La moda diventa sostenibile: in questi anni in cui si è fortemente sviluppata l’attenzione all’impatto ambientale e alla responsabilità sociale delle attività industriali, la moda sostenibile o sustainable fashion cerca di contribuire a ridurre la sua impronta sul pianeta e le persone, in particolare con le scelte d’acquisto di materiali e i processi produttivi.
Il contrasto allo sfruttamento di acqua e terreno per la produzione delle materie prime e dei capi finiti, la lotta allo spreco dei tessuti e degli articoli dismessi, insieme alla straordinaria opportunità della moda circolare, sono parte delle nuove strade intraprese dall’industria del fashion per alzare i rating ESG (Environmental Social Governance) e farsi trovare pronta all’appuntamento dell’Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile.
In questo percorso un ruolo rilevante assumono gli imprenditori e i creativi più attenti agli impatti ambientali e sociali e le startup che sviluppano tecnologie per una moda sostenibile e circolare.
Secondo le stime dell’Onu l’industria globale della moda – che vale 2,4 trilioni di dollari e impiega circa 300 milioni di persone su tutta la catena del valore – è responsabile del 2-8% delle emissioni globali di gas serra e di circa il 9% della dispersione di microplastiche nei mari.
Ogni anno consuma 215 trilioni di litri d’acqua e spreca 100 miliardi di dollari in materiali sottoutilizzati. Il fashion può insomma fare molto per sostenere i Development sustainable goals (SDGs) delle Nazioni Unite per il 2030.
Che cos’è la moda sostenibile
La moda sostenibile rispetta l’ambiente e la società in tutte le sue fasi: concezione, produzione, distribuzione, vendita e smaltimento. Il sustainable fashion cerca di lavorare con materie prime meno inquinanti; per esempio, ricorrendo a più fibre sintetiche o riciclate e meno a materie come cotone coltivato in modo tradizionale (con grande consumo di acqua e energia) o lana ottenuta con allevamenti intensivi (che comportano deforestazione e inaridimento dei terreni).
La moda sostenibile stimola anche il consumo consapevole: no agli acquisti usa-e-getta, sì agli acquisti di meno capi più costosi (perché di qualità superiore) che si tengono più a lungo.
Questo modello propone una produzione più umana, senza sfruttamento dei lavoratori e con una remunerazione più equa.
Caratteristiche e materiali della moda ecosostenibile
Con una definizione più ampia, la moda ecosostenibile si inscrive in un modello di società caratterizzata dall’attenzione all’ambiente, alle comunità, al benessere delle persone e alle culture locali. Il tutto viene coniugato con lo sviluppo tecnologico e l’innovazione capace di generare modelli ancora più responsabili per il pianeta e le persone.
Per esempio la moda ecosostenibile sostiene l’attività lavorativa femminile, la crescita professionale degli addetti, l’istruzione dei bambini o specifiche azioni di protezione dell’ecosistema, come fa il brand inglese People Tree che basa i suoi capi su materiali eco-friendly e responsabili.
Le fibre ecologiche
Parte integrante della moda sostenibile sono le fibre tessili ecologiche. Si tratta di fibre naturali come la canapa, una pianta spontanea la cui filiera produzione, dall’estrazione alla filatura fino all’intreccio del tessuto, non richiede l’utilizzo di sostanze nocive per l’ambiente.
Simili nella sostenibilità sono il lino e la juta. Al contrario, il cotone ha un enorme impatto ambientale; per questo ora esistono coltivazioni di cotone bio, ugualmente delicate ma a impatto ridotto.
C’è anche il cotone riciclato, estratto dai rifiuti di cotone raccolti pre- e post- consumo, per una moda circolare.
Tra le fibre artificiali ecocompatibili ci sono bamboo, lyocell certificato Tencel, modal certificato Tencel, e orange fiber, una fibra derivata da scarti di arance e in cui sono attive alcune aziende siciliane che utilizzano le scorze degli agrumi locali. Ci sono infine le fibre sintetiche, ottenute dal riciclo della plastica, come New life, o delle reti da pesca e dei tappeti, come Econyl.
