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BCG: ecco i pionieri del “Made in Italy” del nuovo millennio

In un “giro d’Italia” da Nord a Sud, Boston Consulting Group evidenzia alcuni casi d’eccellenza che si sono distinti nel periodo della crisi – Lima Corporate, Twin-Set, Pianoforte Holding, Salento D’Amare, Torino Internazionale – capaci di investire su capitale intellettuale, sforzi collettivi di realtà diverse, “adattività”, e costruzione anche all’estero di interi “sistemi di business”, ben oltre il solo export

Pubblicato il 26 Set 2014

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Ignazio Rocco di Torrepadula, Senior Partner di Boston Consulting Group

L’Italia sta soffrendo la crisi economica ormai da sei anni, ed è uno dei Paesi avanzati che più fa fatica a uscirne. In un panorama di aziende in difficoltà e alta disoccupazione, però, si distingue un confortante numero di realtà che invece prosperano con tassi di crescita impressionanti. Cosa possono insegnare questi casi? In che misura si possono considerare i pionieri di un “nuovo Made in Italy” con fondamentali diversi da quello tradizionale, ormai insufficiente nello scenario globale di oggi?

Sono le questioni affrontate da Ignazio Rocco di Torrepadula, Senior Partner di Boston Consulting Group (BCG), in un incontro organizzato dal MIP-Politecnico di Milano dal titolo “Agire subito: le strade possibili”. «Abbiamo fatto un’analisi dei casi di successo italiani in uno scenario difficile. Oggi le cose si stanno riprendendo un po’, ma resta una forte dicotomia tra pochi casi d’eccellenza, basati su approcci innovativi, sull’export, su singoli manager, e la situazione generale».

Per anni abbiamo parlato solo del debito, e per giunta in modo sbagliato. «Il debito italiano totale non è tanto diverso da quello USA e inglese: il fatto è che questi ultimi sono nelle famiglie, quello italiano è nello Stato». Inoltre il vero problema non è il debito: «È la crescita che non riusciamo a trovare più», sottolinea Rocco di Torrepadula, citando dati World Bank secondo cui nel decennio 2003-12 quasi tutti i Paesi avanzati hanno visto crescere il PIL pro capite, tranne pochissime eccezioni, tra le quali solo la Grecia ha fatto peggio dell’Italia.

Il caso Lima Corporate: da 2 a 127 milioni in 12 anni

Eppure anche in questi anni sono emerse tante storie di successo: BCG ha strutturato la sua analisi su singole storie, facendo una sorta di “giro d’Italia” da nord a sud. «Partiamo per esempio da San Daniele del Friuli, sede centrale di Lima Corporate: nata settant’anni fa come produttore di strumenti chirurgici, nel tempo si è specializzata nella nicchia delle protesi ortopediche in titanio, in cui oggi è tra i leader mondiali. È un classico esempio di multinazionale tascabile, sta pensando alla quotazione in Borsa e ha aperto una filiale negli USA nel 2011».

Lima Corporate è cresciuta da due milioni di fatturato nel 2000 a 127 milioni nel 2012, realizzati con tre stabilimenti tra Italia e San Marino e 17 filiali all’estero. Il pacchetto di maggioranza è detenuto da due private equity di multinazionali estere e italiane (il gruppo francese Axa, la russa Gazprombank e Intesa SanPaolo), mentre la famiglia dei fondatori conserva ancora il 30%.

Il caso Twin-Set Simona Barbieri: crescere sul mercato domestico si può

«In Italia ci sono tanti esempi simili, che prosperano intorno a una specifica competenza e, trascinati dalla crescita all’estero, diventano leader mondiali in una nicchia. Molto più difficile invece è crescere nel mercato domestico, e per questo cito come secondo caso “Twin-Set Simona Barbieri”, una realtà tutta italiana di “affordable luxury” del settore moda/fashion, con sede a Carpi, ma ormai famosa in tutto il mondo», continua il Senior Partner di BCG.

