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Come cambia il CIO: «Gestirà solo il 60% del budget IT e sarà broker e consulente»

La comunicazione con il business, l’integrazione delle soluzioni comprate da altre funzioni aziendali, la necessità di “farsi imprenditore” e proporre nuove iniziative, l’incertezza sulla propria collocazione nella struttura organizzativa del futuro. Sono le sfide che la funzione IT sta affrontando, evidenziate in un’indagine Vanson Bourne di cui Fabrizio Tittarelli, CTO di CA Technologies, approfondisce i risultati in Italia

Pubblicato il 02 Set 2014

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L’evoluzione dell’IT continua a riservare sorprese: IT manager e CIO sono i protagonisti di grandi trasformazioni che riguardano la domanda di servizi, le soluzioni utilizzate, i ruoli nelle organizzazioni d’impresa. Cambiamenti destinati a caratterizzare il settore informatico anche nel futuro secondo quanto emerge dallo studio “TechInsights Report: The Changing Role of IT and What to Do About It”, realizzato da Vanson Bourne per conto di CA Technologies, che ne evidenzia i sei trend fondamentali, offrendo indicazioni su cosa dovrà fare nei prossimi anni la funzione IT per restare rilevante nell’azienda.

Uno studio che conferma difetti noti dei responsabili IT italiani, quali la difficoltà a dimostrare il valore del proprio lavoro, ma anche i segnali di un cambiamento della professione verso ruoli meno tecnici e più strategici per le attività core dell’azienda. Abbiamo discusso dello studio e di ciò che può dar valore al lavoro dell’IT con Fabrizio Tittarelli, CTO di CA Technologies Italia.

Il rapporto rivela le difficoltà dell’IT nel dimostrare il valore di ciò che fa per l’impresa. Si tratta di un problema di incomunicabilità o qualcos’altro?

E’ vero che l’indagine rileva questo problema, ma registra anche un incremento del numero di CIO italiani che riportano al CEO, un quinto in più negli ultimi tre anni 3 anni, segno che le cose vanno migliorando. Il dato italiano (55%, ndr) è comunque più basso rispetto alla media europea e globale e molto distante dai Paesi scandinavi in cui si avvicina al 100%. Le ragioni sono diverse. Un aspetto riguarda il tessuto produttivo italiano che non è hi-tech, ma manifatturiero, alimentare, ceramico e così via: settori in cui l’IT non è percepita come strategica. Poi c’è il fatto che l’IT non sa comunicare bene con il business e quindi vendere il suo valore. Spesso esistono motivi oggettivi quali la mancanza di tool che misurano il valore dell’IT tradotto in KPI e in dati che possono essere portati all’attenzione del top management. C’è insomma mancanza di cultura e di strumenti di governance, reportistica su SLA, eccetera, che mettano in relazione l’IT con la revenue generation. Strumenti utili per comunicare con persone che non hanno lo stesso livello di sensibilità alle tecnologie riscontrabile nelle aziende hi-tech o startup.

L’indagine rileva un aumento della spesa IT per servizi erogati dall’esterno. E’ un sintomo di evoluzione nelle strategie di sourcing o una perdita di fiducia verso l’IT interna?

Lo sviluppo delle tecnologie ha portato parte della spesa fuori dal controllo dell’IT. C’è il fenomeno della consumerizzazione che porta a usare apparati personali in azienda, ma anche la necessità di avere servizi con modalità e tempistiche incompatibili con le capacità interne. Da qui deriva la necessità della spesa diretta all’esterno che oggi è pari a circa il 29% del totale e che in tre anni potrebbe salire in Italia al 39%, su una media globale pari al 44%. L’IT gestirà direttamente solo il 50-60% della spesa, ma avrà un ruolo sempre più importante come consulente e broker. Chi spende soldi in servizi esterni ha infatti bisogno delle competenze dell’IT per non fare danni. Nella scelta di un servizio, per esempio di Cloud Computing, non contano unicamente i parametri funzionali o tecnologici, ma anche la stabilità finanziaria, la reputazione del fornitore, la sua localizzazione geografica, la conformità regole e SLA che devono essere valutati da persone competenti. L’IT può giocare questo ruolo e mantenere quindi la responsabilità sulla spesa e sull’erogazione dei servizi erogati in modo ibrido: un po’ interno e un po’ dall’esterno.

