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Bertelè: quale via per la ripresa in Italia

La crisi da cui stiamo faticosamente cercando di uscire ha portato a un radicale cambio di scenario, spazzando via una visione del mondo che perdurava dalla caduta del muro di Berlino. In attesa di correttivi strutturali che tardano ad arrivare, le imprese devono rivedere le strategie e l’organizzazione per adeguarsi alla “nuova normalità”

Pubblicato il 01 Mag 2010

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«La ripresa è disomogenea, debole in Europa, ancora fragile ovunque. Quasi tutte le banche sono sulla via di risolvere i problemi di finanziamento, ma i loro bilanci sono ancora esposti a elementi di fragilità legati soprattutto allo stato della ripresa economica», ha affermato recentemente Mario Draghi nella veste di presidente del Financial Stability Board.
E Pankaj Ghemawat, nel suo articolo di apertura sull’uscita dalla crisi – nella rinnovata Harvard Business Review – parte dalla premessa che «possiamo ragionevolmente aspettarci di assistere per gran parte del prossimo decennio a una debole crescita mondiale, a eccessi di capacità produttiva, alla persistenza di elevati tassi di disoccupazione, a una volatilità dei mercati finanziari, a costi più elevati del capitale, a un ruolo notevolmente più ampio dei Governi, a un onere molto più pesante per tutti, in termini di regolamentazione e di tassazione, e a un possibile aumento del protezionismo. Se dovesse verificarsi un secondo crollo finanziario, come alcuni osservatori temono, tutte queste condizioni potrebbero peggiorare».
Siamo in presenza cioè – secondo il comune sentire del momento – di una ripresa debole, che fa presagire tempi lunghi per ritornare ai livelli precrisi. Una ripresa fragile, su cui periodicamente aleggia il fantasma del “double dip”, del rischio cioè – con il ripetersi di quanto accadde nella grande crisi del ’29 – di un secondo tonfo dopo il recupero in atto ormai da molti mesi. Una ripresa disomogenea: perché debole soprattutto nei Paesi tradizionalmente ricchi; molto più sostenuta invece nelle economie di crescita recente, quali la cinese, l’indiana e la brasiliana.
Una ripresa debole, apparentemente destinata a restare tale per la presenza di ragioni strutturali accanto a quelle più strettamente congiunturali. È corretta l’analisi dominante in questo particolare momento? Prevedere il futuro è un mestiere sempre estremamente difficile, anche per l’imprevedibilità di eventi – si pensi alle Twin Towers – che possono sovvertire in pochi istanti trend apparentemente incontrovertibili. Ma, almeno sul piano della razionalità, mi sembra che le previsioni viste sopra non siano prive di fondamenti.
Tra questi ne vorrei citare due, su cui concentrare l’attenzione:

– l’economia reale non gode più di quell’”effetto droga” che le derivava dalla facilità a tutti i livelli di ottenere danaro a bassi tassi di interesse;

– è tuttora incombente il peso degli squilibri finanziari di molti soggetti (famiglie, imprese, banche e istituzioni finanziarie, Stati, etc.) – nati dalla crisi o (se maturati prima) resi critici dalla crisi – con ricadute rilevanti sui loro comportamenti.

LA CESSAZIONE DELL’EFFETTO DROGA

La politica dei bassi tassi di interesse dell’era Greenspan, messa in atto per ridurre l’impatto sull’economia dello scoppio della bolla Internet e dello shock conseguente all’attentato alle Twin Towers, e insieme con essa – con un effetto moltiplicatore – l’uso disinvolto della leva da parte di molte istituzioni bancarie e finanziarie, hanno rappresentato per diversi anni non solo un potente incentivo allo sviluppo della cosiddetta finanza innovativa, ma anche una sorta di droga per l’economia reale.

L’enorme espansione dei mutui subprime ad esempio, che è stata poi alla base dello scoppio della crisi, ha permesso uno sviluppo dell’edilizia privata negli Stati Uniti – con effetti di traino sui settori della filiera a monte e attraverso l’import sull’economia mondiale – altrimenti inimmaginabile. Un effetto analogo, su altre categorie di beni e servizi, è derivato dalla facilità di indebitamento attraverso le carte di credito. Per non parlare della spinta ai consumi connessa ai continui rialzi nelle quotazioni di Borsa e conseguentemente alla sensazione di maggior ricchezza delle famiglie detentrici di azioni. E così via.
Tutto questo è finito, almeno per il momento.
I tassi di interesse sono estremamente bassi, ma l’uso della leva finanziaria è molto più contenuto – in gergo si parla di “deleverage” – e l’erogazione di prestiti molto più difficoltosa. Con il deleverage è cessato l’effetto droga e si è alzata conseguentemente l’asticella per ritornare ai livelli pre-crisi.