«Per l’originalità delle scelte strategiche, Twin-Set ricorda Zara: è un “sistema di business”, un modello a se, basato rispetto ai brand del lusso su un’ampia offerta tutta gestita internamente (abbigliamento, accessori, underwear, beachwear, calzature, ndr), materiali meno costosi, meno pubblicità, lavorazioni diverse, modelle sconosciute e punti vendita mono-marca: un modello nuovissimo che ha permesso una crescita media annua del 33% durante gli anni della crisi, e per di più in un mercato difficile e stagnante». In particolare il fatturato di Twin-Set nel 2012 è salito addirittura del 40%, e del 30% nel 2013, arrivando a 180 milioni, realizzato per il 65% in Italia.

Anche in questo caso circa il 70% è detenuto da un private equity estero, il fondo USA Carlyle, e il restante 30% dai due fondatori, i coniugi Tiziano Sgarbi (amministratore delegato) e Simona Barbieri (direttore creativo). Il caso di Twin-Set, come accennato, introduce un tema molto importante: la dicotomia tra export e mercato interno. In una recente intervista al quotidiano La Stampa, a proposito del fatturato realizzato in gran parte in Italia, Sgarbi ha detto: «Quest’azienda si è costruita in Italia e l’Italia è un mercato guida per l’abbigliamento, perché sa riconoscere il prodotto di qualità: francamente quando un’azienda italiana non vende in Italia e dice “ma vendo molto all’estero”, io mi faccio delle domande».

Il manifatturiero? Sono il pubblico e i servizi che non crescono

Normalmente in effetti, conferma Rocco di Torrepadula, il dibattito sulle eccellenze si concentra sulla forza del nostro export, il più dinamico d’Europa insieme a quello tedesco, di cui ha praticamente eguagliato le performance durante tutto il periodo di crisi. «Purtroppo però l’export non è sufficiente: in Italia rappresenta il 30% del PIL, quota piuttosto alta ma comunque minoritaria. L’economia domestica rappresenta il restante 70% del PIL, con una parte molto importante che è pubblica (sanità, istruzione, giustizia,…), e in Italia non cresce».

Inoltre l’attenzione spesso si concentra sul manifatturiero, e invece gran parte dell’economia privata (ma anche pubblica), è fatta di servizi: settori come distribuzione, trasporti, servizi alle imprese, turismo, sono pilastri dell’economia privata italiana. «Quindi dire che il cuore dell’economia italiana è il manifatturiero made in Italy è molto miope: l’Italia non cresce perché non crescono l’economia pubblica e i servizi privati».

La tesi di fondo di BCG è che possiamo salvarci con il Made in Italy, a patto che sia diverso da quello a cui siamo abituati. «Il Made in Italy tradizionale è totalmente orientato al passato: i suoi punti forti sono creatività, innovazione individuale, storia, arte e stile, qualità, e appunto l’export. Tutto ciò ci ha permesso di competere nel mondo per decenni, e di reggere in qualche modo durante questa crisi. Ora però per “cambiare marcia”, occorre un “nuovo Made in Italy” che deve partire da questo, puntando soprattutto su altre cose: capitale intellettuale collettivo, capitale umano, infrastrutture fisiche («siamo ancora al sistema autostradale degli anni 50»), infrastrutture sociali, capacità di coesione, investimenti esteri, e presenza diretta all’estero, non solo con filiali ma con aziende e distretti interi.

A che punto siamo su queste cose in Italia? «Recentemente a un nostro seminario abbiamo fatto un piccolo sondaggio su 40 leader importanti del nostro Paese, manager di aziende e banche internazionali». Il responso generale, spiega Rocco di Torrepadula, è che sui principali elementi del “nuovo Made in Italy” – migliorare il capitale umano, aumentare la produttività con le tecnologie, valorizzare patrimonio artistico e culturale, perseguire grandi cambiamenti mantenendo la coesione sociale – siamo molto indietro. E addirittura la capacità di perseguire obiettivi di medio e lungo termine in Italia sarebbe totalmente assente.

