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Nuovi modi di lavorare che liberano energie

Una ricerca del Politecnico di Milano rivela che l’adozione di modelli cosiddetti di Smart Working porterebbe benefici per il Sistema Paese. Nonostante l’ampia diffusione di tecnologie ICT oggi solo il 5% dei lavoratori italiani è “Smart Worker” per le resistenze culturali nelle organizzazioni

Pubblicato il 22 Nov 2012

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Lo sviluppo e la diffusione di tecnologie ICT per supportare la comunicazione, la collaborazione e la creazione di social network, insieme alla diffusione sempre più pervasiva di device mobili “intelligenti” e di facile utilizzo rappresentano un volano per le aziende verso modelli di lavoro orientati allo Smart Working. Si tratta di modelli organizzativi non convenzionali caratterizzato da maggiore flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi di lavoro (Distant o Mobile Worker), degli orari di lavoro (Flexible Worker) e degli strumenti da utilizzare (Adaptive Worker).

Con il diffondersi del concetto di economia della conoscenza e di knowledge work, infatti, la creazione di valore per un’impresa non è più legata esclusivamente alla presenza fisica dei lavoratori in un determinato luogo e per un certo periodo di tempo, bensì alla loro capacità di generare innovazione e di svolgere il proprio lavoro indipendentemente dall’orario e dal luogo in cui si trovano.

Un modello che produce benefici rilevanti innanzitutto per le imprese, con un aumento di produttività del lavoratore medio del 25% e una riduzione di costo del lavoro di circa 1,7 miliardi di euro.

A metterlo nero su bianco la Ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net), presentata al convegno “Smart Working: ripensare il lavoro, liberare energia”

I benefici dello Smart Working

L’innovazione dei modelli di lavoro orientati allo Smart Working produce benefici rilevanti non solo a livello di singola azienda, ma anche di Sistema Paese. A livello di singola azienda si stima un aumento medio di produttività del lavoratore del 25%, che se si considerano le sole grandi imprese con oltre 500 dipendenti e si ipotizza un incremento pari al 10% del telelavoro – per impiegati, quadri e dirigenti – si traduce in un beneficio in termini di costo del lavoro pari a circa 1,7 miliardi di euro. All’aumentare del numero di telelavoratori si può riprogettare l’organizzazione degli spazi – riducendo il costo dei beni immobili  e gli spostamenti -, con un impatto ambientale positivo in termini di emissioni di anidride carbonica. Si parla addirittura di una riduzione della produzione annua di CO2 di oltre 307.000 tonnellate, di un risparmio di tempo di 47 milioni di ore all’anno e di 407 milioni di euro all’anno – se solo il 10% degli occupati lavorasse da casa in telelavoro per 100 giorni all’anno.

«Queste cifre, nonostante misurino solo una piccola parte dei benefici ottenibili, danno un’idea delle potenzialità dello Smart Working in Italia – afferma Mariano Corso (foto), Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano – e dovrebbero stimolare opportune azioni da parte di tutti gli attori chiave del nostro Paese volte a trasformare questi benefici da ‘potenzialità’ a ‘energia’ per la crescita delle imprese e del Paese».

La progettazione di un sistema di Smart Working

La realizzazione di un sistema di Smart Working richiede la riprogettazione congiunta di leve tecnologiche, ma anche organizzative e gestionali. Si parla infatti di:

  • configurazione fisica degli spazi di lavoro, tra cui rientrano ad esempio l’aumento della dimensione degli uffici, la maggior configurabilità della postazione di lavoro, la creazione di aree di relax per favorire l’incontro e la collaborazione, la creazione di postazioni condivise per ridurre i costi e garantire una maggior flessibilità organizzativa. Ad oggi già il 64% delle aziende interpellate ha apportato significativi cambiamenti e il 39% ha definito dei piani di riprogettazione del layout degli uffici;
  • sfruttamento delle tecnologie digitali per ripensare lo spazio virtuale di lavoro, attraverso tecnologie di Knowledge Management, Social Network & Community, Collaboration, Mobile Workspace e Cloud Computing;
  • nuovi stili di lavoro e policy organizzative, verso una maggiore flessibilità, che ancora è frenata dalla cultura aziendale e dalle difficoltà di coordinamento e collaborazione tra i dipendenti (56%), nel timore di perdita di controllo (50%) e nel timore di isolamento e alienamento delle persone (47%). Quando la Direzione HR è riuscita a farsi promotrice di questo rinnovamento però i benefici rilevati sono stati notevoli nel miglioramento della motivazione e nel miglior equilibrio tra lavoro e vita familiare dei dipendenti (84%), nella riduzione del tasso di assenteismo (55%) e nell’incremento delle prestazioni lavorative e della produttività delle persone (48%).

«Con il diffondersi del concetto di economia della conoscenza e di ‘knowledge work’ la creazione di valore per un’impresa non è più legata esclusivamente alla presenza fisica dei lavoratori in un determinato luogo e per un certo periodo di tempo, bensì alla loro capacità di generare innovazione e di svolgere il proprio lavoro indipendentemente dall’orario e dal luogo in cui si trovano – afferma Corso – Per realizzare un sistema di Smart Working, ai tradizionali criteri per la progettazione organizzativa vanno affiancati principi come la collaborazione emergente, l’autonomia e la flessibilità nella scelta degli spazi e delle metodologie di lavoro, la valorizzazione dei talenti, la responsabilità e l’innovazione diffusa».

Gli Smart Workers in Italia

Le tecnologie digitali, oltre a cambiare gli stili di vita e relazione, stanno avendo un impatto sempre più significativo anche nel modo in cui le persone svolgono il proprio lavoro. Oggi 8 lavoratori su 10 utilizzano un device ICT per oltre il 50% del proprio tempo lavorativo, ma solo il 5% dei lavoratori ha uno stile di lavoro da “Smart Worker”.

Queste le principali evidenze della ricerca, realizzata in collaborazione con Doxa.

Oggi quindi il 26% del campione può essere considerato un Distant o Mobile Worker, in quanto lavora fuori dall’ufficio o in mobilità per almeno metà del suo tempo lavorativo, il 25% è un Flexible Worker, con autonomia nel personalizzare l’orario di lavoro in modo flessibile in base alle proprie esigenze (orario di inizio e termine dell’attività lavorativa e durata complessiva), e il 37% e un Adaptive Worker, che utilizza il proprio device (17%) o strumenti aziendali scelti personalmente (20%).

«A fronte di benefici evidenti per gli Smart Worker, l’analisi mostra come ancora troppi lavoratori, il 43%, pur a fronte di esigenze concrete e notevoli opportunità offerte dalle nuove tecnologie, siano ingabbiati in modelli di lavoro “tradizionali”, senza reali gradi di libertà nel definire dove, come e quando lavorare – commenta Guido Argieri, Telco & Media Director Doxa – Una situazione decisamente arretrata se si considera che la grande maggioranza delle persone si dichiara disponibile ad adottare modelli di lavoro innovativi come il telelavoro il lavoro in mobilità, orari lavorativi flessibili e utilizzo di strumenti informatici personali (pc/smartphone/tablet) per lavorare».

«I lavoratori – conclude Alessandro Piva, Responsabile della Ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano – evidenziano che i vincoli legati alle modalità di lavoro attuali non permettono spesso di soddisfare esigenze per loro prioritarie come l’equilibrio fra lavoro e vita privata, l’autonomia professionale e la possibilità di collaborare. Condizioni che, oltre a essere ritenute fondamentali per il raggiungimento di buone prestazioni professionali, costituiscono fattori motivanti, di importanza paragonabile alla retribuzione e alla possibilità di carrier».

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