IL PESO ANCORA INCOMBENTE DEGLI SQUILIBRI FINANZIARI

Solitamente le crisi – sicuramente quella da cui stiamo faticosamente cercando di uscire – sono originate dall’accrescersi degli squilibri finanziari di un certo numero di soggetti e sono causa a loro volta di nuovi squilibri. Non solo: gli interventi pubblici correttivi, effettuati per evitare i rischi di caduta di soggetti rilevanti (ad esempio dei cosiddetti “too big to fail”), possono ingenerare ulteriori squilibri e mettere addirittura in crisi – come accaduto di recente con la Grecia – gli Stati.
Come risultato, nella situazione attuale i soldi non mancano – anzi ne girano forse troppi – ma molto spesso non sono nei posti giusti rispetto alle esigenze di ripresa. È critica la situazione finanziaria di molte imprese operanti nel sistema reale, a seguito delle cadute prolungate della domanda, e alcune di esse sono fallite o appaiono prossime al fallimento. È critica la situazione finanziaria di diverse banche, per ragioni differenti: alcune si stanno ancora leccando le ferite provocate dai loro azzardi su quello che io chiamo il mercato delle scommesse (credit default swaps, etc.) e per riprendersi più velocemente hanno ripreso a giocare; altre, più impegnate nel finanziamento del sistema reale, vedono accrescersi i livelli delle sofferenze in parallelo con le difficoltà o il fallimento delle imprese clienti.
È critica la situazione finanziaria di molte famiglie: critica per l’esigenza delle stesse di ridurre l’indebitamento, soprattutto laddove – ad esempio negli Stati Uniti e nel Regno Unito – il ricorso al debito per finanziare gli acquisti era (come visto) più rilevante; critico per l’aumento dei disoccupati (in uno stato florido come la California il tasso di disoccupazione ha toccato ad esempio il 12,5 per cento); critico in Italia anche per l’aumento dei cassaintegrati. È critica la situazione finanziaria di molti Stati, in una misura tale da rendere persino incerto il mantenimento della tripla A per Paesi quali gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia: mentre l’Italia, spesso considerata nel passato l’ultima della classe, è riuscita in questa fase convulsa a migliorare la sua posizione relativa nonostante il peggioramento del rapporto debito/PIL.
Gli squilibri condizionano ovviamente i comportamenti dei soggetti: ci sono minori consumi, con ovvi impatti sulle imprese, e minori investimenti: ci sono più disoccupati, perché anche le imprese che sopravvivono procedono a significative razionalizzazioni (portando pure allo scoperto quegli eccessi di personale latenti che spesso rimangono nascosti nei periodi floridi); c’è più attenzione da parte delle banche a prestare soldi alle imprese, non solo per la sopracitata preferenza di alcune per il mercato delle scommesse, ma anche per il comprensibile timore di accrescere le sofferenze; c’è una minore possibilità per i governi degli Stati molto indebitati di aiutare l’economia, per il timore di entrare nella lista dei Paesi a rischio e di subire gli attacchi degli hedge fund, con pesanti ricadute sul costo e sulla stessa reperibilità di soldi per ricoprire i debiti in scadenza o contrarne di nuovi; c’è anzi il rischio, per i Paesi in condizioni più critiche e quindi con esigenze di riduzione dell’indebitamento, che l’incremento della tassazione e/o la contrazione della spesa pubblica ingenerino vere e proprie rivolte sociali.

IL TIMORE DEL DOUBLE DIP

Il timore del “double dip” nasce sostanzialmente dall’ipotesi che questi squilibri, in presenza di una ripresa molto debole, si rafforzino mutuamente fra loro e uccidano la ripresa stessa. Uno scenario drammatico che è sembrato di recente prossimo a concretizzarsi, per la pesantissima scommessa dei mercati finanziari sul crollo di uno o più paesi dell’area euro e sul conseguente disfacimento della moneta unica.
Uno scenario che sembra sventato al momento del licenziamento di questo testo – per il grandioso piano di difesa (750 miliardi di euro) messo in atto dall’UE e dal Fondo Monetario Internazionale – che potrebbe però ripresentarsi se non verranno introdotte nuove regole per i mercati finanziari e soprattutto se non si correggeranno strutturalmente quegli squilibri pubblici e privati su cui i mercati giocano.

