Logistica e trasporti

Il blocco del Canale di Suez e il precario equilibrio del sistema commerciale globale

L’incagliamento della portacontainer Ever Given ha tenuto col fiato sospeso il commercio internazionale e ha causato una perdita economica ingente. Non si tratta, però, di un evento del tutto imprevedibile. Qual è per le imprese l’insegnamento? Come ripensare le Supply Chain e contenere il rischio dell’interruzione della catena di fornitura? Lo spiega Marco Perona, Professore Ordinario di Logistica Industriale, Università di Brescia

Pubblicato il 30 Mar 2021

Canale di Suez

“L’ammiraglio Osama Rabie, presidente della Suez Canal Authority (SCA), annuncia la ripresa del traffico marittimo nel Canale di Suez dopo che l’Autorità ha salvato e fatto galleggiare con successo la gigantesca portacontainer panamense Ever Given”. Sono queste le parole nella nota ufficiale della SCA riportate da Reuters che tutto il mondo attendeva da una settimana a questa parte, ovvero da quando martedì 23 marzo la gigantesca nave cargo della società Evergreen incagliandosi diagonalmente su un tratto meridionale del Canale di Suez ne aveva ostruito il passaggio in entrambi i sensi bloccando di fatto improvvisamente l’intenso traffico commerciale che quotidianamente percorre questa rotta. Per fare galleggiare la portacontainer è stato necessario dragare 30.000 metri cubi di sabbia e utilizzare oltre 10 rimorchiatori per tirarla fuori da dove si era arenata.

Canale di Suez: una rotta commerciale di primaria importanza

Ben 220 mila tonnellate distribuite su 400 metri di lunghezza, queste le misure della portacontainer battente bandiera panamense Ever Given, di proprietà della compagnia giapponese Shoei Kisen Kaisha e gestita dalla compagnia di trasporti e spedizioni di container taiwanese Evergreen Marine Corp (da qui il nome sulla fiancata che spesso ha indotto erroneamente ad essere confuso col nome dell’imbarcazione). Forte vento o errore umano, ancora non è chiaro il motivo dell’incagliamento della nave cargo mentre attraversa il Canale di Suez da Sud verso Nord in direzione Rotterdam, di sicuro c’è che, giorno dopo giorno, è arrivato a 369 il numero di navi bloccate alle due estremità del canale in attesa di poter transitare. La società di dati Refinitiv ha stimato che potrebbero essere necessari fino a 10 giorni per smaltire l’arretrato delle navi. Numeri che non stupiscono considerando che, dal 1869 (data della sua inaugurazione) ad oggi, il Canale di Suez ha visto crescere nel tempo la sua importanza come rotta commerciale. Alla fine degli anni ’70, rileva la SCA, il numero di navi che lo attraversavano è cresciuto vertiginosamente, così come il tonnellaggio ha registrato una crescita notevole subito dopo la fine del secolo. Nel 2020 quasi 19.000 navi hanno transitato nel Canale di Suez, con una media di 51,5 al giorno. Le navi sono cresciute in dimensioni e capacità e l’anno scorso 1,17 miliardi di tonnellate nette hanno attraversato le sue acque.

I costi del blocco del Canale di Suez

Il blocco del Canale di Suez ha rappresentato un danno gravissimo all’economia egiziana. Il canale è infatti un’importante fonte di entrate in valuta estera per l’Egitto: secondo Moody’s, prima della pandemia, il commercio passante attraverso il Canale di Suez contribuiva al 2% del PIL egiziano.

Ma l’interruzione del transito di container nel Canale di Suez ha rappresentato un grave danno economico anche a livello mondiale basti pensare che Moody’s, come riporta Reuters, ha sottolineato come circa il 30% del traffico globale di container scorre attraverso il canale ogni anno e Lloyd’s List, il quotidiano a diffusione internazionale specializzato nelle notizie relative alla navigazione, alle assicurazioni marittime, alle piattaforme petrolifere e alla logistica, ha stimato che il 12% del commercio mondiale passa attraverso il Canale di Suez e ha valutato una perdita complessiva di 9,6 miliardi di dollari per ogni giorno di traffico bloccato. Inoltre, ad aggravare la situazione, c’è il fatto che il blocco arriva quando le spedizioni sono già state interrotte dalla pandemia e la domanda di merci è in impennata.

Con ben 25 petroliere comprese tra le circa 370 navi ferme ai due estremi del Canale di Suez la più ovvia conseguenza visibile nell’immediato è stata l’aumentare del prezzo del petrolio, così come il costo del noleggio di alcune petroliere per viaggi dal Medio Oriente all’Asia è balzato del 47% a 2,2 milioni di dollari ad appena due giorni dal blocco, come riportato dal WSJ. Ma già nella mattina di lunedì 29, quando si è incominciata ad intravedere una soluzione, il Business Today Egypt sul suo canale Twitter ha comunicato che, dopo l’annuncio del parziale ripristino della Ever Giver, il prezzo del petrolio è sceso del 2%.

