La Corporate Social Responsibility (CSR), o responsabilità sociale d’impresa, è diventata così rilevante da essere sbandierata come priorità nelle strategie delle principali corporation globali. Se questo avveniva già prima della pandemia del Coronavirus, ora l’emergenza sta mettendo in luce l’urgenza di un cambio di passo. Un sondaggio pubblicato dal Word Economic Forum, che ha organizzato un evento dedicato a questo tema (Sustainable Development Impact Summit), rivela che 9 cittadini su 10, a livello globale, auspicano di vivere in un mondo più sostenibile ed equo nel post-Covid 19, e che il 72% si aspetta una trasformazione nel proprio stile di vita, piuttosto che un ritorno al passato.
Un messaggio forte e chiaro, che i top manager delle grandi multinazionali mostrano di condividere: nelle intenzioni, appare ineludibile che in futuro il focus sarà sempre più verso scelte di business orientate a obiettivi di sostenibilità, sintetizzati nell’acronimo ESG (environmental, social, and corporate governance), come unica strategia in grado di dare nuova spinta al business per uscire dalla crisi economica.
“La pandemia finora non ha spinto a trasformazioni che guardano al futuro, ma ci ha mostrato molto chiaramente il presente”, ha affermato Achim Steiner, Administrator, United Nations Development Programme (UNDP).
“Continuiamo a valutare il successo su basi unicamente finanziare. E’ bizzarro e superato. Le nostre metriche finanziarie, così come la misura della ricchezza di un paese basata sul PIL, stanno creando diseguaglianze sociali e degrado ambientale”, ha affermato in un intervento al vertice WEF Alan Jope, Chief Executive Officer di Unilever. Nelle parole del manager, l’obiettivo del profitto sarà raggiunto solo se le aziende saranno in grado di “servire bene i clienti, prendersi cura dei dipendenti, trattare in modo corretto i fornitori e contribuire in modo effettivo al benessere della società e alla salvaguardia del pianeta”.
Una messaggio che non è certo isolato: già ad agosto del 2019 un nutrito numero di Ceo delle multinazionali statunitensi più influenti del Pianeta, riuniti nella Business Roundtable, aveva dichiarato di voler cambiare completamente il paradigma fondativo delle proprie aziende. L’impostazione classica, alla Milton Friedman, che definisce la ragion d’essere di un’impresa nella capacità di generare guadagno, è oggi capovolta a favore di una visione orientata a condividere il valore generato dal business con la società civile, gli individui e l’ambiente. I CEO di aziende come Cisco Systems, Ibm, Apple, Amazon, Walmart, JP Morgan Chase, General Motors, Boeing avevano deciso di togliersi d’impaccio programmaticamente, con una dichiarazione pubblica d’intenti che cancellava ogni dubbio: non si fa business se non c’è etica, il valore prodotto non può rimanere solo agli azionisti, deve permeare chiunque contribuisca a produrlo, dipendenti e clienti insieme a tutta la società e al territorio che abita, ovvero tutti gli stakeholder. È giunto il tempo della creazione di valore condiviso.
Cos’è la Corporate Social Responsibility: la definizione della Comunità Europea
È esattamente questo l’ambito di pertinenza della CSR, la Corporate Social Responsibility aziendale, come viene ufficialmente definita nel 2001 dalla Comunità Europea: «l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate». In un mercato globale il concetto di stakeholder è anch’esso di portata mondiale, e non c’è ambito d’impresa oggi che non debba curare la propria reputazione agli occhi dei cittadini. Soprattutto se i cittadini diventano sempre più consapevoli e sensibili al tema della sostenibilità, economica e ambientale, anche nelle proprie scelte di consumo.
