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Le supply chain nell’era post-global: più locali e più automatizzate

Calo del commercio mondiale, “reshoring”, incertezze sugli accordi internazionali. Le tendenze economiche portano le reti produttivo-logistiche a regionalizzarsi e ad adottare tecnologie digitali per ridurre i rischi e aumentare l’agilità, spiega un articolo di Forbes

Pubblicato il 21 Dic 2016

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La globalizzazione delle supply chain in declino, con ovvi fortissimi impatti sull’organizzazione e sulla gestione delle reti produttive e logistiche di respiro internazionale. Questa la tesi di un articolo su Forbes di Kevin O’Marah, uno dei più esperti analisti di supply chain management, per anni VP Supply Chain di Gartner e ora Chief Content e Research della società di analisi SCM World, catalizzatrice di una community di 20mila specialisti di SCM. O’Marah cita una serie di fatti, come lo scetticismo del neopresidente USA Trump sugli accordi commerciali internazionali, la Brexit, il blocco del trattato Ceta tra UE e Canada da parte di una piccola regione belga, la Vallonia. E poi il calo del commercio globale nel primo semestre 2016, e la prima diminuzione dopo il 1945 del commercio internazionale degli USA in un periodo di PIL in aumento.

E ancora i nuovi dati sul lavoro nell’industria e nella logistica, che confermano un trend di “reshoring” in molti paesi avanzati. «Paesi che per vent’anni hanno chiuso fabbriche e stabilimenti stanno registrando un certo ritorno di posti di lavoro “supply chain”: parliamo di figure completamente diverse da quelle ben pagate e relativamente poco specializzate di vent’anni fa, ma la tendenza è evidente», scrive O’Marah, riferendosi ai dati della ricerca “Future of Supply Chain Survey 2016”, condotta da SCM World su circa 1200 manager di produzione e logistici di tutto il mondo.

Negli USA per esempio gli intervistati che stanno assumendo sono il triplo di quelli che stanno tagliando personale nelle supply chain, e il trend è positivo in tutto il mondo tranne che in Europa, dove UK, Germania e Francia vedono calare leggermente questo tipo di impiego (l’Italia non è coperta dalla ricerca), e solo i Paesi Bassi sono in attivo.

La globalizzazione che ha “esportato” lavoro dalle nazioni industrialmente più mature ai mercati emergenti e low-cost ha compiuto il suo corso, sottolinea O’Marah, e si stanno invece affermando reti manifatturiere di scala regionale, altamente automatizzate, e molto vicine ai mercati di destinazione finale dei prodotti.

Nelle supply chain più avanzate, questi trend sono già evidenti: sono sempre più diffuse per esempio reti produttivo-logistiche regionali, completate da Centri di eccellenza a livello corporate. Il tasso di automazione dei processi produttivi continua a salire, e anche settori tradizionalmente molto “artigianali” come l’abbigliamento stanno cercando di diventare meno “labour intensive”, e di portare la produzione più vicino al cliente finale.

Il costo delle distanze torna a salire

L’organizzazione delle reti di supply chain sembra quindi sempre più soggetta a tre considerazioni. La prima è che il costo delle distanze sta tornando a salire. «Non devono ingannare i costi bassi dei carburanti e l’eccesso di offerta dei servizi via nave: la verità è che i trasporti dall’Asia al Nord America o all’Europa stanno diventando più costosi in termini di rischio». Il recente fallimento del colosso del trasporto via mare Hanjin Shipping – che ha fatto scalpore in tutto il mondo, con decine di navi porta-container cariche di ogni tipo di prodotti immobilizzate al largo, perché rifiutate dalle autorità portuali – potrebbe essere solo la punta dell’iceberg, in un settore che quest’anno dovrebbe perdere 4,4 miliardi di euro, e che O’Marah definisce sovradimensionato e scarsamente dotato in termini di tecnologie digitali per fornire ai clienti visibilità sullo stato d’avanzamento delle spedizioni.

«Aggiungiamoci l’alta disoccupazione e le tensioni sociali nei porti, e l’incertezza sulle regole e sui trattati di commercio internazionale: alla fine le classiche sei settimane del trasporto via mare dal Far East all’occidente potrebbero diventare un traguardo irraggiungibile: gli imprevisti nei trasporti e nelle consegne sono considerati nella ricerca SCM World il rischio di supply chain più temuto del 2017 da circa 3 supply chain manager su 4».

Locale è agile

La seconda considerazione è: locale è agile. Le supply chain manifatturiere stanno indubbiamente riducendo la loro estensione geografica, e si stanno automatizzando. L’articolo di Forbes cita la svedese Trelleborg, colosso di prodotti in gomma, come esempio dell’adozione di piccoli robot facilmente programmabili per aumentare la flessibilità e ridurre i costi in paesi ad alto costo del lavoro.

«Strategie analoghe stanno adottando per esempio General Motors, Schneider Electric, e Johnson & Johnson, ma anche piccole realtà come Marlin Steel di Baltimora, che grazie all’automazione ha quintuplicato le vendite aggiungendo soltanto 6 persone allo staff originario di 18. L’obiettivo non era tanto di ridurre i costi, ma di aumentare fortemente la gamma di prodotti mantenendo flessibilità, per servire nuovi mercati e salvare così l’azienda».

L’importanza delle piattaforme di prodotto

La terza considerazione è che un disegno accurato delle piattaforme di prodotto è la miglior difesa contro complessità delle catene di fornitura che a volte diventano estremamente vincolanti. Produrre localmente per il mercato locale elimina molti problemi, ma per alcuni componenti è inevitabile ricorrere a distretti ben precisi, che siano Shenzen (elettronica), la Germania orientale (ottica), o Taiwan (semiconduttori). In questi casi una piattaforma progettata in modo da avere una certa flessibilità riduce il rischio di far dipendere totalmente i propri lead time dalle forniture di distretti più o meno lontani.

Insomma, conclude O’Marah, “Made in China” è stata a lungo la parola d’ordine per ridurre i costi, ma ora questa cosa appartiene al passato, e la progettazione delle supply chain deve riflettere questa nuova realtà.

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