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Retail, se il cliente accetta di essere ‘tracciato’ online, ma non in negozio

I software di analisi dei comportamenti d’acquisto negli ‘store’ fisici sono ormai all’altezza di quelli usati dai siti di e-commerce, ma i consumatori mostrano livelli di sensibilità e tolleranza diversi

Pubblicato il 30 Ago 2013

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Nel settore retail, l’ennesimo capitolo del forte dualismo creatosi negli ultimi anni tra negozi ‘fisici’ e siti di e-commerce riguarda il tracciamento dei comportamenti d’acquisto dei clienti. Mentre i consumatori sembrano più tolleranti sui ‘cookie’ che analizzano tutti i loro percorsi di navigazione su internet, e in particolare nei siti di e-commerce, le proteste sono molto più frequenti e irritate nel caso che i clienti scoprano che iniziative del genere (tramite telecamere o rilevatori di segnali wi-fi emessi dagli smartphone) sono in corso quando entrano in un negozio ‘vero’.

Il New York Times qualche settimana fa si è soffermato sul problema partendo dal caso dei grandi magazzini Nordstrom, costretti appunto a interrompere un test di tracciamento dei percorsi dei clienti tra le corsie e gli scaffali dei propri negozi tramite rilevamento wi-fi. L’azienda, che correttamente ha informato i clienti tramite avvisi nei negozi, ha confermato che il test è stato sospeso “anche per alcune proteste”.

I dati che si possono raccogliere con i sistemi di tracking dei comportamenti dei clienti – percorsi, tempi di permanenza nel negozio, nei singoli reparti e corsie, e davanti ai vari scaffali, tempi dedicati alla lettura delle etichette dei prodotti e dei prezzi, ecc. – sono estremamente utili sia per i produttori che per i retailer nei settori dei beni di largo consumo. Per questo moltissimi di questi operatori stanno facendo test più o meno estesi in questo senso. Le tecnologie sono ormai estremamente avanzate: uno smartphone con wi-fi attivo può essere localizzato con una precisione entro i tre metri, e dato che ogni dispositivo mobile emette un codice di identificazione quando cerca la rete, il consumatore che ritorna in un negozio può essere riconosciuto appena entra.

Inoltre esistono software specializzati che sulla base di quanto ripreso dalle telecamere di ultima generazione possono ‘customizzare’ un’offerta o un messaggio pubblicitario in base a cosa sta guardando il consumatore, e persino del suo stato d’animo (felice, preoccupato, triste, ecc.), grazie a tecnologie di riconoscimento delle espressioni del viso. Si può andare quindi addirittura un passo oltre rispetto a ciò che fanno le soluzioni di analisi della navigazione che usano tutti i principali siti di e-commerce.

Ma molti non si pongono neanche il problema

Il problema, osserva il New York Times, è appunto capire se tutto questo sia più invasivo della privacy rispetto ai cookie che tracciano il comportamento delle persone su internet. I retailer con negozi fisici si difendono sostenendo che i dati sono raccolti collettivamente e anonimamente, mentre i loro critici sottolineano che i cookie in teoria non identificano singolarmente l’utente, e che dal tracciamento dei comportamenti nei negozi si possono dedurre molte più informazioni sensibili.

Per completare il dibattito va poi sottolineato che c’è una vasta percentuale di consumatori, soprattutto tra i più giovani, che non si pone assolutamente il problema della privacy, mettendo a disposizione volentieri i propri dati e la possibilità di essere tracciati in cambio di coupon e sconti. L’articolo fa l’esempio di Placed, società di Seattle che ha rilasciato un’App che traccia i percorsi delle persone in negozi e centri commerciali (vendendo poi i dati ai retailer) in cambio di carte prepagate spendibili su Amazon o Google Play: oltre 500.000 persone hanno scaricato l’App in meno di un anno.

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