Analisi

L’industria automobilistica, Internet e “l’effetto punteruolo rosso”

Elettrica, iperconnessa, senza guidatore, hi-tech. Come sarà, veramente, l’auto del futuro? E come si sta trasformando il settore automotive, simbolo del mondo industriale, minacciato dalla digital disruption nell’era della sharing economy? I fronti aperti sono molteplici. Di certo, l’elettronica si sta insediando nel settore e lo sta “svuotando” dall’interno, come fa con la palma il micidiale insetto noto come punteruolo rosso. L’analisi di Umberto Bertelè

Pubblicato il 23 Nov 2015

Industr.-automobistica

@umbertobertele

Umberto Bertelè è autore di “Strategia”, edizioni Egea, 2013. Ha scritto anche la prefazione dell’edizione italiana di “Big Bang Disruption” di Larry Downes e Paul F. Nunes, edizioni Egea, 2014.

Sono davvero a rischio “disruption i grandi gruppi mondiali dell’auto, sotto i colpi di maglio dell’innovazione digitale? È credibile che nel prossimo futuro essi si trovino a fronteggiare, come più pericolosi competitori, i grandi della Internet economy quali Apple e Google? Gli altri attori della filiera come verranno – se non lo sono già –  coinvolti? L’espansione a macchia d’olio della sharing economy provocherà una contrazione della domanda nei paesi sviluppati? E ancora: sarà elettrica l’auto del futuro? Si guiderà da sola?

Sono domande inimmaginabili sino a qualche anno fa, ma sempre più concrete. Dopo essersi abbattuta con effetti spesso devastanti su molti altri comparti – più leggeri – dell’economia, l’innovazione digitale sta penetrando a fondo nell’auto, nel comparto cioè tradizionalmente più emblematico del mondo industriale per complessità, dimensioni delle imprese e dimensioni della filiera. I punti di possibile sfondamento – proprio a causa dell’ampiezza dell’ecosistema, della molteplicità e varietà dei componenti e dell’elevato contenuto di servizi dell’output – sono molteplici. Ed è sempre più palpabile la paura di perdere rilevanza (o addirittura di soccombere) delle grandi imprese automobilistiche, diverse delle quali nate più di un secolo fa. Una paura che si estende agli altri soggetti a monte e a valle della filiera (che hanno interessi però talora conflittuali), alle persone che vedono a rischio il valore delle proprie competenze e i propri ruoli, ai governi che temono erosioni del PIL e perdite di occupazione.

Come in ogni grande processo di cambiamento, i dolori di alcuni sono le gioie di altri e alle difficoltà nell’immediato provocate dalla rottura degli equilibri si contrappongono – su orizzonti temporali più lunghi – vantaggi nella fruizione dell’auto e nel rispetto per l’ambiente, con le crescita di nuove imprese e lo sviluppo di nuove competenze. La mia attenzione, però, sarà dedicata soprattutto al tema della possibile rottura degli equilibri.

Sarà elettrica l’auto del futuro?

La forza degli incumbent – dei grandi gruppi automobilistici che competono su una scala sempre più globale – sta essenzialmente nell’esperienza che hanno maturato, nella mole di asset industriali di cui dispongono, nella rete di relazioni consolidate con i fornitori, nella popolarità dei brand, nel grado di copertura dei territori delle loro reti di vendita e di assistenza, nei rapporti politico-sociali – con i governi, la PA, le authority di settore e i sindacati – nei Paesi ove operano: fattori tutti che si trasformano in (quasi insuperabili) barriere all’entrata nei Paesi a economia avanzata di mercato.

Molti di questi fattori di forza potrebbero però svanire se fosse elettrica l’auto del futuro: una scelta favorevole per l’ambiente, sinora frenata dai costi elevati e dal ridotto (ancorchè crescente) grado di autonomia garantito dalle batterie, nonché dalla carenza di una rete di ricarica veloce delle stesse.

La nascita dal nulla di Tesla, in uno Stato senza tradizioni automobilistiche come la California, è sintomatica. Il mercato finanziario ci scommette: Tesla vale in Borsa quasi 28 miliardi di dollari, la metà circa di Ford (55,2) e General Motors (53,4), il 60 per cento in più di FCA-Fiat Chrysler Automobiles (17,6). 

