Business Continuity e Disaster Recovery non sono più temi che interessano solo le grandi multinazionali o le imprese attive in ambiti delicati e specifici, come per esempio quello finanziario. Sono due le ragioni che spingono anche le aziende comuni e persino le PMI a valutare scenari tecnologici che fino a pochi anni fa sembravano lontanissimi e che oggi invece possono fare la differenza nel preservare l’ordinaria e la straordinaria amministrazione: «In primis il continuo proliferare delle minacce informatiche, sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo. Sempre più organizzazioni sono consapevoli dei rischi che corrono a causa di ransomware e attacchi DDOS mirati. In secondo luogo, l’avvento dell’Industry 4.0, con l’introduzione degli oggetti connessi (IoT) anche nelle piccole e medie imprese, pone il problema della dipendenza dei macchinari dai dati. Se questi vengono compromessi o se il flusso informativo viene interrotto, c’è la possibilità di incorrere in fermi macchina con danni considerevoli per la produzione. Ecco perché la necessità di un business always-on non è più solo appannaggio delle organizzazioni più strutturate». A parlare è Antonio Maggioni, IT Architect di Agomir, gruppo specializzato per l’appunto in soluzioni di Backup, Disaster Recovery e Business Continuity.
Who's Who
Antonio Maggioni
IT Architect di Agomir
Business Continuity e PMI: una questione di cultura digitale
Business Continuity è la capacità di un’azienda di restare operativa a seguito di eventi che ne minaccino le funzionalità, sia a livello informatico che per esempio di compliance alle normative. Occorre dunque consapevolezza: non solo i sistemi vanno protetti ma bisogna prepararsi, in caso di eventi che compromettano, l’infrastruttura tecnologica, con un piano di misure chiamato Disaster Recovery.
Rispetto a questi temi, secondo Maggioni non è valida la classica distinzione tra corporation e aziende di taglia minore. «La questione è prima di tutto culturale. È innegabile che in molte PMI gli imprenditori sono concentrati sul loro core business, e tutto ciò che c’è attorno difficilmente viene percepito come un elemento che consente di proseguire con le attività nevralgiche per il business stesso. L’IT, ancora, è generalmente percepito come una spesa e non come investimento. Ho a che fare con clienti che non battono ciglio quando si tratta di acquistare una pressa da due milioni di euro e che invece ci pensano non una ma dieci volte per spendere cinquemila euro in software di Data Protection. Ma esistono anche piccole imprese che non rispettano questo cliché. Abbiamo per esempio realizzato soluzioni complete di Business Continuity a imprese con appena dieci client».
Maggioni cita il caso degli studi commercialisti, all’interno dei quali si fa strada una nuova sensibilità verso queste tematiche, rafforzata da rischi insidiosi e concreti come quelli legati ai criptolocker, che arrivano con mail fasulle e che di fatto vengono scatenati da errori umani. «È interessante constatare come negli ultimi nove mesi sia cresciuta l’attenzione verso soluzioni che fino a poco tempo fa sembravano riservate ad aziende di ben altre dimensioni. Ma d’altra parte un commercialista sa bene che se una perdita di dati o un blocco del sistema determina ritardi nell’invio dei documenti per gli adempimenti fiscali, sarà lui in prima persona a doverne rispondere al cliente».
C’è poi il nascente universo dello Smart Manufacturing, con una precisazione da parte di Maggioni: «Non è considerata Industry 4.0 quella che si limita a collegare i macchinari alla LAN. Un’impresa è davvero 4.0 se tutti i dati raccolti convergono verso l’ERP, che aiuta gli operatori a governare produzione e procedure di manutenzione in ottica data-driven e con un approccio predittivo. Anche su questo versante, ci sono diverse casistiche. Sono in contatto con organizzazioni che hanno deciso di affrontare subito la questione della Business Continuity, che diventa imprescindibile in presenza di ‘vera’ Industry 4.0, e altre che stanno recependo il tema, valutando i rischi e intraprendendo un percorso graduale verso le soluzioni complete».
Dal Backup al Business Continuity Plan: come realizzare un piano
Maggioni spiega che oggi il minimo sindacale per avviare un progetto di Disaster Recovery è il Backup. «Il primo step è consigliabile nel momento in cui, in caso di attacco o indisponibilità dei dati, i tempi di ripristino non influenzano la produzione e le informazioni perse sono recuperabili o ininfluenti per il business», dice l’esperto. «Il secondo salto evolutivo è per le organizzazioni che desiderano perdere meno tempo per il ripristino. A questo punto occorre intensificare le attività di backup, effettuando più di uno al giorno sia per ridurre la quantità dei dati persi sia per comprimere i tempi del blackout. Se si arriva al punto che non è più possibile fermarsi per effettuare il ripristino, si replica l’intero storage online, con backup ogni 15 minuti e soluzioni di Business Continuity iperconvergenti, che tendono a eliminare qualsiasi punto di rottura. Ma non si tratta assolutamente di un percorso obbligato», precisa Maggioni. «Il nostro lavoro anzi consiste per l’appunto nel fornire le soluzioni che con un investimento commisurato coprano le specifiche necessità del cliente».
Per esempio, Agomir ha sviluppato una soluzione di Business Continuity che garantisce il ripristino completo in 15 minuti senza alcuna perdita di dati per una grossa azienda attiva nell’agroalimentare. «Il cliente lavora a contatto con la GDO ed è estremamente sensibile al tema della continuità di servizio: uno dei motti del settore è ‘Sul fresco non si scherza’. Se infatti un produttore perde per qualsiasi ragione la possibilità di effettuare le consegne in modo puntuale, la grande distribuzione non solo si rivolge ad altri fornitori, ma fa pagare anche pesanti penali. Deve esserci l’assoluta certezza che ogni carico parta: non ci si può permettere di lasciarlo fermo perché non viene emessa la bolla, né di non conoscere nel dettaglio qual è lo stato della produzione rispetto a un determinato ordine».
Maggioni cita anche il caso di un cliente che lavora nell’ambito dell’elettronica. «L’headquarter si trova in Italia, ma dispone di un stabilimento in Oriente e di un altro negli Stati Uniti. In questo caso la Business Continuity è indispensabile perché le linee di montaggio funzionino senza interruzioni, a prescindere dal fuso orario».
Cloud e 5G, il futuro della Business Continuity è nell’ultimo miglio
Ma qual è la prospettiva futura rispetto allo sviluppo delle soluzioni di Business Continuity? «È difficile rispondere in modo scientifico a questa domanda», ammette Maggioni. «Anche perché l’evoluzione avverrà anche in funzione della maggior consapevolezza dei clienti. A favore di questo mercato c’è, nel bene e nel male, l’avanzamento più lento del previsto del Cloud, che nativamente potrebbe dare garanzie più o meno simili rispetto alla continuità di business. Oggi il compromesso ideale è rappresentato dal Cloud ibrido, con la possibilità di mantenere alcuni dati on premise e altri, specialmente quelli relativi alle risorse da utilizzare in mobilità, disponibili fuori. Non sono pochi quelli che ipotizzano, a breve, di riuscire a portare tutto sul Cloud. Ma ci sono limitazioni oggettive, che sono legate alle diverse tipologie di applicazioni e alla latenza delle connessioni Internet. Certo, il 5G è una bella opportunità anche se ancora poco connotata. «Piuttosto – conclude Maggioni – trovo molto interessanti i sistemi nati per mettere i dati a disposizione delle imprese proprio là dove occorrono, ovvero l’ultimo miglio dell’edge computing».