Management

ESG, sostenibilità ed equità sociale come nuovo imperativo morale delle imprese

In un’epoca di divisioni politiche, crisi economica ed emergenza climatica, le imprese, accanto ai governi, possono contribuire a un cambiamento positivo reimpostando la loro “bussola morale”, si legge in un saggio della docente della Harvard University Rebecca Henderson. Cadbury e Unilever vengono proposti come esempi di aziende che hanno perseguito il profitto di pari passo col benessere delle persone e delle società

Pubblicato il 11 Lug 2022

sostenibilità equità sociale

Le aziende hanno un ruolo, al fianco dei governi, nell’affrontare le sfide più drammatiche del presente come il cambiamento climatico, le disparità e le divisioni politiche. Sostenibilità ed equità sociale sono il nuovo imperativo morale delle imprese. Lo afferma Rebecca Henderson, professoressa della John and Natty McArthur University presso la Harvard University, nel libro A Political Economy of Justice, di cui è curatrice e co-autrice. Il saggio che porta la sua firma è incentrato sul concetto di “azienda purpose-driven” (guidata da uno scopo, o purpose), intesa come organizzazione che sposa obiettivi pro-sociali, ben oltre il puro fine di aumentare i profitti. In un mondo sempre più caotico e polarizzato le aziende sono chiamate a reimpostare la “bussola morale” e a ritrovare nel senso di giustizia la loro stella polare.

I consumatori oggi vogliono vedere nei brand dei portavoce di programmi che migliorano le società, come le regole per limitare le emissioni di CO2 e il trattamento equo sul lavoro. È il momento per le aziende di rispondere a questa domanda con strategie capaci di coniugare purpose e profitto. Henderson analizza due casi in particolare, le strategie pro-sociali adottate dalle multinazionali Cadbury e Unilever. Ma sono solo due esempi da cui estrarre linee guida adatte a ogni impresa.

Cadbury e la tesi contro il “management scientifico”

Le radici di Cadbury, colosso dolciario britannico, affondano nel XIX secolo. In quell’epoca alcuni imprenditori sposavano un nuovo approccio alla costruzione della loro azienda basato sull’idea che l’obiettivo non fosse massimizzare i profitti, ma vendere prodotti utili e di alta qualità realizzati da dipendenti ben trattati e ben pagati. I fratelli Cadbury condividevano questa visione. Il loro era un netto rifiuto dell’approccio taylorista alla gestione d’impresa e al suo implicito assunto che i dipendenti fossero cose da manipolare. Nel 1914 uno dei fratelli Cadbury, George, scrisse in un articolo dall’emblematico titolo “The case against scientific management” (qualcosa come: “Vi spiego perché il management scientifico non funziona”) che i promotori della metodologia del management scientifico guardavano solo ai risultati ma, anche se si discute puramente di produttività, “resta la questione dei costi umani delle economie prodotte”. George Cadbury affermava che “lo status di uomo deve essere tale che il suo rispetto di sé sia ​​pienamente mantenuto e il suo rapporto con il suo datore di lavoro e i suoi colleghi sia quello di un gentiluomo e di un cittadino”.

I fratelli Cadbury investirono molto nelle loro convinzioni. L’azienda, ad esempio, richiedeva che ogni dipendente seguisse un corso accademico introduttivo e dava loro la possibilità di seguire un’ulteriore formazione commerciale o tecnica a spese del datore di lavoro. L’azienda forniva anche strutture sportive, indennità di malattia e un fondo pensione (maschile) e ha sperimentato la partecipazione dei lavoratori alla gestione dei suoi impianti.

Friedman e il pensare morale: qual è la vera libertà per l’impresa oggi?

L’idea che il business sia in fondo un’impresa morale è stata rielaborata in modo particolarmente potente da Milton Friedman e dai suoi colleghi. Nel neoliberismo di Friedman il fatto che “la responsabilità sociale delle imprese consista nell’aumentare i propri profitti” è prima di tutto un’ingiunzione morale, profondamente radicata nella convinzione che un capitalismo ben funzionante sia una fonte fondamentale di prosperità economica e libertà economica e politica. Per l’imprenditore e l’executive che oggi parlano del proprio dovere di massimizzare il valore per gli azionisti questo si traduce in azioni guidate da un profondo senso di responsabilità morale.