La moda e l’Agenda 2030: focus sull’innovazione industriale
Lotta alla povertà, diritto alla salute, acqua pulita, uguaglianza di genere, equità nelle condizioni di lavoro, innovazione industriale, riciclo della plastica, protezione delle foreste e degli oceani, tutela dell’ambiente, riduzione delle emissioni inquinanti e contrasto al cambiamento climatico: la moda sostenibile si candida a sostenere praticamente tutti i Development Sustainable Goals (SDGs) delle Nazioni Unite al 2030.
L’Onu ha anche avviato un’iniziativa chiamata United Nations Alliance for Sustainable Fashion per contribuire agli SDGs tramite un’azione coordinata delle agenzie delle Nazioni Unite che lavorano nella moda e la promozione di progetti e codici di condotta che assicurano che la catena del valore della moda dia il suo contributo al raggiungimento dei target di sviluppo sostenibile.
L’alleanza agisce su tutta la supply chain, dalla materia prima alla manifattura di abbigliamento, calzature e accessori fino al consumo e allo smaltimento.
Moda sostenibile, la situazione in Italia e il ruolo del biotech
Oggi l’industria dell’abbigliamento utilizza in maniera preponderante materiali petrolchimici come poliestere, nylon e altre fibre sintetiche, che costituiscono più del 60% di tutte le fibre utilizzate ogni anno.
La richiesta di poliestere è raddoppiata negli ultimi 15 anni e ha superato di gran lunga il cotone come materiale tessile più prodotto. Il cotone è la seconda fibra più utilizzata, nonostante le peculiarità produttive lo rendano poco sostenibile. È quanto ha osservato ASviS in audizione presso il Senato della Repubblica sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).
L’intervento, redatto insieme alla Siena Advanced School on Sustainable Development, sottolinea come la produzione di filati e tessuti a partire da scarti organici presenti in Italia possa costituire una soluzione efficace per creare filiere innovative, creando materiali di alto valore completamente Made In Italy in ogni fase della produzione, secondo una logica di bioeconomia circolare. Quest’ultima si basa sull’utilizzo di risorse biologiche combinando il settore agricolo e forestale con le biotecnologie per la produzione di energia e materiali.
I residui vegetali derivanti da colture alimentari, che normalmente vengono lasciati marcire o bruciati, rappresentano una risorsa preziosa da trasformare in nuovi materiali. A livello nazionale esistono diverse startup innovative dedicate a questo tema, tra cui Orange Fiber, che utilizza scarti dell’industria agrumicola per la produzione di filati e tessuti simili alla seta; Frumat e Vegea, che realizzano prodotti in similpelle a partire rispettivamente da bucce di mela e bucce e semi di scarto dell’uva; Duedilatte, in grado di creare tessuti a partire dai derivati della caseina estratta dal latte, riso e scarti di caffè.
Cosa fa l’UE
Il consumo di prodotti tessili in UE ha il quarto impatto più elevato sul cambiamento climatico e l’ambiente posizionandosi rispettivamente dopo cibo, alloggi e mobilità. Si tratta della terza area di consumo di risorse come acqua e suolo e la quinta per l’uso di materie prime primarie (come le fibre naturali).
L’UE da sola genera ogni anno 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Abbigliamento e scarpe corrispondono a conferimenti in discarica per 5,2 milioni di tonnellate, ovvero 12 kg, in media, pro capite.
Attualmente, secondo dati ufficiali della Commissione europea, solo il 22% dei rifiuti tessili è raccolto separatamente per poter essere riutilizzato o riciclato, mentre la quota rimanente è incenerita o abbandonata, con l’enorme danno per l’ambiente che ne consegue. E, soprattutto, solo l’1% del materiale utilizzato nell’abbigliamento viene riciclato in abbigliamento nuovo.
Lo stesso studio sottolinea come per ogni 1.000 tonnellate di tessuti raccolti per il riutilizzo si potrebbero creare in media dai 20 ai 35 nuovi posti di lavoro.