I NUOVI EQUILIBRI

È usuale, e tanto più vero quanto più radicale è stata la crisi, che nel post-crisi emergano nuovi equilibri: a causa dell’impatto solitamente differenziato della crisi stessa sui diversi soggetti (sia privati sia pubblici), ma anche delle differenti reazioni alla crisi di tali soggetti. La crisi rappresenta spesso un acceleratore: trend latenti o in fase di decollo manifestano appieno la loro forza, sino a trasformare radicalmente il contesto.
È il caso degli equilibri politici ed economicofinanziari internazionali. La crisi ha fatto giustizia della visione del mondo, nata soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino:

– che vedeva l’Occidente (Giappone incluso), sotto la guida degli Stati Uniti, in posizione di assoluta leadership in un contesto in rapida globalizzazione per l’abbattimento (con un qualche riflesso negativo per il nostro Paese) delle barriere doganali;

– che prevedeva una divisione netta del lavoro, fra i Paesi tradizionalmente ricchi e quelli più popolosi, come la Cina e l’India, caratterizzati da un costo del lavoro molto minore: riservando ai primi i ruoli più nobili (finanza, R&D, concezione e progettazione innovativa dei prodotti, etc.) e ai secondi quelli di bassa manovalanza.

Le “crepe” a questa visione del mondo erano già significative prima della crisi, ma ora si stanno trasformando in veri e propri “burroni”. In campo finanziario, gli Stati Uniti e il Regno Unito vedono la loro leadership crescentemente minacciata, come mostrano i trend in atto, dalle piazze asiatiche. In campo industriale, l’Occidente in generale ha sempre maggiori difficoltà nel conservare le mansioni nobili di progettazione e di innovazione, per il salto di qualità che i Paesi nuovi stanno facendo.
La classifica fra Paesi sulla base del PIL, rimasta quasi inalterata per vari decenni, è in fase di rivoluzionamento: con la Cina prossima ad occupare la seconda posizione dopo gli Stati Uniti e con altri paesi (India e Brasile in testa) che guadagnano rapidamente posizioni a fronte dello stallo delle aree tradizionalmente ricche. La nascita del G-20 in tendenziale sostituzione del G-8, come forum ove trovare soluzioni condivise a problemi di natura sempre più globale, non è altro che la presa d’atto delle modifiche nei pesi relativi e della necessità – per trovare punti di convergenza – di coinvolgere anche i nuovi protagonisti.
La seconda grande vittima di questa crisi è il liberismo, che a partire dagli anni 80 aveva rappresentato la dottrina dominante nelle scelte di molti Paesi. È stato l’uso sfrenato del liberismo, soprattutto nell’ambito finanziario, uno dei motori primi della crisi. Mentre sono gli Stati che – muovendosi singolarmente o secondo logiche condivise – hanno permesso di uscire dalla fase più acuta della crisi; sono gli Stati che continuano a essere chiamati in soccorso a fronte delle nuove emergenze; sono gli Stati e/o le loro aggregazioni sovranazionali che presumibilmente sfrutteranno i meriti acquisiti per recuperare almeno in parte le fette di potere cedute nella fase più spinta del liberismo. Il pendolo si è rispostato nella direzione di un ruolo pubblico più forte: non solo di controllo contro il verificarsi di eccessi, ma anche di regolamentazione e/o promozione e/o – addirittura – gestione di attività economico-finanziarie.
La recente nascita in Italia della Banca del Mezzogiorno e del fondo di “private equity” della Cassa Depositi e Prestiti a supporto della crescita delle imprese piccolo-medie testimonia ad esempio come sia in atto – seppur con una strumentazione differente – una vera e propria inversione di tendenza, dopo due decenni segnati dal progressivo smantellamento delle strutture pubbliche di supporto e dalla privatizzazione delle imprese pubbliche e delle banche.
Esiste a mio avviso un’altra ragione a favore dell’inversione di direzione del pendolo. Il liberismo ha tanta più ragion d’essere quanto più esiste un mercato – su scala internazionale – caratterizzato dalla quasi totale assenza di barriere geo-politiche e da un significativo livello di omologazione nei modi di vita e nei sistemi politici: lo scenario che si era progressivamente affermato a partire dagli anni 80 nell’ambito dell’Occidente, che allora rappresentava una quota quasi totalitaria dell’economia e della finanza mondiale. La rilevanza assunta sia dai Paesi in grande crescita (quali la Cina e l’India), sia da quelli detentori di risorse naturali, ha introdotto invece nuove diversità e ha fatto tornare in auge gli accordi (o i disaccordi) fra Stati come componenti essenziali della competizione fra imprese.

