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Great Resignation: che cos’è e cosa sta succedendo



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Secondo i dati più recenti, sembra che il fenomeno delle “Grandi Dimissioni” stia rallentando. Il tasso di abbandono delle aziende sta gradualmente tornando ai livelli pre-pandemici. Questo potrebbe essere dovuto a vari fattori, tra cui più preoccupazione e sfiducia rispetto ai trend che riguardano il mondo del lavoro

Aggiornato il 1 mar 2024



Le grandi dimissioni o Great Resignation è un fenomeno socio-economico che ha avuto inizio principalmente negli Stati Uniti intorno ad aprile 2021, quando un numero significativo di lavoratori ha iniziato a lasciare volontariamente il proprio impiego. Si è trattato di un trend insolitamente elevato di dimissioni che ha colpito diversi settori dell'economia.

Fino al 2022 si è parlato con sempre più insistenza, anche in Italia, del fenomeno Great Resignation, così come battezzato negli USA. Oggi la situazione sembra assestarsi su un volume di dimissioni volontarie decisamente più basso, come mostrano i dati degli ultimi mesi.

Che cosa si intende con Great Resignation

Con Great Resignation si fa riferimento al significativo aumento delle dimissioni, che vede un numero crescente di persone lasciare il lavoro. Le cause che portano a questa drastica decisione sono le più svariate: dal burnout, alla ricerca di un posto che preservi il benessere, al desiderio di poter avere la possibilità di gestire le giornate di lavoro difendendo il work-life balance.

Francesca Coin e Maurizio Busacca "Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro"

A essere complice dell’innesco di questo meccanismo è stata sicuramente la pandemia, che ha irrevocabilmente cambiato ciò che le persone si aspettano dal lavoro, rivalutando le loro priorità.
Ascolta “Dimissioni in rialzo e la nuova vita dopo la pandemia” su Spreaker.

Le cause della Great Resignation

Diversi sono gli aspetti che hanno portato alla crescita di questo fenomeno:

  • Riconsiderazione delle priorità lavorative e personali: La pandemia ha portato molte persone a riflettere sull’equilibrio tra vita lavorativa e privata, sulla soddisfazione e sul benessere generale, portando alcuni a decidere di cercare opportunità più in linea con i propri valori e bisogni.
  • Condizioni di lavoro: Sopratutto in alcuni settori, in particolare in quelli che richiedono la presenza fisica dei lavoratori, come il settore sanitario, la ristorazione e il retail, si ha la percezione di un compenso non adeguato, di condizioni di lavoro stressanti o insicure, al punto da spingere molte persone a cambiare comparto.
  • Crescita delle opportunità di lavoro agile: La diffusione del lavoro da remoto e dei nuovi paradigmi (come il ‘4daysweek’) ha offerto ai lavoratori maggiori opportunità di impiego al di fuori della loro area geografica, grazie anche agli accordi di Smart Working, permettendo a molti di cercare un posto con condizioni più favorevoli senza dover cambiare residenza.
  • Risparmio accumulato: Durante i lockdown, alcune persone sono riuscite a risparmiare denaro a causa della riduzione delle spese per viaggi, ristoranti e altre attività ricreative. Questo ha fornito un cuscinetto finanziario che ha permesso a molti di prendersi una pausa dal lavoro o di rischiare di cambiare carriera.
  • Rivalutazione della sicurezza del lavoro: Alcuni lavoratori hanno deciso di cercare impieghi ritenuti più sicuri o più stabili anche in termini di prospettive di carriera.

Great Resignation

Thomas E. Lambert, nel suo saggio intitolato La Grande Dimissione negli Stati Uniti: uno studio sulla segmentazione del mercato del lavoro, pubblicato a gennaio 2023 sul Forum for Social Economics, ha esaminato con attenzione le dinamiche di questo esodo dal mercato del lavoro americano, avvalendosi dei dati forniti dalla Job Openings and Labor Turnover Survey del Bureau of Labor Statistics degli USA.

Attraverso questo studio, Lambert ha cercato di dare conferma empirica all’esistenza della Grande Dimissione, scoprendo, dopo aver tenuto in considerazione il fattore della crescita economica, che i dati relativi al turnover lavorativo in epoca pandemica (fino a gennaio 2022) mostrano differenze statisticamente significative rispetto a quelli registrati durante la Grande Recessione (2007-2009) e il periodo di recessione del settore tecnologico noto come “dot-com” (2001).

I numeri della Great Resignation tra il 2021 e il 2022

Per capire l’ampiezza di quello che è accaduto è opportuno guardare i numeri. Secondo i dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, ad agosto 2021 è stato raggiunto il valore record di 4,6 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il lavoro. Dalla primavera 2021 il valore medio è stato di 4 milioni circa.

Nel Regno Unito la crisi del personale si aggravò: a ottobre 2021 un numero considerevole di imprese affermò che la mancanza di personale era sul punto di compromettere la loro capacità di operare.