La strategia UE per i tessili sostenibili e circolari affronta il tema della riduzione dell’impatto ambientale e sociale nella produzione e nel consumo dei prodotti tessili, promuovendo l’utilizzo di materiali durevoli, riparabili e riciclabili così come la diffusione dei servizi di riparazione e riutilizzo, dichiarando di fatto “fuori moda” la cosiddetta moda veloce (Fast Fashion).
La Commissione europea propone di accollare ai produttori i costi di gestione dei rifiuti tessili, di fatto incentivandoli ad aumentare la circolarità dei prodotti lavorando soprattutto su innovazione tecnologica e riprogettazione.
I contributi da versare nell’ambito di questo regime di responsabilità dovrebbero essere adeguati all’impatto e alle prestazioni ambientali dei tessili, sulla base di un principio detto eco-modulazione.
Il Regolamento Ecodesign (Espr)
Proprio in tema di acquisti consapevoli, risale allo scorso 23 aprile l’approvazione da parte del Parlamento Europeo del Regolamento Ecodesign, che impone una serie di requisiti stringenti – tra cui la progettazione ecocompatibile dei prodotti, l’introduzione di un passaporto digitale contenente informazioni dettagliate sull’origine e la lavorazione dei prodotti, accessibile ai consumatori e alle autorità, e il divieto di distruggere la merce invenduta -, promuovendo alternative più sostenibili come la rivendita, la donazione o il riciclo. Si tratta, infatti, di un’iniziativa che è parte integrante della Strategia Europea per il Tessile Sostenibile e Circolare e che, nel suo insieme, mira a sostenere un cambiamento radicale nell’approccio alla produzione, estendendosi anche a settori come i prodotti tessili, gli indumenti e gli accessori.
Come, infatti, si legge nel report dell’UE: “Il consumo europeo di prodotti tessili è, al quarto posto perimpatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici, dopo l’alimentazione, gli alloggi e la mobilità. Il tessile è anche il terzo settore in ordine di consumi per quanto riguarda l’uso di acqua e suolo e il quinto per l’uso di materie prime primarie e le emissioni di gas a effetto serra”.
Proprio pr questo, tra gli obiettivi del Regolamento Ecodesign rientra anche la riduzione delle emissioni di gas serra di almeno 30 milioni di tonnellate annue entro il 2030.
Quella del disfacimento dei prodotti invenduti è una pratica molto diffusa nel Fast Fashion (pensiamo a Shein, Temu ma anche a catene come Zara, H&M, Bershka, Mango, Stradivarious). Aquesto proposito l’Espr introduce il divieto di distruzione. Ese le piccole imprese rimangono (al momento) esenti da questo divieto, le medie imprese avranno un periodo di tolleranza di sei anni dopo l’entrata in vigore del regolamento per adeguarsi alla normativa. Un gap temporale che si riduce a due anni per i grandi player del settore. Inoltre, chi si occupa si distruggere i prodotti invenduti appartenenti a settori quali l’industria pesante – ferro, acciaio, alluminio – e tessile (ma fatta eccezione per le categorie di abbigliamento, accessori e calzature) avrà l’obbligo di comunicare annualmente le quantità di prodotti scartati e le relative motivazioni.
Come riprogettare tutte le attività in ottica circolare
Tra le azioni raccomandate l’ASviS suggerisce di dare impulso alle attività di progettazione per il riciclo: molti prodotti non possono essere attualmente riparati a causa del modo in cui sono stati progettati.
Potrebbe anche essere inserita una disposizione sull’obbligo di riutilizzo e mappatura delle giacenze di produzione (il cosiddetto deadstock).
Attualmente, si stima che nei magazzini di tutto il mondo giacciano tessuti inutilizzati per un valore che supera i 120 miliardi di dollari. Molto spesso finiscono per essere bruciati o distrutti.
L’associazione raccomanda anche l’erogazione di incentivi per start-up ed imprese che fanno di upcycling (riuso creativo) e restyling il proprio modello di business, utilizzando deadstock o capi giunti al termine del ciclo di vita come materia prima per la manifattura di prodotti. Da notare che anche le grucce hanno un impatto notevole: l’85% finisce in discarica.