Diventa non del tutto irragionevole l’ipotesi che un giorno anche Apple, se cambiassero le convenienze, potrebbe entrare nel settore. E Tim Cook, in un recente intervento, ha fatto affermazioni forti: “The global automobile industry is on the brink of a technology-led upheaval. The industry is at an inflection point for massive change, not just evolutionary change. A series of technology shifts are coming together to create a rare opportunity for outsiders to break into the business. (..) Software becomes an increasingly important component of the car in future. Autonomous driving becomes very much more important in a huge way in future. (..) Major technologies in the car shift from combustion engine focus.”

Si guiderà da sola l’auto del futuro?

Google è stata pioniera, con la sua self-driving car, nell’immaginare un futuro in cui l’auto potesse essere addirittura priva dello sterzo e degli altri comandi tradizionali a disposizione di chi guida: con software, sensori di varia natura (tra

cui ovviamente radar), attuatori, interconnessioni con le altre auto e con i rilevatori di traffico, fra i principali ingredienti. Subito seguita (almeno a livello di studio) da diverse altre imprese, tra cui alcune delle incumbent e Apple. Gli ostacoli all’autorizzazione alla circolazione di questi veicoli sono ancora elevatissimi. Ma mi sembra si stia verificando un fenomeno simile a quello degli ultimi decenni del secolo scorso, quando era sorto il mito della fabbrica senza operai: non ci si arrivò mai, perché eliminare l’ultimo operaio sarebbe stato troppo costoso, ma si mise in moto un processo che – con l’espansione dell’automazione e dei robot – portò alla fabbrica con pochissimi operai. Ciò che sta già accadendo infatti, a partire dai veicoli della fascia alta del mercato, è l’inserimento di driver-assistance features, di supporti alla guida che gestiscono ad esempio il mantenimento in corsia con le distanze di sicurezza e il sorpasso in autostrada o il parcheggio del veicolo: non l’auto che si guida da sola quindi, almeno per il momento, ma una strumentazione crescente al servizio di chi guida.

L’elettronica pesa sempre di più

L’inserimento di driver-assistance features nell’auto è un fenomeno recente e per ora limitato, mentre la rilevanza del software nel funzionamento del motore è di più vecchia data: come emerso dal recente scandalo Volkswagen, la cui prima versione del defeat device sotto accusa è del 2004.

L’elettronica sta pesantemente entrando nell’auto, però, per almeno per altre due vie.

La prima. Il cruscotto dell’auto assomiglia sempre più a uno smartphone, con connettività e infotainment che assumono una valenza competitiva forte: un acquirente su cinque, secondo una indagine effettuata in Germania, si dice disposto a cambiare marca a fronte di un pacchetto connettività più ricco.

La seconda. La connettività appare sempre più destinata ad assumere anche un altro ruolo: permettere al produttore un check continuo via Internet dello stato di salute dell’auto venduta, lungo tutto il ciclo di vita della stessa, finalizzato alla manutenzione preventiva. È quanto accade da tempo nel rapporto fra produttori di pneumatici e grandi flotte di veicoli e tra produttori di impianti industriali e imprese che li hanno installati al loro interno. Il check viene effettuato mediante l’invio, tramite una centralina, dei dati rilevati dai sensori incorporati nelle diverse parti (motore, freni, frizione, tubo di scarico, pneumatici…) dell’auto stessa.

Complessivamente l’elettronica – intesa in senso lato – ha un peso prossimo al 50 per cento.

L’effetto punteruolo rosso

La crescita del peso dell’elettronica – fino a valere la metà dell’auto – e l’importanza differenziante da essa assunta comportano il forte rischio per le imprese incumbent del comparto automobilistico di rimanere vittime di quello che io chiamo l’effetto “punteruolo rosso”: lo stesso che nei PC colpì Ibm, a vantaggio di Microsoft e Intel.