Secondo Henderson l’attuale movimento verso uno scopo pro-sociale dell’impresa potrebbe essere visto come una naturale evoluzione del moral thinking di Friedman. Perché, se i mercati non sono genuinamente “liberi” – se, ad esempio, le imprese possono influenzare il sistema politico affinché le regole sulla concorrenza vadano a loro vantaggio o se i prezzi non riflettono i costi reali perché le imprese possono legalmente emettere enormi quantità dei gas serra che causano enormi danni sociali – non c’è motivo di credere che massimizzare il valore per gli azionisti massimizzerà il benessere o la libertà.

Paul Polman: “Non sono schiavo degli azionisti”

Paul Polman, che dal 2009 al 2019 è stato il CEO del colosso dei beni di consumo Unilever, è uno dei massimi esponenti di questa idea. Nel primo giorno al timone dell’azienda annunciò che Unilever non avrebbe più fornito guidance sugli utili trimestrali né pubblicato rapporti trimestrali sugli utili (in seguito ha scherzato su questo episodio dicendo che è stata la sua prima iniziativa da CEO perché non pensava che il CdA lo avrebbe licenziato proprio il primo giorno).

Unilever, nella visione di Polman, si doveva concentrare sul lungo termine e sulla risoluzione dei grandi problemi del mondo. Il top manager si è spinto fino ad esortare gli azionisti a investire i loro soldi altrove se non erano convinti da “questo modello di creazione di valore a lungo termine, che è equo, condiviso, sostenibile”. Sei mesi dopo la nomina a Chief Executive Polman ha annunciato l’Unilever Sustainable Living Plan, in base al quale l’azienda si è impegnata a dimezzare la propria impronta ambientale pur raddoppiando la produzione.

Negli anni seguenti Polman ha affermato ripetutamente che la sua responsabilità era verso molteplici portatori di interesse, inclusi i consumatori nei Paesi in via di sviluppo e gli attivisti per i cambiamenti climatici. Riguardo agli azionisti ha detto: “Non lavoro solo per loro…La schiavitù è stata abolita molto tempo fa”.

Nel 2022 la sostenibilità è l’imperativo del capitalismo

La visione di Polman si cala perfettamente nella realtà del 2022. Oggi il leader è sempre più una figura manageriale centrata sulle persone, sull’ambiente di lavoro e sui concetti di humanity. Il successo aziendale ne deriva a cascata.

A livello strategico la sostenibilità delle imprese e la trasformazione in chiave ESG sono ormai il tema centrale, non perché le aziende siano diventate delle no-profit, ma perché la sostenibilità è la nuova forma di un capitalismo più resiliente che difende e migliora anziché consumare e distruggere. È questa la nuova “bussola morale” delle aziende.

“Ci concentriamo sulla sostenibilità non perché siamo ecologisti, ma perché siamo capitalisti e siamo legati da un rapporto fiduciario verso i nostri clienti”, ha scritto nella sua consueta lettera annuale ai Ceo Larry Fink, numero uno di Blackrock, la più grande società di investimento al mondo. Il testo rappresenta una bussola per tutti i business manager perché indica le priorità e i temi più rilevanti per il sistema finanziario globale e viene sempre osservato con attenzione. Senza ricorrere a sigle per designare nuove correnti di pensiero, possiamo sicuramente dire che la prosperità economica senza equità e rispetto dell’ambiente e delle persone non ha più alcun senso in un mondo che ha subito i colpi di una pandemia, che soffre le drammatiche ripercussioni del cambiamento climatico e che sta aprendo gli occhi sulle devastanti conseguenze dei conflitti armati.

La raccolta di saggi “A Political Economy of Justice”, curata da Danielle Allen, Yochai Benkler, Leah Downey, Rebecca Henderson e Josh Simons, è edito dalla University of Chicago Press.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati

Articolo 1 di 3