I CORRETTIVI STRUTTURALI

La domanda debole – presumibilmente destinata a rimanere tale per un arco temporale non breve – e la formazione di nuovi equilibri impongono alle imprese e agli Stati, per mantenere la competitività e i livelli di vita, importanti correzioni di natura strutturale: che a loro volta appaiono destinate a modificare ulteriormente gli equilibri stessi, in un processo di aggiustamento che si preannuncia non breve.
Innanzitutto andrebbero rimosse, nei Paesi dell’Occidente, le cause che hanno scatenato la crisi. Il recente appello di Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, a “ricollegare la finanza all’economia reale” interpreta l’opinione di molti che la finanza si sia sviluppata in modo abnorme e che debba essere riportata a dimensioni e comportamenti più consoni al ruolo – peraltro fondamentale – che essa deve giocare nell’economia e nella società. Questo sinora non è avvenuto, nonostante le continue dichiarazioni di intenzioni di molti governi e le accuse da essi lanciate nei confronti di quelli che a torto o ragione vengono ritenuti gli untori della crisi stessa: tipicamente le grandi banche d’affari, con Goldman Sachs in testa; tipicamente quegli “hedge fund” che vivono scommettendo sui disastri altrui e che – data la rilevanza delle risorse messe in gioco direttamente o indirettamente – spesso agevolano il verificarsi dei disastri stessi. E stenta ad avvenire per il peso che la finanza ha assunto nel frattempo e per la sua capacità di lobbying a difesa degli interessi di chi opera in essa: una capacità che molti altri comparti sembrano avere – in contesti economico- sociali (quelli dei Paesi dell’Occidente) quasi ingessati dalla scarsa crescita anche nel periodo pre-crisi – che rende politicamente molto ardue le indispensabili riforme e più incerta nei tempi la ripresa.
Andrebbero ad esempio ripensati (non solo in Italia) i sistemi di welfare, per renderli compatibili con i nuovi scenari. Andrebbero ripensati i rapporti di lavoro, nella ricerca di un difficile equilibrio fra le esigenze di flessibilità delle imprese e le esigenze di stabilità degli individui e delle famiglie. Andrebbe ripensata la struttura dei budget pubblici dei diversi Stati, per tagliare le spese improduttive a favore di quelle che promuovono lo sviluppo, anche in questo caso con enormi resistenze da parte dei fruitori delle spese stesse: resistenze che si frappongono anche al potenziamento o alla introduzione ex-novo di meccanismi che riducano le rendite di posizione. Andrebbe ristrutturata (con analoghe difficoltà) la pubblica amministrazione – in misura più o meno radicale a seconda dei Paesi – per aumentarne non solo l’efficienza, ma pure la capacità di rispondere ai nuovi ruoli cui è chiamata. Dovrebbero essere dedicate in generale più risorse alle per adeguare alle nuove esigenze quelle tradizionali (trasporti, etc.) e per crearne di nuove (NGN-next generation networks, etc.). Dovrebbero essere dedicate rilevanti risorse alle attività di formazione e ricerca, in un contesto in cui – come detto – i Paesi nuovi dedicano molte energie a questo aspetto vitale.
I nuovi equilibri impongono pure alle imprese, o almeno a molte di esse, di ripensare le strategie, i business model e l’organizzazione: in funzione di quello che ad esse appare essere – usando le parole del CEO del Boston Consulting Group Hans-Paul Buerkner – “the new normal”, ovvero la normalità del post-crisi. Questo significa per alcune procedere a drastici ridimensionamenti, in presenza di una domanda anch’essa ridimensionata e con poche speranze di ridecollo a breve. Questo significa per altre, che hanno saputo mantenere forti il posizionamento e il cash flow, approfittare della crisi per fare acquisizioni a prezzi favorevoli. Questo significa puntare a nuovi spazi di mercato nelle aree emergenti, ma anche alla soddisfazione di nuovi bisogni e/o logiche di acquisto (maggiore attenzione al “value for money”, alla dimensione ambientale, etc.) – indotte o accelerate dalla crisi – nelle aree di tradizionale presenza. Questo significa saper gestire la “diversità”: diversità nelle nazionalità e nei modi di vita di chi (nelle varie aree del mondo) lavora nell’impresa, diversità nei funzionamenti dei differenti mercati, diversità nei sistemi politici e nei rapporti con le autorità locali nelle aree in cui si opera. Questo significa saper trovare collanti che si contrappongano alle spinte centrifughe della diversità: creando ad esempio trasversalità geo-politiche nei gruppi di lavoro, attraverso il ricorso sistematico agli strumenti di collaborazione che l’ICT mette a disposizione; promuovendo più in generale una forte identità dell’impresa stessa. Questo significa innovare l’organizzazione: adeguando le competenze e le tecnologie (ICT in primo luogo) alle “best practice” internazionali; valutando alla luce del mutato contesto le scelte in essere relative sia alle localizzazioni delle diverse attività sia all’articolazione (spesso troppo complessa) delle “supply chain”. Anche per le imprese i riaggiustamenti – soprattutto se implicano scorpori di “business unit”, chiusure di “subsidiary” nazionali o di stabilimenti (come nei casi Alcoa-Portovesme e Fiat-Termini Imerese), tagli consistenti all’occupazione in generale e/o riconfigurazioni organizzative a forte impatto sulla distribuzione dei poteri – comportano resistenze esterne e interne forti: resistenze però che si attenuano fortemente quando è percepita a rischio la stessa sopravvivenza delle imprese.