Perché è importante la moda sostenibile
«Si stima che per produrre una T-shirt in cotone siano necessari 2.700 litri d’acqua – ha dichiarato la Fashion Tech Investment Expert Giusy Cannone, CEO di Fashion Technology Accelerator e Venture partner di TFL Ventures, in un recente TedX -, e magari è una maglietta che usiamo per poche volte e poi buttiamo. Consumiamo 26 kg di capi l’anno di cui 11 kg devono essere smaltiti e solo l’1% riesce ad essere riconvertita in nuovi capi, il resto finisce nelle discariche. Anche questo è il mondo della moda. Ma si può cambiare. Io ho pensato di investire risorse per la tecnologia e l’innovazione capaci di rendere la moda più sostenibile e responsabile».
Who's Who
Giusy Cannone
Anche i regolatori e un numero crescente di aziende della moda stanno andando in questa direzione: la consapevolezza del fashion sul suo impatto ambientale sta crescendo. Quello che si cerca di fare è realizzare capi che fin dall’inizio siano concepiti in modo tale che ogni elemento sia reintegrabile nel ciclo produttivo. Insomma, una moda circolare.
A noi di Digital4Executive Giusy Cannone ha ribadito come la tecnologia sia «estremamente rilevante nei materiali, con alcune soluzioni già sul mercato e altre in fase di ricerca. Noi, con Fashion Technology Accelerator e TFL Ventures, selezioniamo startup che sviluppano tecnologie innovative legate alla sostenibilità. In portafoglio abbiamo brand sostenibili come SEAY, che produce beachwear da tessuti sostenibili (poliestere e nylon riciclato) e incoraggia la restituzione dei capi utilizzati in ottica di riuso e circolarità. Oppure ARTKNIT, maglieria artigianale che punta su materia prima riciclata e capi seasonless, contro la moda usa-e-getta».
Aumenta il numero di consumatori che fanno acquisti Second Hand
L’indagine annuale condotta da BVA Doxa per Subito.it sullo stato attuale e le prospettive legate alla Second Hand Economy in Italia rivela un’attenzione crescente verso le abitudini di consumo più consapevoli ed ettiche. , con circa il 57% degli italiani coinvolti nell’acquisto o vendita di prodotti usati nel 2023, in aumento del 5% rispetto al 2022. Questo segmento di mercato ha generato un valore economico di 25 miliardi di euro nel 2023, segnando un incremento significativo rispetto ai 18 milioni di euro rilevati nella prima edizione dell’osservatorio. La convenienza del Second Hand è evidente sia per gli acquirenti, con un guadagno medio di circa mille euro a persona, sia per i venditori, grazie alla preferenza per le transazioni online che offrono velocità, disponibilità 24/7 e un’ampia scelta di prodotti.
Il report sottolinea anche l’aumento della frequenza e del numero di oggetti scambiati nel Second Hand, con una particolare crescita tra i nativi digitali e un impatto significativo sull’economia nazionale, pari all’1,3% del PIL. In merito al target di consumatori più affini a logiche di acquisto Second Hand, , al primo posto troviamo la GenZ (88%), seguita da Millennials e Generazione Y, in particolar modo individui tra i 35 e i 44 anni d’età (76%), e,infine, le famiglie con bambini (75%).
Nonostante il guadagno non sia il principale motore che spinge alle vendite, con la necessità di fare spazio (77%) e la volontà di evitare sprechi (36%) come principali fattori citati, il risparmio resta invece il driver primario di acquisto (57%), dimostrando il ruolo del Second Hand come alleato nella gestione del bilancio familiare, con un risparmio percepito che può arrivare fino al 48% in alcune categorie di prodotti. Si tratta di dati che non solo evidenziano un cambiamento nel comportamento dei consumatori italiani, ma che riflettono anche una crescente consapevolezza verso pratiche di consumo più sostenibili e responsabili.
I brand italiani che puntano sulla sostenibilità
In Italia negli ultimi anni sono nati diversi brand sostenibili come (solo per citarne alcuni in un settore in crescita) Rifò, focalizzato su fibre tessili riciclate e riciclabili per una moda 100% italiana, basata sul distretto tessile di Prato (Firenze) e sul concetto del riuso; e Souldaze, marchio romano che usa fibre naturali, riciclate, vintage o del deadstock e si fonda sul concetto di moda etica e “slow”. Ovvero, con fornitori verificati, materia prima a basso impatto e prezzo medio-alto per capi di design che si portano per anni, non per una stagione.
