Futuro digitale

Professionisti digitali e cultura dei dati: i due pilastri della data driven strategy

Le aziende sono sempre più consapevoli dell’importanza di lavorare sui dati per trasformarli in un nuovo driver di crescita e consolidamento. Tuttavia, per molte organizzazioni il percorso è ancora lungo: da un lato la “cultura dei dati” stenta a inserirsi nelle dinamiche dei brand a livello globale, dall’altro è difficile trovare profili con le giuste abilità tech

Pubblicato il 30 Gen 2019

Data driven strategy

“Data driven strategy” è il nuovo mantra delle aziende. Tra chi pensa di averlo già adottato e chi invece vorrebbe farlo, non c’è società che in questo ultimo biennio non abbia lavorato sui dati per trasformarli in un nuovo driver di crescita e consolidamento. Una buzzword la cui ricerca tra i marketer è sempre più spasmodica: basti pensare che sono ben 537 milioni i risultati che emergono da una semplice ricerca su Google. È chiaro, però, che non basta inserire un termine a caso in un report o in una presentazione per definirsi realmente guidati dai dati. È necessario, infatti, che l’intero team sia allineato su questa linea strategica. Per molte aziende il percorso è ancora lungo: da un lato la “cultura dei dati” stenta a inserirsi nelle dinamiche dei brand a livello globale, dall’altro mancano professionisti specializzati nel campo dei dati, a causa dell’incapacità delle aziende di coltivare questi talenti e integrarli realmente nelle dinamiche dell’azienda.

Data driven strategy: è necessario concedere ampio spazio di manovra ai professionisti del dato

Per il 65% dei Chief Information Officer, coinvolti nell’edizione 2018 dell’indagine “CIO Survey” di KPMG, è sempre più difficile trovare profili con le giuste abilità tech. L’ambito dei dati, in particolare, sembra essere l’area in cui è più difficile reperire talenti e per il 46% delle aziende il suo rafforzamento è una priorità. Nel campo dell’Intelligenza Artificiale, l’expertise nella raccolta e nell’analisi dei dati è considerata un plus non solo dalle grandi aziende con un budget da dedicare all’IT oltre i 250 milioni di dollari (56%), ma anche dalle realtà più piccole e con investimenti stimati sotto i 50 milioni (45%).

Anche se le richieste di queste figure professionali sono in costante crescita (in Italia la domanda di professionisti dei dati cresce del 90% ogni anno secondo un’indagine di Modis), non sempre le aziende sono realmente capaci di sfruttare le loro competenze a ogni livello. Non si tratta, infatti, solo di avere internamente delle figure altamente specializzate, ma bisogna anche metterle nelle condizioni di interfacciarsi e relazionarsi con tutti gli stakeholder dell’azienda, per comprendere obiettivi di business, e di trovare sinergie con tutti i dipartimenti. Come riporta un recente articolo pubblicato su “The Business of Fashion”, secondo l’esperta di hi-tech recruiting Karen Harvey, non basta inserire nell’organigramma la figura del Chief Data Officer per portare avanti una data driven strategy: è necessario concedere un ampio spazio di manovra per operare su diversi livelli e innestare una reale “cultura dei dati”, dimostrando come questi siano indispensabili, soprattutto in un’ottica di miglioramento della customer experience e della relazione con i clienti.

Bisogna fare i conti con il fatto che per mettere in piedi una data driver strategy, le aziende devono farsi realmente guidare dai dati, considerandoli il perno di tutte le decisioni aziendali. Non stupisce quindi che nelle aziende digital-oriented si stia sempre più diffondendo la figura del Content Intelligence Manager, che diventa un punto di riferimento per l’intera azienda capace di comprendere e razionalizzare i processi di content management, garantire la brand consistency su tutti i diversi touchpoints dell’azienda e valorizzarli sulla base dell’analisi dei dati generati dalla fruizione dei contenuti stessi. Grazie al suo lavoro, è più facile allineare i team e integrare i dati nelle diverse attività quotidiane.  In questo modo è possibile evitare di incorrere in alcuni ostacoli tipici di chi punta a mettere in campo una data driven strategy, come l’incomprensibilità dei dati, l’incapacità di tradurli in azioni e la difficoltà di trasformarli in insight dinamici con cui confrontarsi con il mondo esterno.

Primo passo: comprendere quali dati sono importanti per guidare il business

Prima di pensare alla data driven strategy, CEO ed executive manager devono capire di quali dati hanno realmente bisogno. Raccogliere quelli poco rilevanti, magari da fonti non sofisticate, può portare il business a prendere una direzione sbagliata. Sono molte le organizzazioni che hanno già a disposizione strumenti capaci di raccogliere i dati relativi a clienti, comportamenti, abitudini e interessi: sono i contenuti aziendali, pubblicati sui diversi touchpoint – come sito web, app o e-commerce – a rappresentare la chiave di volta per un business realmente guidato dai dati.

I percorsi di visualizzazione e le interazioni degli utenti, per esempio, restituiscono degli insight che possono attivare dei processi predittivi in grado di guidare le persone lungo tutto il percorso di customer experience, partendo dall’iniziale ricerca di informazioni sul web per arrivare all’acquisto vero e proprio, online o in store che sia. Si tratta di una miniera preziosa di cui però molte aziende o non conoscono l’esistenza o non sanno ancora come sfruttarla. È qui che entra in campo la Content Intelligence, l’Intelligenza Artificiale applicata ai contenuti: gli algoritmi di machine learning sono in grado di auto apprendere e mappare l’interesse degli utenti in base agli argomenti di cui fruiscono e quindi individuare il miglior contenuto da proporre a ciascun visitatore, partendo dall’analisi dei dati raccolti, come il numero di visualizzazioni, il comportamento di utenti simili e il percorso di navigazione.

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