editoriale

Si moltiplicano le fusioni fra grandi imprese. ‎E i maggiori vantaggi sono spesso quelli fiscali

Mentre si moltiplicano le acquisizioni di startup nei comparti maggiormente dinamici dell’economia mondiale – Internet, social network, cloud computing, biotech ecc. – nei comparti a maggiore maturità si assiste a un crescendo di fusioni fra uguali di grandi dimensioni, scontri fra leader globali, scambi di business. Con importanti conseguenze, economiche ma anche sociali

Pubblicato il 05 Mag 2014

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@umbertobertele

 Umberto Bertelè è autore di “Strategia”, edizioni Egea

Il flusso quasi ininterrotto di notizie sulle acquisizioni di startup nei comparti maggiormente dinamici dell’economia mondiale – Internet, social network, cloud computing, biotech  ecc. – è in questi giorni surclassato da ciò che sta avvenendo nei comparti a maggiore maturità, più sensibili alla scala e alle quote di mercato e in generale meno alle innovazioni (solitamente di natura incrementale): fusioni fra uguali di grandi dimensioni, perseguite anche attraverso scalate ostili; scontri fra leader globali, per impadronirsi delle spoglie di competitori non più in grado di competere; ma anche scambi di business fra leader mondiali, in una sorta di gioco del monopoli, per rafforzare i portafogli e ridurre la pressione concorrenziale.

Riassumo alcune delle principali operazioni:

  • la statunitense Pfizer, uno dei leader mondiali dell’industria farmaceutica con 205 miliardi di dollari di capitalizzazione, ha offerto circa 100 miliardi per acquisire il competitore inglese AstraZeneca, promettendo di spostare a Londra gli headquarters risultanti dalla fusione: non solo per  evitare resistenze nazionalistiche da parte del governo inglese, ma anche e forse soprattutto per sfruttare il differenziale nella tassazione degli utili fra gli Stati Uniti e il Regno Unito;
  • la svizzera Novartis e l’inglese GlaxoSmithKline, anch’esse ai vertici dell’industria farmaceutica mondiale con valori di borsa di 230 e 135 miliardi di dollari rispettivamente, hanno deciso di scambiarsi alcuni business –  per un valore di circa 20 miliardi – allo scopo di rafforzare ciascuna il proprio portafoglio; e allo stesso scopo Novartis ha inoltre deciso di cedere alla statunitense Eli Lilly (66 miliardi) la propria divisione di prodotti per la cura degli animali;
  • la canadese Valeant Pharmaceuticals International sta cercando di acquisire, con un’offerta ostile in partnership con un fondo attivista, la californiana  Allergan (produttrice di Botox): un altro potenziale merger of equals, dal momento che ambedue le società valgono circa 40 miliardi di dollari;
  • in un ambito del tutto diverso Alstom – un vero e proprio simbolo dell’industria francese (per il suo ruolo nel costruire centrali nucleari e nel fabbricare i famosi TGV) con più di 20 miliardi di euro di ricavi e 93 mila addetti (ma con difficoltà nel far quadrare i bilanci e una capitalizzazione di poco superiore agli 8 miliardi di euro) – è costretta a cedere la propria divisione energetica (70 per cento dei ricavi) al miglior offerente fra la conglomerata statunitense General Electric (268 miliardi di dollari di capitalizzazione, 145 di ricavi e 307 mila addetti) e la tedesca Siemens (82 miliardi di euro di capitalizzazione, 75 di ricavi e 360 mila addetti): migliorenon solo e non tanto per gli azionisti Alstom, ma anche per il governo francese che (pur non possedendo azioni della società) ha preso sotto il suo controllo l’operazione, valutandone le implicazioni sulla localizzazione degli headquarters e sul mantenimento dei posti di lavoro.

Sono gli ultimi episodi di una tendenza al consolidamento – attraverso mergers of equals – che tocca molti dei settori tradizionali e che accresce sempre più il peso delle imprese multinazionali accentuandone la transnazionalità. Episodi che si aggiungono ad altri dei mesi scorsi, in attesa di definizione anche sulla base dei responsi delle differenti authority antitrust: quali la fusione fra la svizzera Holcim e la francese Lafarge, numeri uno e due al mondo nel cemento, che farebbe nascere una società con circa 40 miliardi di euro di ricavi, ma che solleva problematiche antitrust in almeno 13 paesi; quali negli Stati Uniti l’acquisizione per 45 miliardi circa da parte di Comcast, leader di mercato nella TV via cavo e nella larga banda con una capitalizzazione di quasi 150 miliardi di dollari, del numero due Time Warner Cable, accompagnata da forti contestazioni antitrust da parte degli altri operatori.