Yamamay-Carpisa: un “sistema di business” totalmente nuovo

«Noi invece vorremmo essere più ottimisti, mostrando attraverso altri casi che alcuni di questi elementi ci sono già. Un esempio è Pianoforte Holding, nota per i marchi Yamamay (abbigliamento intimo), Carpisa (valigeria), e Yaked (abbigliamento sportivo, la testimonial è Federica Pellegrini, ndr)». Nata a Napoli dall’idea di due giovani imprenditori del posto, Gianluigi Cimmino e Maurizio Carlino, questa realtà ha registrato 10 anni di fortissima crescita anche durante la crisi, arrivando a quasi 300 milioni di euro di fatturato e oltre mille negozi.

«Hanno mostrato grande capacità di compressione dei costi (il 97% della produzione è terziarizzata in Asia), di posizionamento in termini di rapporto qualità/prezzo, e di rapidità di risposta del sistema ideazione-produzione-distribuzione-vendita alle tendenze del mercato: praticamente producono in tempo reale». Altri punti distintivi sono il modello di franchising per i negozi e l’alta notorietà dei brand, nata da forti investimenti in pubblicità, sponsorizzazioni sportive e testimonial famosi. «Insomma, un intero originale “sistema di business”, che ora stanno cercando di esportare in altri Paesi».

Altro caso, molto significativo per la capacità di far lavorare insieme aziende diverse, e anche questo nato al Sud, è il consorzio “Salento D’Amare”, che raccoglie 170 realtà di vari settori economici legati al turismo, ed è riuscito a organizzare un calendario con oltre 100 eventi all’anno.

«In Italia il turismo è colpevolmente trascurato. È un settore dove abbiamo un vantaggio competitivo naturale, rappresenta il 10% del PIL italiano, e nel mondo è in notevole crescita (3-4% annuo in termini reali). Eppure per esempio il comparto “mare” in Italia è in crisi profonda: il turista moderno vuole andare in bei posti, in cui però ci siano anche eventi, divertimenti e così via. I Paesi esteri offrono grandi “pacchetti” del genere, l’Italia in generale no, tranne rari casi come appunto questo consorzio del Salento, che ha avuto la capacità di coalizzare albergatori e altri operatori, diventando anche un “marchio di qualità”, che spinge i consorziati a investire per mantenere gli standard qualitativi».

Il caso Torino Internazionale: anche nel pubblico si può cooperare

Per completare la rassegna, Rocco di Torrepadula cita un caso «che mostra forse il grado massimo di difficoltà, quello di coalizzare attori pubblici». Si tratta dell’Ente territoriale Torino Internazionale, che raccoglie le principali forze economiche, culturali e sociali, pubbliche e private, del torinese, e ha fatto di Torino la prima città italiana ad adottare un Piano Strategico, nel 2000.

L’obiettivo era di mantenere, vista la crisi del settore manifatturiero, la capacità di produrre ricchezza e innovazione diversificando il sistema produttivo e rinnovando l’immagine internazionale della città, anche grazie all’organizzazione delle Olimpiadi Invernali nel 2006. L’ente ha poi dato continuità al suo lavoro con altri due piani strategici – quello in corso si chiama “Torino Metropoli 2025” -, «e otto anni dopo le Olimpiadi, Torino ha il 50% di visitatori in più rispetto a prima».

In alcuni settori non si può fare a meno dello Stato

Questi casi, conclude il Senior Partner di BCG, non sono isolati: «Avrei potuto citarne altri, come Brembo, Luxottica, Avio, Ansaldo STS, Grom, Comune di Salerno, Autogrill, Fineco, Eataly». Sono tutti casi di Made in Italy “del nuovo millennio”, capaci, in modo diverso da caso a caso, di investire sul capitale intellettuale, sullo sforzo collettivo di realtà diverse, sulla “adattività” per cambiare e adattarsi velocemente, sulla costruzione anche all’estero di interi “sistemi di business”, per andare oltre il semplice export.

Spesso la necessità di collaborare però coinvolge anche lo Stato: «Occorre innovare infrastrutture, servizi, promuovere gli investimenti all’estero, andando oltre la classica diffidenza anche cinica del mondo economico italiano verso il pubblico: in alcuni settori, come il turismo, semplicemente non si può crescere senza lo Stato. Non tutto ciò che è Stato è il “male assoluto”».

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