Ibm, dopo aver conquistato (sbarazzandosi dei non pochi concorrenti) una posizione di quasi monopolio nei mainframe ed essere riuscita a contenere i danni del successivo salto tecnologico ai PC, divenendo leader del settore, si trovò – nella fase di sviluppo successiva dei PC stessi – a essere progressivamente confinata al ruolo di quasi assemblatore dei microprocessori (sempre più potenti) di Intel e del software (sempre più ricco) di Microsoft. Il risultato è che, pur non essendosi mai integrati a valle Intel e Microsoft, Ibm sopravvisse (sino alla cessione a Lenovo della business unit) ma come svuotata dall’interno, analogamente alla palma in cui si sia insediato un punteruolo rosso: non era più il brand Ibm ad attirare gli acquisti, ma i brand dei due fornitori fondamentali; non vi era più unicità, perché Intel e Microsoft rifornivano anche i concorrenti; non vi era più extraprofittabilità, perché erano i due fornitori a fare la parte del leone nell’ambito della filiera.

Le grandi case automobilistiche potrebbero sopravvivere, ma (riprendendo Tim Cook) in una situazione in cui “major technologies shift from combustion engine

focus, in cui non sono più i motori – come nel passato – a fare la differenza. A vantaggio di chi? A vantaggio dei componentisti come Bosch (quasi 50 miliardi di euro di fatturato complessivo e 3 mila software engineers), che stanno investendo moltissimo e lavorano in stretta interazione con le Internet company, e/o direttamente delle Internet company, che dovrebbero comunque avvalersi dei componentisti per i sensori e gli attuatori (come sta facendo Google con Bosch per la realizzazione della sua self-driving car).

Lo sfruttamento di connettività e infotainment

La trasformazione del cruscotto in uno smartphone apre grandi possibilità di sfruttamento dei dati che si possono acquisire sugli automobilisti. Sul tema è intervenuta nei mesi scorsi addirittura Angela Merkel, per avvisare che non avrebbe permesso alle imprese come Apple e Google – che insieme controllano la quasi totalità dei sistemi operativi per apparati mobili – di mettere sul mercato la privacy dei cittadini tedeschi.

Non è per nulla certo, però, che si vada verso un blocco totale in tutti i Paesi. È probabile che pure le imprese automobilistiche vogliano entrare nella partita, attraverso accordi di spartizione con le Internet company. Ed è possibile che molti automobilisti rinuncino volontariamente alla privacy, in cambio di servizi o di sconti.

La crescente vicinanza fra produttori e automobilisti

In contrapposizione con i rischi a monte (effetto punteruolo rosso), le innovazioni in atto tendono ad accrescere la presa a valle delle grandi case automobilistiche sui propri clienti, con uno schiacciamento delle strutture intermedie di vendita e assistenza. 

È una tendenza in atto da anni e che appare destinata a rafforzarsi ulteriormente.

In primo luogo è cresciuto enormemente, con la diffusione di Internet e più recentemente del Mobile, il ruolo dei siti delle case automobilistiche – divenuti veri e propri saloni espositivi virtuali – nel preorientare i potenziali acquirenti (già clienti o meno) nella selezione dei modelli e delle marche da visionare poi nei saloni espositivi reali, siano essi dei concessionari monomarca (come prevalentemente in Italia) o dei dealer multimarca.

In secondo luogo l’allungamento dei tempi di garanzia, con le connesse revisioni programmate presso la rete di assistenza propria o autorizzata, ha drammaticamente ridotto gli spazi per le vecchie officine meccaniche indipendenti e riportato quasi integralmente l’assistenza post-vendita sotto le ali delle case produttrici: fenomeno cui ha contribuito anche il già citato passaggio da una componentistica prevalentemente meccanica a una con forti contenuti elettronici.

Il fenomeno (già citato) nuovo, che potrà in sinergia con i precedenti rendere ancora più stretto e organico il rapporto fra produttore e cliente e che assumerà progressivamente consistenza con il diffondersi dei nuovi modelli, è quello del check continuo via Internet dello stato di salute delle auto, finalizzato alla manutenzione preventiva. Nella stessa direzione va l’altro trend, ampiamente utilizzato ad esempio da Tesla, di aggiornare periodicamente e gratuitamente – come per gli smartphone – il software di presidio alle varie funzioni dell’auto: per migliorare le prestazioni, correggere gli eventuali errori e (tema di crescente rilevanza) aumentare le difese contro le possibili intromissioni degli hacker.

