editoriale

La fragilità di Telecom Italia e le politiche per la concorrenza

L’ipotesi di fusione del colosso italiano con la cinese 3 mette a nudo la debolezza della società, in un quadro che vede tutte le telco europee in difficoltà. Che sia una conseguenza delle politiche messe in atto nel passato per favorire i nuovi entranti, a cominciare dall’unbundling?

Pubblicato il 15 Apr 2013

Telefonia

La proposta del gruppo cinese Hutchison Whampoa di fondere la sua sussidiaria italiana 3 Italia con Telecom Italia e di diventare il principale azionista di quest’ultima con una quota del 29,9 per cento (appena al di sotto della soglia che renderebbe obbligatoria l’OPA integrale) mette a nudo, semmai ce ne fosse stato bisogno, la debolezza di quello che è stato uno dei più importanti gruppi telecom del mondo e che ora capitalizza poco più di 10 miliardi di euro con un debito di 28. Le colpe di questo declino sono in larga misura attribuibili ai travagli proprietari del gruppo stesso dopo la privatizzazione: alle scalate cui è stato sottoposto, con successiva presa a carico (come da copione) di larga parte dei debiti contratti dagli acquirenti per le scalate stesse, nonché ad altre operazioni – come il ritiro dalla Borsa della controllata TIM – non di precipuo interesse del gruppo.

Ma quello che mi ha sorpreso di più nel ragionare sulla vicenda, in questi giorni, è stata la constatazione della crisi generalizzata – anche se meno profonda di quella di Telecom Italia – di tutti i grandi operatori telecom europei, considerati destinati a un grande futuro sino allo scoppio della bolla Internet, ma anche negli anni immediatamente successivi. Degli operatori telecom europei, non di quelli statunitensi che sembrano godere (dai risultati e dalle quotazioni di borsa) di buona salute.

I numeri: la spagnola Telefonica vale 47 miliardi di euro circa, il 45 per cento in meno di cinque fa; Deutsche Telekom ne vale 36, un quarto di capitalizzazione in meno del 2008; France Telecom 20, meno 65 per cento; AT&T più di 200 miliardi di dollari (160 in euro), come cinque anni fa; Verizon oltre 140 (110 in euro), più 44 per cento.

Vodafone è l’unico grande gruppo europeo che non ha perso valore – 90 miliardi di sterline (106 in euro), più 17 per cento – ma una parte significativa di tale valore deriva dal possesso del 49 per cento della componente mobile di Verizon. E di recente, a fronte anche delle difficoltà di Vodafone in diversi mercati, si è parlato di una possibile scalata congiunta di AT&T e Verizon, con successiva spartizione.

Perché questa situazione?

Ci sono fattori penalizzanti che accumunano i gruppi sui due lati dell’Atlantico e fattori differenzianti. Un fattore penalizzante comune è sicuramente la perdita di peso dei cosiddetti servizi a valore aggiunto (SMS e MMS anche in chiave pubblicitaria, news, pagamenti, etc.), una delle grandi speranze degli anni attorno al duemila, sostituiti dall’offerta su Internet dei cosiddetti OTT-over the top (Google, Apple, Facebook, etc.) o di start-up quali WhatsApp, con modelli di business completamente diversi. Così come un altro fattore penalizzante comune è il passaggio attraverso Internet anche di una parte del traffico voce, importantissima fonte di reddito per i gruppi telecom, iniziato con Skype (ora appartenente a Microsoft).

Il diverso andamento dell’economia – più espansivo negli US e segnato da profonde crisi in Europa – è un fattore che sicuramente spiega una parte delle differenze nei profitti e nelle capitalizzazioni. Ma c’è un fattore strutturale probabilmente ancora più importante, come Richard Waters evidenziava sul Financial Times qualche giorno fa: la presenza nell’UE, e non negli US (ove fu concettualmente concepito), dell’unbundling, dell’obbligo cioè per gli operatori consolidati di mettere a disposizione le proprie reti (a un prezzo stabilito dalle authority di settore) per ridurre le barriere all’entrata e favorire la concorrenza.

L’unbundling significa prezzi decrescenti per i consumatori, e tutti noi europei ne abbiamo tratto vantaggio in questi anni. Ma questo svantaggio rischia di ritorcersi contro di noi se i prezzi – decrescendo troppo – mettono a rischio la convenienza a investire nelle nuove (indispensabili) infrastrutture ed espongono i grandi gruppi ai rischi di scalate da parte di chi ha le proprie basi in paesi con ordini di priorità diversi. Con conseguenze potenzialmente drammatiche per i territori e per l’indotto, se questo comportasse (come probabile) una drastica riduzione della presenza delle attività di R&D.

So – esprimendo questo mio dubbio – di andare contro a quello che in questi anni è stato uno dei principi sacri della scuola economica, peraltro giustificato (almeno inizialmente) dalla necessità di abbattere i monopoli naturali. Ma mi chiedo se non si sia andati, e non si continui ad andare, troppo in là: privilegiando un principio astratto rispetto all’esigenza concreta di disporre di un sistema di imprese forti, con le risorse (finanziarie e umane) adeguate per investire all’interno e affermarsi sui nuovi mercati .

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