Al di là dell’importanza dei numeri in gioco, ci sono alcuni aspetti che meritano di essere approfonditi.

In primo luogo il coinvolgimento della politica, con accenti talora nazionalistici, derivante dal fatto che la maggior parte delle operazioni di consolidamento riguarda imprese multinazionali basate in Paesi diversi. I temi in ballo: la localizzazione degli headquarters, visti come vitali per l’economia e la crescita di un Paese,  e la salvaguardia dei posti di lavoro, per la valenza sociale e politica sempre più elevata che essa ha assunto. Temi critici perché tra i maggiori vantaggi conseguibili con le fusioni vi sono la concentrazione degli headquarters e il taglio dei posti di lavoro: Pfizer ad esempio (ma non è un caso isolato)  ha accresciuto negli ultimi quindici anni il numero dei suoi addetti nel mondo  solamente da 50.900 a 77.700, pur avendone incorporati ben 134 mila come frutto delle sue tre principali acquisizioni. Temi critici che richiedono spesso agli aspiranti acquirenti di mettere sul tappeto offerte in grado di dare qualche soddisfazione anche ai governi: Pfizer ha offerto lo spostamento dei suoi headquarters a Londra (anche se in questo caso la molla è soprattutto fiscale) come compensazione per la perdita di sovranità della seconda impresa farmaceutica del Regno Unito; General Electric e Siemens si stanno confrontando non solo sulle cifre, ma anche sui centri direzionali da localizzare in Francia o sui business da cedere in contropartita degli acquisti in una logica di ottimizzazione dei portafogli.

In secondo luogo il classico dilemma sull’atteggiamento da tenere nei riguardi di queste operazioni, che da un lato migliorano l’efficienza e rendono più convenienti (almeno in linea di principio) gli investimenti di grandi dimensioni ma dall’altro rischiano di creare un contesto fortemente oligopolistico e per questo scarsamente dinamico: un dilemma classico, ma che – in assenza di un governo mondiale che si confronti con una economia e una finanza sempre più globalizzate – è ulteriormente complicato dalla diversità di interessi dei differenti Paesi (sviluppati o meno) oltre che dalle diverse filosofie adottate dalle authority antitrust. Diventano molto più lunghi e costosi i processi di autorizzazione: la fusione fra la francese Publicis e la statunitense Omnicom (numeri due e tre dell’advertising a livello mondiale), annunciata con grande enfasi nove mesi fa, è ad esempio ancora ferma in attesa delle decisioni dell’antitrust cinese e del via libera delle autorità fiscali francesi alla soluzione scelta per il post-fusione di porre la sede legale in Olanda e la sede fiscale a Londra.

In terzo luogo la problematica fiscale, legata alle logiche di tassazione competitiva seguite da diversi Paesi, con i suoi ovvi risvolti politici. Nel caso Publicis-Omnicom sono i francesi che non vogliono rinunciare, a favore degli inglesi, agli introiti fiscali provenienti da Publicis. Nel caso Pfizer-AstraZeneca è lo stesso presidente Obama che si dice veda con grande irritazione l’operazione (già sperimentata in diversi altri casi) di cambiare nazionalità effettuando un’acquisizione (come Pfizer) che giuridicamente si configuri come una fusione, con la conseguente possibilità (perfettamente legale) di scegliere come sede quella della società acquisita (nella fattispecie AstraZeneca): operazione finanziata per giunta con le grandi riserve finanziarie di cui Pfizer dispone al di fuori degli Stati Uniti, derivanti dagli utili realizzati dalla società all’estero e per questo non tassabili – sulla base delle leggi statunitensi – se non quando vengono rimpatriati. Con il paradosso che alcune importanti scelte strategiche delle imprese, probabilmente non questa, risultano giustificate solo dalla presenza di vantaggi fiscali.

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