Se la vicinanza è molto cresciuta nelle fasi antecedenti la vendita (con lo sviluppo dei siti) e post-vendita, molto più ridotte sono le esperienze di vendita diretta via e-commerce: anche per le ovvie resistenze delle reti di concessionari esistenti. Tesla – avendo goduto del vantaggio di partire da zero – rappresenta il caso più rilevante di vendita diretta (nonostante gli ostacoli giuridici che incontra in diverse parti degli Stati Uniti), come emerge da un recente articolo di The Economist allusivamente intitolato “Death of a car salesman”. Ma esperienze più ridotte, per serie limitate di gamma alta, sono state effettuate anche da Daimler Benz, BMW, Hyundai e Volvo: accoppiando la creazione di showroom “stile Apple”, non strettamente orientati alla vendita, all’effettuazione di quest’ultima via e-commerce (facendo comporre ai clienti i modelli desiderati).

Un attacco di natura diversa ai dealer si è avuto invece negli Stati Uniti con la crescita dello strapotere – nell’indirizzamento – di siti “tipo TripAdvisor”, volti a offrire ai potenziali acquirenti di auto una valutazione della bontà dei prezzi e del livello di servizio dei diversi dealer, “forzati” a pagare una cifra non piccola per ogni cliente veicolato. Solo in ritardo i dealer si sono accorti del pericolo, per la loro redditività e la loro immagine, che i nuovi intermediari venivano a rappresentare e stanno cercando di reagire – ancora non si sa con quale possibilità di successo – potenziando i loro siti.

La minaccia “sharing economy“ 

La sharing economy, l’economia della condivisione, ha per definizione lo scopo di economizzare risorse condividendole, di permettere cioè alle persone di spendere meno (o molto meno) per godere di prestazioni non troppo dissimili da quelle ottenibili con l’economia della proprietà. Ma proprio per questo essa rappresenta una seria minaccia – tanto più consistente quanto maggiore sarà il suo successo – alla dinamica delle vendite di auto nuove.

Nei Paesi a maggiore sviluppo, ove la concentrazione delle persone nelle aree urbane è più elevata e i temi della salvaguardia dell’ambiente e della congestione da traffico sono più sentiti, è probabile che essa porti – anche se con forti asimmetrie territoriali e temporali – a concezioni diverse dell’organizzazione della mobilità e a un conseguente ridimensionamento strutturale dello stock complessivo di auto in circolazione, con ovvi effetti sui livelli correnti delle vendite. Ma anche nei Paesi che sono attualmente in fase di sviluppo non è affatto detto che venga ripercorsa la strada storicamente seguita da quelli sviluppati: è possibile che venga adottata da subito un’organizzazione della mobilità diversa, con penalizzazioni anche significative dei tassi di crescita della domanda.

La sharing economy, è opportuno ricordarlo, non nasce dal nulla. In senso lato fanno capo a essa tutti i servizi di mobilità pubblici (metropolitane, treni, ecc.), a livello urbano o su percorrenze più lunghe, nati prima dell’automobile e spesso in concorrenza con essa. Fa capo a essa il servizio taxi, introdotto nel primo ‘800 ancora al tempo delle carrozze, che può essere visto come una forma ante-litteram di “piattaforma on demand“. Fanno capo a essa i servizi di rent-a-car, sviluppatisi nella prima metà del ‘900 con società come Hertz e Avis, che mettono a disposizione dei clienti – con una modalità pay per use – auto di proprietà delle società.

Le forme di sharing economy emerse negli ultimi anni sono in parte eredi dirette di taxi e rent-a-car, con modalità e business model però che sfruttano le potenzialità derivanti dalla enorme diffusione degli smartphone e dallo sviluppo in genere delle tecnologie digitali.

Uber, il nome più rappresentativo insieme con Airbnb della sharing economy, ha come ben noto riconfigurato il servizio taxi, puntando sul miglioramento della sua fruibilità. E lo stesso fanno Lift prevalentemente negli US, Didi Kuaidi in Cina e Ola in India, che ne hanno imitato il modello. Mentre Car2Go ed Enjoy, la prima facente capo al gruppo Daimler Benz e la seconda al gruppo Eni, sono esempi di iniziative che hanno portato a livello urbano e per tempi di utilizzo molto più ridotti il modello rent-a-car.