Ma di cosa si tratta esattamente e come si fa oggi la CSR? Il concetto si fa risalire al 1953 e al libro di Howard R. Bowen “Social Responsibility of Businessman” il quale si chiede quali responsabilità verso la società sia lecito aspettarsi da chi dirige un’impresa. Le definizioni di CSR nel corso degli anni si sono moltiplicate ma tra le più popolari c’è quella di Archie B. Carrol con la sua piramide della CSR elaborata nel 1991 e ancora oggi tra le più accreditate, almeno fino alla dichiarazione sottoscritta in agosto dai 181 amministratori delegati statunitensi. Carrol non nega l’assunto di Friedman, infatti il profitto rimane alla base della piramide delle quattro responsabilità del business, inteso però in un’ottica di lungo periodo. Al secondo gradino c’è il dovere da parte dell’impresa di rispettare leggi e norme, dal diritto del lavoro alla salute pubblica. Ancora sopra, l’etica, intesa come un’operosità che sottende la morale e in questo senso va anche oltre le leggi scritte, per esempio attraverso una maggior attenzione ai rapporti con clienti e fornitori. In cima alla piramide di Carrol c’è la responsabilità filantropica, la CSR, ovvero l’impegno a restituire alla società il valore che si ricava dal business. Si tratta però di azioni volontarie e non obbligatorie, anche se ne viene riconosciuta l’importanza: si parla più che altro di volontariato aziendale e donazioni (tipicamente donare parte del ricavato), mentre oggi il concetto di Corporate Social Responsibility aziendale è molto più ampio. Coinvolge ogni aspetto della vita aziendale, anche il clima lavorativo, la parità di genere e la diversity, per citare due temi d’attualità, quindi ciò che accade in azienda e fuori dall’azienda, con uno sguardo che va ben oltre il breve termine proiettando l’impresa avanti nel futuro e riflettendo sul futuro, cosa rimarrà alle prossime generazioni. Una questione di sopravvivenza, se si pensa all’ambiente e al riscaldamento globale, ma anche d’immagine, molto importante in una società totalmente connessa e sempre più “social”.
Esempi eccellenti di responsabilità sociale in Italia e in Europa
Tornando in Europa, la Comunità Europea ha recentemente messo mano alla direttiva 2013/34 relativa ai bilanci d’esercizio e consolidati imponendo alle imprese di maggiori dimensioni, oltre 500 dipendenti e fatturato oltre i 40 milioni di euro, la rendicontazione delle informazioni non finanziarie. Un allineamento a qualcosa che molte imprese già facevano, avendo colto rapidamente il trend generale di interesse da parte dei consumatori o in generale l’attenzione anche della stampa e dei social verso i comportamenti etici di chi fa business. Prime tra tutte le imprese con brand consumer, a diretto contatto con le persone, dalla moda all’alimentare, per esempio Johnson & Johnson, Unilever, Nestlè, Coca Cola, Ferrero, e quelle dalle quali, per definizione, ci si aspetta un comportamento più che etico, come le associazioni di consumatori, in Italia la Coop. Di fatto già nel 2017 a redigere un report CSR era il 78% delle aziende multinazionali del mondo, secondo l’indagine KPMG, anche perché alcuni studi (Vollono, 2010, McDermott, 2012) hanno evidenziato la stretta relazione tra CSR e le performance finanziarie delle aziende, si pensi soprattutto a quelle quotate in borsa e alle scelte degli investitori o dei fondi d’investimento, oggi sempre più orientati all’etica.
Va detto che l’Italia è tra i pionieri nella CSR poiché la legge 254/2016 imponeva già l’obbligo dell’inserimento nel bilancio appunto per le aziende quotate in borsa. L’ultima edizione dell’Osservatorio Socialis rilasciata nel 2020 quantifica a quasi un miliardo e ottocento milioni di euro (1,771 mld) gli investimenti nel 2019 in azioni di CSR e Sostenibilità da parte delle aziende italiane che hanno scommesso sul loro ruolo di produttori di valore sociale: il 25% in più rispetto al 2017 (1,412 mld). Ad investire nel corso dello scorso anno il 92% delle aziende con più di 80 dipendenti dislocate sul territorio italiano (era l’85% nel 2017).
Esiste anche un Integrated Governance Index che, nella sua ultima versione, ha analizzato 74 aziende valutandone l’integrazione tra tutti i fattori ESG (environmental social governance), ovvero ambientali, sociali e di governance, e tutte le forme di creazione del valore di un’azienda, ovvero finanziario, manifatturiero, sociale e relazionale, naturale, umano e intellettuale, nella strategia di sviluppo. Sul podio ci sono Poste Italiane, in prima posizione, seguita da Eni e Generali (seconda posizione a pari merito) e da Enel e Snam (quarta posizione a pari merito). Hera si conferma al primo posto nell’area Finanza, che analizza i legami tra azienda e investitori responsabili.
