori rischi di default di partner strategici, migliori relazioni commerciali e sociali, e una maggiore spinta alla digitalizzazione dei processi», ha detto Luca Gelsomino, co-Direttore dell’Osservatorio. Quanto ai costi delle soluzioni di SCF, «quelli finanziari (in primis il tasso di interesse) sono nettamente la voce principale, ma vanno considerati anche costi del personale, manutenzione del sistema, scelta, selezione e implementazione».

Anche per la profilazione finanziaria della supply chain l’Osservatorio ha sviluppato un apposito modello, articolato in tre passi: capire in quale stadio della filiera si accumula maggior Capitale Circolante Operativo Netto (CCON), e quindi i maggiori costi per finanziarlo; scegliere la soluzione di SCF più promettente per quella filiera; e misurarne i benefici attesi.

Infine il tema dell’allargamento dei modelli di valutazione del merito creditizio. «In Italia le imprese si valutano in gran parte con soli dati finanziari e di bilancio, ma considerando anche informazioni operative si potrebbe stimare più accuratamente la probabilità di default», ha spiegato Caniato.

Queste informazioni sarebbero anche già disponibili, per di più in formato già digitale. I sistemi di vendor rating di molte aziende infatti raccolgono regolarmente misure di valutazione operativa dei fornitori: qualità, puntualità, livello di servizio, affidabilità, conformità e così via. Ma tipicamente non vengono condivise, tantomeno con il mondo finanziario.

«Abbiamo analizzato un campione di circa 70 imprese italiane, confrontando il rating finanziario tradizionale e le performance operative nel periodo 2009/2015, e abbiamo trovato diversi casi di imprese con rating finanziario molto alto nel 2011 poi in rapido calo, e rating operativo già basso nel 2011: quindi con un’analisi congiunta finanziaria e operativa in questi casi il rischio di default si poteva prevedere molto prima».

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