Le forme più innovative di sharing economy sono forse però quelle che si pongono come obiettivo lo sfruttamento di risorse sottoutilizzate. Ad esempio BlaBla Car e Lyft offrono a pagamento, sulle loro piattaforme, i posti liberi messi a disposizione sulle loro auto dai privati che si accingono a effettuare determinati viaggi sulla media distanza e desiderano condividerne i costi. Uber (con UberPool), Lyft (con Line) e Didi Kuaidi (con Hitch) offrono nelle grandi città servizi tipo shuttle bus, mettendo assieme attraverso le loro piattaforme persone che vanno nella stessa direzione, ma con punti di stop diversi, su veicoli di privati disposti – a fronte dei compensi – ad allungare (a causa degli stop) i tempi di percorrenza. Ancora Uber, con il tanto contrastato UberPop, ha cercato di allargare l’offerta e ridurre il costo dei viaggi urbani utilizzando privati, possessori di auto, desiderosi di integrare il proprio reddito con una attività di guida part-time.

Il moltiplicarsi di iniziative ha spinto peraltro anche le grandi case automobilistiche a entrare in un business così lontano dal loro. Ford, General Motors e BMW, separatamente ma quasi contemporaneamente, hanno lanciato una variante del rent-a-car tradizionale, offrendo sul mercato – attraverso le loro piattaforme – le auto messe a disposizione a pagamento dai loro clienti per i periodi di non utilizzo e facendosi garanti verso gli stessi dell’integrità dei mezzi al momento della restituzione. 

In sintesi

Volendo fare una piccola sintesi, i rischi – derivanti dall’innovazione digitale – per i grandi gruppi mondiale dell’auto sono di almeno tre tipi:

l’abbassamento delle barriere all’entrata, con l’emergere di nuovi concorrenti (start-up come Tesla o imprese con enormi mezzi come Apple) potenzialmente molto pericolosi, nel caso in cui le accresciute prestazioni delle batterie e la creazione di reti capillari di ricarica favoriscano l’espansione delle auto elettriche;

la contrazione della domanda nei Paesi sviluppati e la riduzione del tasso di crescita della stessa in quelli in fase di sviluppo se la sharing economy, insieme con l’aumento dei vincoli alla circolazione nelle aree urbane e con il potenziamento delle infrastrutture pubbliche di trasporto, soddisferà una quota crescente dei bisogni di mobilità;

la perdita di rilevanza nell’ambito della filiera a favore dei fornitori (componentisti “tipo Bosch” e/o imprese Internet “tipo Google”), con una conseguente contrazione anche forte della profittabilità, se il peso dell’elettronica nell’auto continuerà a crescere e l’offerta sarà concentrata nelle mani di pochi: quello che ho chiamato effetto punteruolo rosso.

I grandi gruppi, in contropartita, possono sfruttare l’innovazione digitale per accrescere le relazioni dirette con i clienti, ai danni dei concessionari e dei dealer multimarca, e per prendere sotto il proprio controllo le attività post-vendita e le forniture di parti di ricambio: con vantaggi in termini di fedeltà dei clienti e di profittabilità corrente.

I dealer – concessionari monomarca od operatori multimarca – appaiono fra i più probabili perdenti e presumibilmente (soprattutto i secondi) cercheranno di reagire con fusioni e acquisizioni che ne accrescano la dimensione.

I fornitori della componentistica tradizionale appaiono destinati a soffrire, mentre più rosee sono le prospettive per quelli della componentistica innovativa, se la competizione fra loro non sarà troppo intensa.

I servizi per la mobilità dovrebbero complessivamente migliorare, con vantaggi per l’ambiente e una minor congestione. Più misti invece gli effetti per chi vorrà continuare a usare i mezzi propri, aiutato nella guida dalle nuove strumentazioni ma sempre più sotto controllo: non solo da parte dei corpi di polizia, ma probabilmente anche degli assicuratori, che potranno sfruttare la connettività per tenere sott’occhio la pericolosità dello stile di guida e sulla base di questo stabilire il premio da pagare.

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