Nonostante di data-driven company si parli da più di un decennio, non sono molte le realtà che, nel 2022, possono dire di essere davvero guidate dai dati. Ricerche recenti evidenziano non soltanto percentuali contenute (il 26,5%, stando ad uno studio riportato dall’Harvard Business Review), ma soprattutto una scarsa pervasività di decisioni data-driven all’interno dei vari livelli che compongono le organizzazioni. In altri termini, nella migliore delle ipotesi solo le decisioni di rilevanza strategica vengono indirizzate dall’analisi dei dati.
Data-driven company: dalla cultura alle competenze necessarie
Per diventare una data-driven company, un’impresa deve integrare i dati in ogni tessuto della propria organizzazione. È il concetto stesso di dato a dover evolvere da un fattore puramente tecnico ad un asset portante dell’impresa. Le aziende faticano molto su questo punto, soprattutto perché l’esigenza di un time to market sempre più rapido spinge le singole divisioni ad agire da sé, senza quella visione sistemica su cui si deve fondare un’azienda guidata dai dati.
Secondo Mario De Stefano, Area Director, Data Platform & AI di Techedge, la data-driven company è il risultato di un connubio di dati e tecnologia ‘moltiplicato’ per la cultura, che di conseguenza diventa il primo fattore su cui agire. Molto semplicemente, senza data culture il resto perde di valore. Ciò spiega anche perché il concetto di data-driven company non si limiti all’abilitazione tecnologica ma sia un percorso, talvolta complesso, di change management finalizzato a portare la cultura del dato a tutti i livelli e in tutti i dipartimenti aziendali.
In questo percorso, il tema delle competenze è parimenti centrale. Per quanto le imprese si affidino a partner d’eccellenza per progettare e implementare il proprio percorso evolutivo, la gestione e la governance del dato richiedono poi figure professionali con skill adeguate: data scientist, cloud data architect e big data engineer sono sempre più richiesti dalle imprese, al punto da alimentare uno skill gap pervasivo.
La democratizzazione del dato e le sfide tecnologiche
L’obiettivo della data-driven company è diffondere la cultura del dato a tutti i livelli, e questo significa democratizzarne l’accesso e la valorizzazione. «L’azienda – ci spiega De Stefano – deve far sì che i suoi dipendenti possano lavorare agevolmente con i dati, che si sentano sicuri ad usarli e a prendere decisioni basate su di essi». La cultura continua ad avere un forte impatto, ma a questo punto è anche necessaria un’abilitazione tecnologica user friendly in grado di semplificare l’immensa complessità sottostante e, contestualmente, rafforzare la fiducia nel dato.
Non sempre le aziende possono avvalersi di una piattaforma tecnologica adeguata alle proprie ambizioni. «Nonostante la ricerca della democratizzazione – aggiunge De Stefano – molte aziende non hanno ancora un vero e proprio Data Catalog cui ogni employee possa accedere per utilizzare i dati che l’azienda gli mette a disposizione».
Who's Who
Mario De Stefano
Secondo Techedge i motivi sono diversi, ma primo in graduatoria è senza dubbio quello dei silos di cui si è detto. Ogni divisione tende ad avere le sue soluzioni, i suoi data warehouse, strumenti di reporting e di business intelligence indipendenti, così da rallentare il processo evolutivo ‘sistemico’ dell’azienda e generare criticità a livello di qualità del dato. Così facendo, infatti, c’è il rischio che due divisioni o due country ottengano insight diversi, minando l’attendibilità e, soprattutto, la fiducia nel dato. In questo stato di cose, la gestione manageriale torna inevitabilmente ad essere soggettiva.
Roberto Pastori, Direttore Customer Success di Techedge, sottolinea un altro aspetto molto interessante, ovvero la straordinaria complessità delle fonti dati di oggi, che a differenza di un tempo non sono soltanto quelli gestionali interni, ma anche quelli dei clienti e dei prodotti, che a loro volta sono sempre più digitalizzati. In effetti, in ogni industry la proliferazione dei dati è immensa e non riguarda soltanto il loro volume, ma soprattutto la loro varietà, tra dati strutturati, non strutturati, IoT, fast data, interni ed esterni all’organizzazione. La necessità di intraprendere un percorso profondo e sistemico, in grado di abbattere le logiche dei silos, dipende anche da questo fattore.
Who's Who
Roberto Pastori
Come progettare e intraprendere il percorso evolutivo
Come in qualsiasi trasformazione profonda, il percorso deve essere ben architettato e implementato, deve essere progressivo e orientato al miglioramento continuo. Secondo Techedge, sono almeno quattro i passaggi fondamentali: l’assessment, il design della roadmap evolutiva, il design tecnologico e architetturale e poi l’industrializzazione, per il quale l’azienda adotta un approccio agile finalizzato, appunto, a permettere un’evoluzione pervasiva e continua.
Dal punto di vista tecnologico, alla mappatura dei dati seguono soluzioni di data ingestion, di organizzazione del dato e tecniche avanzate di Data Quality, il cui scopo è quello di certificare il dato e creare la cosiddetta single version of the truth che impedisce la difformità nelle rilevazioni. In questa fase entra in gioco il Data Catalog, che di fatto funge da punto d’incontro tra i dati e i suoi consumer e ha il compito fondamentale di semplificare l’accesso a tutte le sorgenti informative rilevanti. Da qui, si entra nel mondo della valorizzazione del dato in senso stretto, ovvero dell’Intelligenza Artificiale, degli Advanced Analytics, dell’NLP, Machine Learning, Computer Vision e molto altro. Alcune tecnologie alimentano casi d’uso avanzati e complessi (come la Computer Vision nei contesti industriali), altre abilitano il passaggio dall’analisi descrittiva a quella predittiva, sulla quale le aziende costruiscono la propria differenziazione competitiva e il successo sul mercato.