Giusy Cannone ci ha anche detto che l’azienda sostenibile è un’azienda che ha una “visione a 360 gradi di quello che è il suo impatto su ambiente e società”, cioè non si identifica con una singola soluzione o un comportamento, ma adotta un approccio multi-stakeholder, ha un piano strategico attuativo complessivo e olistico.
Per questo i brand nuovi, partiti da zero, sono facilitati nell’essere totalmente sostenibili, a partire dalla cultura e dalla visione dell’imprenditore e dei suoi manager e staff per arrivare all’adozione capillare di nuove tecnologie nei processi produttivi, nei materiali e anche nelle operazioni di smaltimento e riciclo.
Gli esempi virtuosi
Tra le aziende consolidate è più difficile trovare nomi associabili a una sostenibilità al 100 per cento, ma alcune sono molto avanzate, come Patagonia o Salvatore Ferragamo. Rispetto alle PMI, i big sono facilitati perché hanno le risorse da investire nel processo di trasformazione digitale e green. «Ma la consapevolezza è sempre più diffusa nell’industria della moda e sono sempre più numerose le grandi aziende che stanno imponendo ai fornitori di essere più innovativi», afferma Giusy Cannone. La supply chain della moda è infatti polverizzata e i brand possono perdere di vista la sostenibilità dei loro fornitori se ciò che conta è solo il prezzo.
Altro tema legato alla moda sostenibile è quello del riciclo dei rifiuti tessili e anche qui la tecnologia gioca un ruolo fondamentale nel permettere il riuso di capi e materiali inutilizzati.
L’Ue dal 1 gennaio 2025 impone di smaltire i tessuti nella raccolta differenziata e l’Italia ha deciso di anticipare di tre anni: la legge europea da noi è dunque in vigore dal 1 gennaio 2022. Servono adesso le linee guida per i consumatori e per i brand per capire il loro ruolo nel riciclo: abbigliamento e tessuti non si possono più incenerire.
Oggi è molto difficile riciclare i capi perché molti hanno una composizione mista di fibre e non esiste una tecnologia economica o sostenibile per separare le fibre, perché sono coinvolti processi chimici inquinanti. Anche qui molte startup si son attivate per soluzioni eco-compatibili, ma sarebbe importante progettare i capi in modo che siano riciclabili by design.
Riciclo e riuso: l’esempio di United Repair center
Patagonia e le aziende a impatto sociale United Repair Centre e Fashion-Enter hanno collaborato per aprire lo United Repair Centre di Londra (URC London) nel quartiere di Haringey. Lo scopo del centro è quello di formare e impiegare persone, come rifugiati, che hanno difficoltà a trovare occupazione, nel campo delle riparazioni di abbigliamento di alta qualità.
Un primo United Repair Centre era già stato aperto ad Amsterdam e ad oggi gestisce 30mila riparazioni all’anno di marchi come Decathlon, Lululemon e Patagonia.
Fashion-Enter, azienda partner di URC London, ha dovuto affrontare licenziamenti a causa del trasferimento della produzione di importanti rivenditori a strutture estere più economiche. URC London sarà in grado di tutelare 15 posti di lavoro nel Regno Unito e garantire una prospettiva orientata all’economia circolare.
«L’industria dell’abbigliamento gode di una scarsa reputazione per i danni ambientali e sociali che producono i nostri capi, ma la situazione può cambiare. Se vogliamo avere un pianeta sano in cui fare business, dobbiamo spingere e aiutare i clienti a conservare più a lungo i loro abiti e a praticare un consumo consapevole in futuro. Con il lancio di URC London, per i brand di abbigliamento responsabili stiamo rendendo più agevole unirsi al crescente movimento di riparazione». Ha dichiarato Thami Schweichler, CEO e fondatore di United Repair Centre.
Who's Who
Thami Schweichler