Cosa deve fare in concreto il CIO per adeguarsi al cambiamento?

Ha la necessità di uscire dai ruoli operativi, essere proattivo e diventare realmente il “chief innovation officer” della sua azienda. Un ambito molto importante del suo lavoro è l’apertura dell’azienda verso l’esterno e l’IT è lo strumento che consente di realizzare questo cambiamento. L’avvento di internet è stato un primo passo. Con lo sviluppo dei sistemi Mobile è emerso l’interesse dell’azienda a interagire con nuovi soggetti e con nuove modalità. Se prima si chiedeva al CIO di far funzionare l’IT e mantenere in sicurezza sistemi e informazioni, oggi contano in modo primario le esigenze del business. Il CIO deve adottare approcci imprenditoriali nel proprio lavoro, prendersi carico delle nuove iniziative oltre il semplice supporto tecnologico. Rispetto a qualche anno fa, quando già si parlava di queste tematiche, c’è stata una forte accelerazione: si sono affermati sulla scena i tablet e le app che interfacciano i sistemi aziendali. La mobilità ha avuto un andamento invasivo che obbliga i CIO a valutare attentamente opportunità e rischi. E’ attraverso questo cambiamento che il CIO può diventare consulente per il CEO e il direttore generale.

Quali sono i nuovi servizi business su cui si sta investendo in Italia?

La ricerca ci dice che una parte sempre più importante del budget va ai nuovi servizi e che la gestione dell’esistente, che in passato assorbiva il 75% del budget, oggi vale solo il 57%. C’è stato un passo avanti anche se l’Italia è indietro rispetto alla media EMEA e di Paesi come la Francia in cui le operation assorbono solo il 41% della spesa. Anche se è difficile generalizzare, gran parte dell’investimento va nella direzione dei nuovi paradigmi: prima la virtualizzazione, ora il Cloud. Iniziano a esserci investimenti sui temi dei Big Data oltre che nel Mobile. Quest’ultimo tema è visto come un abilitatore per lo sviluppo di nuovi mercati. Ci sono grandi realtà aziendali che stanno investendo sull’Internet of Things, principalmente nel settore degli elettrodomestici. Anche questo fa parte dei macrotrend tecnologici che stanno influenzando il mercato.

L’indagine rivela una forte incertezza su come sarà organizzato il reparto IT nei prossimi anni e questo non aiuta certo il CIO a lanciarsi nelle sfide prospettate. Come si affronta questo problema?

Penso che una conseguenza della velocità del cambiamento sia proprio l’incertezza sulle direzioni da prendere. Questo fa sì che il 41% dei manager intervistati ritenga che alcune funzioni potranno essere spostate su altri reparti meno specializzati. Ci sono differenze di visione ma questo è normale. Nessuno può realmente prevedere dove ci porterà il cambiamento, ma certamente può farsi un’idea delle direzioni del cambiamento stesso e di dove è strategico investire per diventare consulente e broker per la propria azienda, connettere nel modo migliore l’IT con le esigenze del business.

Cosa significa dal punto di vista delle persone?

La trasformazione dell’IT verso un ruolo consulenziale si traduce nella creazione di un diverso rapporto con il business, con le scelte organizzative e i budget. In molte aziende italiane c’è un problema di età delle persone e mancanza di conoscenze nel campo delle tecnologie. Questo non significa che le persone siano obsolete, ma che c’è bisogno di nuove risorse e di piani di formazione. Occorre aumentare l’investimento formativo. Servono giovani in grado di portare entusiasmo e competenza digitale, ma anche persone più mature capaci di prendere decisioni con la necessaria pacatezza. Insomma nuove competenze e valorizzazione di quelle esistenti.

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