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Editoriale – Energia creativa per costruire il futuro dell’Italia

Un tasso di crescita che rimarrà ancora molto ridotto (rinviando nel tempo la riconquista del livello di PIL ante-crisi) e una disoccupazione che presumibilmente crescerà ulteriormente – a causa in primo luogo della (peraltro auspicata) crescita della produttività non bilanciata dalla crescita del PIL – sembrano caratterizzare l’economia reale italiana del 2011 appena iniziato.

Pubblicato il 01 Dic 2010

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Due aspetti sicuramente non piacevoli, ma ingannevoli se pensati comuni a tutta l’economia. Perché le differenze ci sono, e forti, fra imprese che crescono e imprese che languono, fra comparti trainati dalla domanda internazionale e comparti depressi dalla domanda interna, fra aree del paese che presentano tassi di crescita europei e aree in ulteriore contrazione. Perché la crisi – a livello italiano come a livello mondiale – ha provocato e sta provocando effetti molto differenziati, che tendono a ridisegnare le posizioni relative, a far emergere nuovi campioni e a ridimensionarne fortemente alcuni di quelli tradizionali. Perché la crisi rappresenta come sempre un momento di rottura degli equilibri e di forte dinamicità, che può e deve essere sfruttato tempestivamente dalle imprese più vitali per conquistare spazi in altri momenti inaccessibili.

Non è peraltro solo l’economia reale nel suo complesso a destare preoccupazione, ma anche la tenuta finanziaria del nostro Paese, in un contesto che, come noto, vede ormai da molti mesi sotto pesante attacco ben quattro paesi dell’”area euro”. Pesa negativamente per noi il forte debito accumulato nei decenni passati, ma pesa anche (come accadrebbe nella valutazione di qualsiasi impresa) la bassa crescita: a sua volta difficile da controbattere con cure keynesiane (infrastrutture pubbliche, incentivi agli investimenti e all’innovazione, etc.), per i rigidi vincoli sulla finanza pubblica che siamo obbligati a rispettare. Il pericolo maggiore è che i mercati finanziari internazionali, sempre alla ricerca di nuove occasioni speculative, ci individuino come possibile preda. La speranza, se il controllo della spesa pubblica rimarrà saldo e se l’economia reale riprenderà fiato, è di uscire rapidamente dalla zona di pericolo. Sono peraltro convinto che il maggior rigore, seppure con tutte le sue spiacevolezze, presenti anche delle positività: obbligando molte pubbliche amministrazioni a risagomare i propri budget, a tagliare costi inutili e a ridurre le inefficienze.

Quello che ho descritto finora, in linea sia con le previsioni ufficiali del governo sia con quelle delle principali istituzioni di ricerca, è un quadro atteso piuttosto negativo. Ma è un quadro ineludibile o possiamo fare di meglio? Io sono convinto che si possa, purchè le nostre imprese – come spesso accaduto nel passato nelle fasi più critiche – riescano a esprimere al meglio le loro energie creative e purchè il Paese trovi la forza per correggere alcuni dei malfunzionamenti che più impattano sulla funzionalità del sistema: semplificando le leggi e accelerando la soluzione dei contenziosi, innovando l’organizzazione della Pubblica Amministrazione, promuovendo il potenziamento delle infrastrutture fondamentali e aumentando la competizione nei relativi comparti. Sono confidente, anche sulla base di constatazioni concrete, che le imprese si stiano muovendo nella giusta direzione. Vedo maggiori difficoltà in ciò che dovrebbe fare lo Stato: non tanto e non solo per una ragione di soldi, ma per la fortissima resistenza al cambiamento che pervade la componente non competitiva del Paese – sia pubblica sia privata – e per lo scarso interesse dei governi (a prescindere dal loro colore) a gestire ristrutturazioni organizzative defatiganti e poco foriere di risultati visibili nei tempi brevi.

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