Tech4Good: cresce l’impegno delle imprese del digitale
Tornando negli Stati Uniti, l’agenda Tech4Good coinvolge imprenditori e anche appassionati di IT e tecnologia digitale alleati a sostegno del no profit e impegnati a rendere migliore il mondo e la vita delle persone, un impegno rafforzato durante l’emergenza Coronavirus, e che continua anche in queste settimane.
Un esempio fra tanti è Microsoft, campione della Corporate Philantropy, fa parte degli sponsor del Tech4Good Awards 2019, insomma le aziende non solo investono direttamente in iniziative di volontariato aziendale, nel miglioramento della vita dei dipendenti e delle comunità nelle quali sono presenti, ma si impegnano direttamente, con il proprio know-how e la potenza di fuoco da multinazionale, per sviluppare soluzioni tecnologiche, nuove idee e attività non direttamente focalizzate al profitto. Anzi: orientate a un miglioramento generale della vita delle persone e alla conservazione dell’ambiente. Per questo scopo sviluppano Fondazioni, separate dall’azienda ma collegate inequivocabilmente dal nome che portano, a ulteriore sostegno delle iniziative responsabili. È il caso di VMWare, con la VMWare Foundation, o di IBM con una sua fondazione che si occupa di tutto quanto concerne la CSR che, emerge chiaramente, è un grande lavoro di relazioni, oltre che di strategia di comunicazione.
La sostenibilità passa anche dall’innovazione tecnologica
Che l’innovazione possa rappresentare una strada per giungere a più alti obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale e economica è abbastanza chiaro a tutti, persino ai governi centrali che sulla digitalizzazione stanno investendo gran parte dei fondi destinati alla ripartenza e allo sviluppo di un futuro sostenibile. In questo contesto si inserisce il progetto firmato Samsung in ambito educational battezzato Solve for Tomorrow. Nato come avvicinamento al digitale, Solve for Tomorrow è ora diventato a tutti gli effetti un progetto per acquisire competenze digitali legate all’innovazione che rende consapevoli del ruolo della tecnologia come abilitatore di innovazione per risolvere problemi sociali. All’interno della vasta gamma di progetti di CSR implementabili dalle aziende in vista della transizione digitale, il settore dell’educational assolve dunque a un compito strategico, come afferma Anastasia Buda, Corporate Social Responsibility Manager di Samsung Electronics Italia: «Bisogna lavorare sui giovani cittadini di oggi, che saranno i genitori del futuro, per sensibilizzarli ad essere dei cittadini responsabili sia nella vita reale che in quella virtuale».
Comunicare nel modo corretto l’impegno sociale
Al marketing e agli esperti di comunicazione resta il difficile – ma importantissimo – compito di comunicare la Corporate Social Responsibility in maniera adeguata, senza essere autocelebrativi o suonare falsi con campagne di comunicazione e sponsorizzazioni con toni eccessivi. Occorre una strategia ad hoc, magari pensando a diversi gradi di coinvolgimento del brand aziendale nelle attività di CSR, in base al tipo di business e agli obiettivi prefissati. Alcuni infatti scelgono di separare completamente business e CSR e di non utilizzare gli investimenti per il sociale nelle campagne di marketing, per non correre il rischio di essere accusati di socialwashing o greenwashing, in sostanza, di una sostenibilità di facciata. Oggi tutti questi parametri sono misurabili in maniera oggettiva, come anche la reputation dei brand, dunque chi deve prendere le decisioni ha tutti gli strumenti a disposizione.
Da una indagine BVA Doxa, emerge che la Corporate Social Responsibility è poco conosciuta dagli italiani: solo il 20% sa effettivamente di cosa si tratta. La survey evidenzia anche un certo grado di scetticismo: fra chi la conosce il 47% crede che le attività di CSR «siano operazioni di facciata e non concrete». Malgrado ciò, il 33% degli italiani ritiene «molto importante» essere messo al corrente della condotta di responsabilità sociale dei brand di cui è cliente. La percentuale sale all’84% considerando anche chi ritiene questa informazione «abbastanza importante».
L’unica certezza è che senza “responsabilità” non si può più fare business e il tema pressante del cambiamento climatico ha accelerato, per tutti, il tempo della consapevolezza e delle scelte dirimenti. Le nuove generazioni ci guardano e non ci sono margini d’errore, non possiamo sbagliare.
Fa bene ricordare, in chiusura, che i padri costituenti italiani ritenevano così importante il tema da averlo inserito in un apposito articolo, l’articolo 41, che recita “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
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