IL CASO ITALIA

Se qualcuno a Capodanno 2007 avesse proposto a un gruppo di persone di qualsivoglia cultura e nazionalità di giocare, invece che al “gioco della torre” [chi butteresti giù dalla torre tra ..], al “gioco della crisi”, scommettendo su quali potessero essere i Paesi più perdenti se un fenomeno simile a quello poi accaduto (ma all’epoca completamente inatteso) si fosse verificato, sono convinto che l’Italia – nelle primissime posizioni mondiali per entità del debito pubblico (in assoluto e in rapporto al PIL) – sarebbe stata largamente gettonata. Nella realtà, e a sorpresa, le cose non sono andate così: e se l’Italia comunque non ride, c’è qualcuno che piange più di noi.
L’Italia non ride perché la nostra economia, largamente basata sull’export e con una rilevante quota di quest’ultimo nei beni di consumo durevole e nei beni di investimento, ha risentito molto pesantemente – come d’altronde la Germania e il Giappone – delle difficoltà della domanda mondiale. Ed è presumibile che ne risenta anche nei prossimi anni: sino a che i Paesi nostri tradizionali clienti continueranno a soffrire; sino a che le famiglie mediamente posticiperanno il rimpiazzo dei beni che stanno utilizzando (le automobili, gli elettrodomestici, ma anche i vestiti) e le imprese faranno lo stesso con i mezzi di produzione, a meno che non venga loro prospettata la possibilità di forti risparmi e razionalizzazioni. È importante che la crisi non intacchi le nostre quote sul commercio globale: dai primi dati sembra che questo mediamente non stia accadendo e che anzi ci sia una certa vivacità nei nostri scambi con i Paesi extra- UE. L’Italia non ride perché – a fronte del calo del PIL e delle razionalizzazioni in atto – cresce il numero di disoccupati: con riflessi di natura sociale, ma anche (per quanto visto prima) economica.
C’è però chi piange più di noi. Piange la Grecia, costretta a misure draconiane – con reazioni sociali pesanti – per evitare il default. Piange la Spagna, che con lo scoppio della bolla edilizia ha visto la disoccupazione avvicinarsi al 20 per cento. Piange il Regno Unito, costretto per salvare le sue banche ad accrescere in misura abnorme il debito pubblico, cui si affianca un debito privato delle famiglie elevatissimo. Non ridono gli Stati Uniti, che di salvataggi ne hanno dovuto fare davvero molti – imponenti – e che vedono il loro rapporto debito/ PIL avvicinarsi sempre più a quello italiano.
L’Italia ha il vantaggio – rispetto a questi casi (citati come esempio tra i tanti possibili) – di non aver dovuto provvedere al salvataggio delle sue principali banche e assicurazioni, di presentare un livello di indebitamento delle famiglie molto contenuto, di non correre il rischio dello scoppio di bolle della portata di quella edilizia spagnola (anche se qualche bollicina potrebbe scoppiare pure da noi), di aver maturato negli anni una maggiore capacità di controllo del rapporto deficit/PIL.
Ma d’altra parte si trova a dover mettere in atto tutti i correttivi strutturali discussi in precedenza – e altri ancora – in un clima politico storicamente e strutturalmente poco incline ai grandi cambiamenti, se non nei momenti in cui il baratro appare visibilmente vicino: come accadde agli inizi degli anni 90 con il crollo della lira o con il rischio di restare fuori dall’euro qualche anno dopo.
Risulta quindi molto difficile introdurre le grandi riforme di sistema e si deve contare ancora una volta sulla reattività e sulla capacità di autotra sformazione del nostro sistema di imprese, che vede la prevalenza delle piccolo medie: con il limite che la dimensione – soprattutto per l’affermazione nei Paesi a più rapida crescita – non è un optional e che il differenziale differenziale competitivo negativo derivante dall’effettività e dall’efficienza dei servizi e delle infrastrutture pubbliche rischia di accrescersi invece che di annullarsi.

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