La rotta artica: una potenziale alternativa al passaggio di Suez

Anche se sicuramente a conti fatti il prezzo da pagare a seguito di questa circostanza sarà per tanti attori della catena di fornitura molto alto, tuttavia si può dire che la situazione sia stata risolta in tempi abbastanza brevi rispetto alle previsioni fatte dagli esperti valutando tutte le componenti del caso. Un blocco prolungato avrebbe altresì costretto a pensare ad altre soluzioni per portare a termine la consegna di merci che in pratica si sarebbe risolta nel breve tra due opzioni: utilizzare i mezzi aerei affrontando costi almeno superiori di tre volte o cambiare rotta e affrontare la circumnavigazione dell’Africa doppiando il Capo di Buona Speranza considerando fino a 12 giorni di navigazione in più.

Ma il blocco del Canale di Suez è stata l’occasione per la Russia di rilanciare la rotta artica, rotta vantaggiosa anche per Pechino e il Canada, produttori di materie prime che inviano minerale di ferro, petrolio, gas naturale liquefatto (GNL) e altri combustibili attraverso le acque artiche. Saltando l’Asia e il Medio Oriente, la rotta artica congiunge con il Nord Europa attraverso il mar Artico in una ventina di giorni, a seconda da dove si parte, invece che i circa trenta della rotta classica. Benché la rotta artica sia attualmente praticabile per intero in un limitato periodo di tempo che va da giugno a novembre, tuttavia il traffico è in costante aumento: lo studio condotto da IntesaSanPaolo e SRM rivela che tra il 2011 e il 2019, la movimentazione a corto raggio è cresciuta del 134% medio annuo, raggiungendo 31,5 milioni di tonnellate e secondo le stime (ante Covid-19), il traffico dovrebbe crescere fino a raggiungere i 100 milioni di tonnellate nel 2030.

Il problema però connesso alla rotta artica non è solo economico, visto che questa rotta sicuramente penalizzerebbe ad esempio i porti del Mar Mediterraneo che verrebbero scalzati nei percorsi marittimi verso Rotterdam, ma porta con sé anche un forte rischio ambientale: mentre quelle navi pesanti bruciano carburante, rilasciano anidride carbonica che riscalda il clima e fuliggine nera. Quella fuliggine ricopre il ghiaccio e la neve nelle vicinanze, assorbendo la radiazione solare invece di rifletterla fuori dall’atmosfera, il che esacerba il riscaldamento nella regione, spiega molto chiaramente Reuters.

L’insegnamento per le imprese: come prepararsi ai rischi di interruzione della filiera

Qual è l’insegnamento di questo blocco? Lo spiega bene Marco Perona, Professore Ordinario di Logistica Industriale, Università di Brescia e direttore del RISE, in un articolo su Industry4Business.

Innanzitutto va ricordato che non si tratta di un evento imprevedibile. “Ci sono stati altri due blocchi del Canale, il primo negli anni ’50 per quasi un anno, il secondo nel 1967 per quasi 8 anni, entrambi per guerre. Del resto, il canale attraverso cui transita il 10% del commercio mondiale è nell’area più politicamente instabile al mondo – spiega Perona, che continua – Ci siamo completamente dimenticati che, solo negli ultimi 20-30 anni, i nostri risk manager hanno dovuto occuparsi di 2 tsunami, numerosi gravi terremoti, diverse crisi geopolitiche, dell’eruzione di un vulcano Islandese, delle torri gemelle e della crisi “Lehman Brothers”. E se allarghiamo lo sguardo all’ultimo secolo vedremo: un’altra pandemia, due guerre mondiali, una buona decina di guerre locali con effetti molto rilevanti. Sintetizzerei questo insegnamento con una frase iconica di Peter Drucker: “if you don’t invest in risk management, it does not matter which business are you in: it will be a risky business”.

Le aziende devono dunque prepararsi, e questo, con analogia ingegnerisica relativa alla proprietà dei materiali, significa essere “resilienti”, plastiche ed elastiche.

“Servono 3 caratteristiche, tutte progettabili prima che una forte perturbazione colpisca: occorre guardare avanti, e cercare di identificare gli eventi che potrebbero avere effetti dannosi; occorre disporre di un piano preordinato e condiviso per fronteggiare le perturbazioni che si ritengano più probabili; infine, occorre avere chiaro come riportarsi il più rapidamente possibile alle condizioni di regime”, spiega l’esperto.

Per raggiungere questo obiettivo, la Supply Chain deve rispondere a tre imperativi.

Il primo è quello della filiera corta, sia dal punto di vista geografico, sia dal punto di vista del numero di passaggi di mano. “(Ri)analizziamo la nostra supply chain e chiediamoci se tutte le “cose” che ne fanno parte sono strettamente necessarie, oppure se non sia possibile eliminarne qualcuna”, afferma Perona.

Il secondo imperativo è quello della filiera trasparente. “”Più abbiamo informazioni e più riusciamo ad agire in modo accurato ed opportuno, sia predittivo, sia reattivo. Chiediamoci (se e quanto) conosciamo i fornitori dei nostri fornitori? Ed i clienti dei nostri clienti? Se la risposta è sul no… iniziamo a preoccuparci”.

Servono poi altre due caratteristiche. Una filiera ridondante, perché avere alternative è un buon sistema per non trovarsi con le spalle al muro, e una filiera agile, che significa la capacità di riconfigurare stabilimenti e processi in tempi e con costi limitati.

“Mettere insieme tutte queste caratteristiche certamente non è facile e richiede un controllo sistemico ed analitico del proprio ecosistema”, conclude l’esperto.

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