Strategie

Video streaming, a rischio il dominio di Netflix. È guerra per conquistare abbonati a colpi di serie e film

Il mercato del video in abbonamento è sempre più affollato. Sono ben 5 (Walt Disney, AT&T, Comcast, Amazon e Apple) i grandi gruppi globali che stanno minando il successo di Netflix, pesantemente penalizzata anche dalla Borsa. Si preannuncia una competizione sul prezzo e per i nuovi entranti il conto potrebbe essere molto salato: difficile che tutti riescano a mantenere in vita i propri servizi. L’analisi di Umberto Bertelè

Pubblicato il 24 Lug 2019

Umberto Bertelè
Umberto Bertelè

Professore emerito di Strategia di Impresa al PoliMi e Chairman Osservatori Digital Innovation

video streaming

In poco più di una settimana Netflix, leader mondiale nei servizi di video streaming in abbonamento con oltre 150 milioni di abbonati, ha perso in Borsa quasi il 15 per cento della sua capitalizzazione (il 10 nella sola giornata di presentazione degli ultimi dati). E vale oggi [19 luglio], mentre sto scrivendo, 138 miliardi di $: una cifra tuttora molto elevata se rapportata ai ricavi (quasi 8 volte) o all’utile netto (oltre 120 volte), oppure se posta ad esempio a raffronto con i 72 miliardi della capitalizzazione di Enel – l’impresa italiana di maggior valore – che ne fattura 85 (contro meno di 18) con un utile netto di 5,5 (contro poco più di 1); ma una cifra inferiore di un quarto, meno 45 miliardi circa, a quella di un anno fa [9 luglio 2018].

La prospettiva cambia però se si volge lo sguardo più indietro: due anni fa [12 luglio 2017] Netflix valeva 69 miliardi circa e tre anni fa [19 luglio 2016] 37.

Un andamento che evidenzia come la Borsa abbia fatto una grande scommessa sul successo futuro di Netflix, impressionata dalla forte crescita del numero degli abbonati, ma come l’entusiasmo si sia recentemente smorzato sia a fronte del rallentamento di tale crescita (addirittura cambiata leggermente di segno negli Stati Uniti) sia a seguito di una serie di episodi che hanno confermato la volontà di tre fra le maggiori case produttrici – e dei gruppi cui esse fanno capo (a seguito in parte di una frenetica ondata di M&A) – di entrare sul mercato con un proprio servizio di video streaming in abbonamento, in diretta concorrenza con quello di Netflix, non rinnovando a Netflix stessa il contratto di accesso esclusivo (riccamente remunerato) al proprio “catalogo”. Per non parlare della presenza nel comparto di Amazon, con Prime, e di quella annunciata di Apple: in ambedue i casi a livello non solo distributivo, ma anche produttivo (ovviamente in outsourcing).

L’ingresso di Walt Disney, Comcast e AT&T ridefinisce il mercato

Chi sono i nuovi entranti dal mondo della produzione? Sono come detto tre, tutti di notevole consistenza e tutti con esperienze alle spalle di possesso di reti TV e/o di canali pay (con una audience ora in declino irreversibile): Walt Disney, oltre 250 miliardi di $ di capitalizzazione, quasi 60 di ricavi e 13,5 di utile netto; AT&T, 240 miliardi di capitalizzazione, quasi 180 di ricavi e oltre 18 di utile netto; Comcast, 200 miliardi di capitalizzazione, quasi 100 di ricavi e oltre 12 di utile netto.

Walt Disney, definita da Wikipedia una diversified multinational mass media and entertainment conglomerate, ha ampliato nel 2018 la sua presenza negli studi cinematografici con l’acquisizione – per oltre 71 miliardi di $ – di 20th Century Fox e in connessione ha assunto il controllo del servizio di video streaming Hulu (28 milioni di abbonati). AT&T, principale operatore telecom statunitense (insieme con Verizon), anch’essa con un portafoglio di business conglomerale, ha acquisito nel 2018 per 85 miliardi di $ la Time Warner (ribattezzata WarnerMedia e inquadrata nella divisione Warner Bros.). Comcast – una telecommunications conglomerate storicamente numero uno nella TV via cavo – ha acquisito nel 2011 NBCUniversal, nel cui ambito si collocano gli studi cinematografici Universal Pictures, e nel 2018 Sky, come ben noto presente anche nel nostro Paese: pagando per quest’ultima 40 miliardi di $ (di cui 15 a Walt Disney per la sua quota in Sky).

Gli episodi dell’ultimo mese? Netflix ha perso le due serie di maggior successo, The Office e Friends. La prima (nove stagioni prodotte dagli studi di NBCUniversal e trasmesse dalla rete NBC sino al 2013), che è stata vista nel 2018 dagli abbonati di Netflix per ben 52 miliardi di minuti, ritornerà nelle mani di Comcast nel 2021 allo scadere del contratto quinquennale esclusivo (del valore presunto di 100 milioni di $), per promuovere il decollo del suo servizio. La seconda, una sitcom degli anni ’90 tuttora molto gettonata, sarà erogata dal 2020 in esclusiva – insieme con tutto il catalogo di WarnerMedia – da HBO Max, il nuovo servizio di video streaming di AT&T.

Una volta raccontati i fatti, voglio – anche se in modo un po’ disordinato – fare tre commenti.

