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Professionisti e piccole imprese: legati a doppio filo, ma poco digitali

Avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro in difficoltà: il 35% mostra un calo di redditività superiore al 10%. Ma le tecnologie non sono prese in considerazione. Claudio Rorato, della School of Management del Politecnico di Milano, lancia un messaggio alle istituzioni: per spingere l’innovazione nel Paese delle PMI deve oggi affermarsi un concetto di impresa allargata, comprensiva dei professionisti che ne gestiscono i processi amministrativi, fiscali e legali

Pubblicato il 28 Apr 2014

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“Se parliamo di professionisti, in realtà, parliamo di imprese!”. È il titolo e il messaggio forte emerso dall’Osservatorio ICT&professionisti, promosso dalla School of Management del politecnico di Milano. I numeri parlano chiaro: in Italia le micro e PMI valgono il 99% delle imprese, l’80% degli addetti e il 69% del valore aggiunto. Circa 434 mila professionisti − avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro – gestiscono le fasi cruciali dei processi amministrativi, fiscali e legali dei clienti. Una visione moderna e sistemica del concetto di ‘impresa’, non deve riferirsi al singolo soggetto giuridico, ma deve comprendere anche le professioni legate ad essa.

Il loro non è un semplice rapporto di fornitura, ma un’integrazione all’interno di delicati processi lavorativi. Negli studi prevale la piccola dimensione: il 65% ha un portafoglio clienti fino a 30 aziende. Il 65% degli avvocati raggiunge al massimo i 50 mila euro di fatturato, percentuale che diventa del 30% per i commercialisti e del 19% per consulenti del lavoro.

Il 33% degli studi multidisciplinari sono, invece, mediamente più grandi, avendo un fatturato superiore al milione di euro. La redditività nel 2012 ha visto una diminuzione superiore al 10% per circa il 35% degli studi; il 52% ha dichiarato una sostanziale stabilità e il 13% un incremento oltre al 10%. Le “punte” sono degli avvocati per la diminuzione della redditività (37%), dei consulenti del lavoro per la stabilità (60%) e dei commercialisti per la crescita (14%).

Le attività sono caratterizzate da un’elevata produzione di carta e di utilizzo del lavoro manuale. Il 60% dei Commercialisti e dei consulenti del lavoro dispongono di archivi saturi o prossimi alla saturazione. Difficilmente ci si stacca dalla carta: la scansione dei documenti e la loro doppia archiviazione – cartacea ed elettronica – è una prassi ancora molto diffusa. A parte la gestione elettronica documentale, adottata nel 46% dei casi, la conservazione a norma e i portali sono ancora poco diffusi (15% e 10%), segno di una gestione documentale poco digitalizzata. fatta eccezione per i commercialisti, più orientati alla gestione del business ed efficienti nella parte amministrativa, i professionisti dedicano molto tempo alla gestione amministrativa dello studio. Ricorrere all’ICT potrebbe “liberare” un po’ di tempo dalle attività “non core”, a vantaggio del business. Nonostante ciò, solo il 31% dei commercialisti, il 37% dei consulenti del lavoro e il 9% degli avvocati, controllano in modo più o meno strutturato il tempo assorbito dai clienti e dalle attività svolte.

Tecnologie in uso e Mobile Working

Eccetto alcuni applicativi – banche dati, firma digitale, gestionali contabili e Home banking – le altre soluzioni (Business intelligence, Crm, Workflow, Siti web, firma grafometrica e altro ancora) sono poco diffuse negli studi, perché il business è ancora tradizionale nei contenuti e nelle prassi di conduzione. Alcune “punte” di disinteresse verso la tecnologia sono indipendenti dalla professione e numerosi studi non sanno cosa siano i Workflow (27%), il Crm (23%), la Business intelligence (19%), aprendo un’ampia finestra sul fronte dell’alfabetizzazione informatica, vero ostacolo al cambiamento di rotta.

Dal punto di vista della mobilità, il 42% dei professionisti trascorre almeno metà del tempo lavorativo fuori dallo studio. I Mobile Worker più assidui appartengono agli studi associati e agli avvocati (12%) e le attività più gestite in mobilità riguardano le email (19%), la navigazione in internet (17%), la lavorazione di documenti (10%) e la consultazione dei dati dello studio (9%). Il 26% usa le app a contenuto professionale, ma il 45% dimostra disinteresse, perché di fatto lavora poco in mobilità (30%).

Quali modelli stanno emergendo?

Il 17% non investirà in ICT nei prossimi due anni. Gli avvocati prevedono di investire in tecnologia fino a 2 mila euro, i commercialisti fino a 6 mila e i consulenti del lavoro poco più di 8 mila. Gli studi multidisciplinari, grazie alla loro dimensioni, ipotizzano oltre 12 mila euro.

Dal punto di vista delle priorità molti studi non ne riconoscono una agli investimenti in ICT. Per la parte hardware il 46% investirà in PC più potenti e, a seguire, in server, stampanti e scanner (19%, 18% e 15%). Gli investimenti in software si concentreranno sulla conservazione a norma (33%), sui dispositivi per la gestione dei pagamenti elettronici dei clienti (30%) e sulla firma grafometrica (23%).

Il disinteresse è, invece, marcato per la conservazione a norma (52%), i portali (63%) e la firma grafometrica (72%). Da qui alcune riflessioni:

  • c’è difficoltà a percepire la capacità di generare valore da parte dell’ICT;
  • si privilegia la performance dello strumento – pc più potenti – e non quella di processo;
  • non emerge la volontà concreta di riorientare il business tradizionale verso nuove forme di servizio.

Dai dati complessivi emerge anche che:

  • la propensione a investire cresce con il miglioramento della redditività;
  • la percentuale di chi non investe decresce col migliorare della redditività (dal 15% al 14% fino al 10%);
  • l’alfabetizzazione digitale è cruciale per la diffusione di una “cultura tecnologica” presso i professionisti.

L’opinione dei professionisti

Ai professionisti è stato chiesto di giudicare vere o false alcune affermazioni sull’ICT. C’è accordo nel ritenere che la tecnologia genera efficienza e crea nuovi servizi (85%-96%). La maggioranza attribuisce una relazione positiva tra redditività e tecnologia, mentre il 22% non condivide l’affermazione, anche per la difficoltà di monetizzare i benefici.

La quasi equa ripartizione tra ‘vero’ e ‘falso’ nelle affermazioni sulla riduzione dei costi interni dello studio e sulla sicurezza dei dati (58%-42% e 57%-43%), fa capire il dibattito su alcuni temi, anche in relazione al diverso modo di esprimere il medesimo concetto.

Parlare di efficienza in termini generici – quasi l’unanimità degli intervistati – o in termini di riduzione dei costi – solo il 58% – testimonia la difficoltà di percepire il valore monetario dei benefici generati dall’ICT. Chi ha risposto riconosce poco la sua capacità di fidelizzare i clienti (39% contro 61%). Le contraddizioni che emergono sono lo specchio di un percorso di avvicinamento alle tecnologie che genera sia attrazione sia diffidenza.

Tra le cause della scarsa diffusione dell’ICT:

  • gli avvocati attribuiscono il valore più elevato alla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (49%);
  • i consulenti del lavoro, come gli studi multidisciplinari, si concentrano sulla lentezza di internet (21%);

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