Video streaming, l’importanza del catalogo per emergere in un mercato affollato

Il primo riguarda la vera e propria frattura creatasi nel funzionamento del mercato video con l’affermarsi dello streaming (reso possibile dal 4G) e, in connessione, con il passaggio da un business model basato sulla vendita (come era stato successivamente per le videocassette, i DVD e il download), che privilegiava le produzioni “nuove”, a uno basato sull’accesso illimitato previo abbonamento, che viceversa porta in auge il catalogo – come dimostrato dal successo di produzioni “vecchie” quali The Office e Friends – ed esalta il valore delle case cinematografiche con le library più ricche (non a caso divenute oggetto delle acquisizioni viste in precedenza). Un fenomeno peraltro analogo a quello verificatosi nello streaming musicale in abbonamento, ove però le tre major – Universal, Sony e Warner – non competono con servizi propri, ma creano valore sfruttando la crescita di potere contrattuale nei riguardi dei distributori (Spotify, Apple Music e Amazon Prime i primi tre).

Il secondo commento riguarda l’affollamento che si sta creando in un comparto sicuramente destinato a crescere, anche in connessione con la diffusione del 5G, ma con numeri complessivi ancora limitati (Netflix fattura come visto meno di 18 miliardi). Sono ben sei i grandi gruppi in gara – cui vanno aggiunti quelli operanti sul mercato cinese e in generale i concorrenti locali – ed è molto difficile a mio avviso che essi trovino tutti la convenienza, nel medio periodo, a mantenere in vita i propri servizi.

Quali conseguenze per gli utenti dei servizi?

Il terzo commento, molto più articolato e più arrischiato, riguarda il futuro. Riguarda le possibili conseguenze, nei prossimi anni, dell’affollamento: per gli utenti da un lato e per i produttori dei servizi – tipologicamente molto diversi fra loro – dall’altro.

Per gli utenti l’aumento della concorrenza, solitamente un vantaggio, comporta – a causa del frazionamento dell’offerta – almeno due inconvenienti: da un lato toglie la possibilità di accedere con un unico abbonamento a una library trasversale enorme quasi onnicomprensiva, come è stato in questi anni con Netflix; dall’altro, se tutti i servizi dovessero avere un costo dell’abbonamento analogo a quello attuale di Netflix, il costo “a parità di possibilità di scelta” risulterebbe molto superiore. Non sarà così, probabilmente: Walt Disney, la prima grande casa cinematografica a lanciare il nuovo servizio (Disney+), ha già annunciato un prezzo dell’abbonamento dimezzato rispetto a quello di Netflix; Netflix stessa, per non perdere quote di mercato, potrebbe vedersi costretta a ridurre il prezzo; le altre due grandi case, che entrando più tardi troveranno un mercato ancora più intasato, potrebbero trovarsi costrette a offrire accessi almeno parzialmente gratuiti (come fa peraltro Amazon per tutti gli abbonati a Prime).

Se le mie previsioni sui prezzi sono corrette, i nuovi servizi di Walt Disney, AT&T e Comcast – che già partono con un segno meno per il non rinnovo dei contratti esistenti (meno 1,4 miliardi di $ la stima per la sola Disney) – avranno una vita difficile. Walt Disney, che fra le tre ha il catalogo più ricco e partirà per prima, ha già dichiarato di non aspettarsi il pareggio prima del 2024. AT&T e Comcast, pur disponendo di tutte le munizioni finanziarie per far sopravvivere a lungo i propri servizi, potrebbero essere indotte –nell’eventuale difficoltà di conseguire una massa critica – a mettere all’asta la loro library.

In bilico appare il futuro di Netflix, ricca di abbonati ma con molta meno merce da offrire; con una salute finanziaria non brillante, per i rilevanti investimenti in produzioni “nuove” che ha dovuto sostenere in vista del cambio di rotta dei suoi tre grandi fornitori; con una prospettiva di minori entrate, se dovrà ridurre i prezzi e/o subire una contrazione degli abbonati. La sua speranza è ovviamente quella di resistere sino al possibile ritiro di una o più delle grandi case cinematografiche. Ma vi è per essa anche la possibilità, se la capitalizzazione dovesse decrescere sensibilmente, di diventare una preda.

Per Amazon e Apple, che finanziano anch’esse produzioni “nuove” ma che per loro natura sono prevalentemente distributori, la situazione è simile a quella di Netflix per quanto riguarda il reperimento di merce da offrire sul mercato, ma (essendo ambedue prossime ai mille miliardi di valore di Borsa) con una potenza di fuoco e una capacità di resistenza enormemente superiori. Con obiettivi, però, non necessariamente allineati. Per Amazon l’obiettivo primario sembra essere la crescita di Prime – lo strumento scelto per fidelizzare i clienti con importanti ricadute nei comparti più diversi – e (almeno per il momento) i servizi di video streaming sono a disposizione gratuita degli abbonati a Prime. Apple viceversa vede nei servizi online, e quelli di video streaming si collocano in tale ambito, una sorgente determinante di profitti futuri, in grado di compensare – approfittando del miliardo di persone che hanno attualmente in uso suoi dispositivi – quelli che verranno a mancare con la saturazione del mercato degli iPhone.

Uno scenario di guerra molto interessante per chi come me ha sempre avuto una forte passione per la strategia. Uno scenario che purtroppo non vede in gara imprese europee (e tantomeno italiane), ma – almeno in occidente – solo imprese statunitensi. Uno scenario di scontro fra imprese nate come digitali e imprese (alcune come Universal Studios ultracentenarie) in fase di transizione digitale.

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