Secondo uno studio di McKinsey, il 40% dei lavoratori a livello mondiale era pronto a cambiare lavoro in breve tempo e il 53% dei datori di lavoro affermò di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e il 64%.

La Great Resignation, o come la chiama McKinsey il Great Attrition, è quindi qualcosa con cui le imprese hanno fatto i conti e dunque occorre capire più in profondità che cosa è successo negli ultimi mesi.

L’ondata di dimissioni nel 2021, ma senza un nuovo lavoro

Proprio la ricerca di McKinsey, che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti, ha rilevato che il 36% di chi si è licenziato non aveva ancora in mano un nuovo lavoro. Ed è questo che ha caratterizzato il nuovo fenomeno, che, diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, ha portato le persone a fare un vero e proprio salto nel buio, e sta facendo emergere prepotentemente il fatto che i datori di lavoro potrebbero non essere in contatto con le difficoltà vissute dai loro dipendenti.

Il trend fu esaminato anche dallo studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV) che ha rilevato che nel 2020 1 dipendente su 5 ha cambiato volontariamente lavoro – Generazione Z (33%) e Millennial (25%) rappresentano le fasce di età che più si sono messe in gioco – e che 1 persona su 4, a livello globale, intende cambiare posto di lavoro nel 2021.

Le grandi dimissioni in Italia

L’Osservatorio sul precariato dell’Inps pubblicò i dati che evidenziarono che il boom delle dimissioni è stata una realtà anche per l’Italia.

Nei primi sei mesi del 2022 le cessazioni volontarie del rapporto di lavoro sono state 3.322.000, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+36%) per tutte le tipologie contrattuali:

  • contratti stagionali (+64%)
  • contratti intermittenti (+57%)
  • contratti in apprendistato (+34%)
  • contratti a tempo determinato (+33%)
  • contratti a tempo indeterminato e contratti in somministrazione (+31%).

Ma quello che salta all’occhio è che tra le ragioni di fine del contratto le dimissioni hanno un peso rilevante: si parla infatti di oltre 1 milione di casi con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021. Analizzando poi solo i tempi indeterminati la crescita rispetto al 2021 è del 22%.

In precedenza, l’Associazione Italiana Direzione Personale (AIDP) ha pubblicato i dati secondo cui le dimissioni volontarie fra i giovani in Italia toccano il 60% delle aziende.

I settori più coinvolti sono stati:

  • Informatico e Digitale (32%)
  • Produzione (28%)
  • Marketing e Commerciale (27%).

A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto le persone nella fascia d’età compresa fra i 26 e i 35 anni, che costituisce il 70% del campione analizzato; perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia.

Analizzando i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulle cessazioni dei rapporti di lavoro nel secondo trimestre del 2021, emerge è che c’è stata una crescita tendenziale del +43,7%,

In particolare tra aprile e giugno c’è stato un incremento delle cessazioni che ha fatto registrare 2 milioni 587mila chiusure dei rapporti lavorativi, con una crescita del 37% rispetto al trimestre precedente e un +768mila unità rispetto allo stesso trimestre del 2020.

Di queste, 484mila per dimissioni volontarie dei lavoratori. E in generale la quota di abbandono volontario sul totale degli occupati ha superato il 2% per la prima volta da anni.

Come riporta poi l’Osservatorio HR del Politecnico di Milano, nel 2022 il tasso di turnover aumentò per il 73% delle aziende italiane, mostrando forti difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone presenti al proprio interno.

Il 45% degli occupati dichiarò di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo. Numeri più alti per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcuni profili (professionalità digitali). Tra le persone che hanno cambiato lavoro, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni.

Perché ci sono state le grandi dimissioni

Il già citato studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV) – che ha coinvolto 14mila lavoratori di tutto il mondo – ha sottolineato che le principali ragioni che portano le persone a dare le dimissioni sono la necessità di lavorare

  • in una realtà più flessibile (32%),
  • la volontà di avere anche incarichi più mirati e soddisfacenti (27%).

Nello scegliere il nuovo posto di lavoro, quello che guardano le persone è

  • l’equilibrio tra lavoro e vita privata (51%)
  • le opportunità di avanzamento di carriera (43%).

Inoltre, più del 40% ha sottolineato che l’etica e i valori del datore di lavoro sono importanti per motivarli e farli sentire parte di un gruppo, mentre il 36% ha affermato di apprezzare le opportunità di apprendimento continuo.

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Perché gli italiani desiderano cambiare lavoro o azienda

In Italia, secondo quanto rileva l’Osservatorio, diversi fattori influiscono sulla scelta di cambiare lavoro:

  • il 46% lo fa per cercare benefici economici
  • il 35% per le opportunità di carriera, il 24% per una maggiore salute fisica o mentale
  • il 18% per inseguire le proprie passioni o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%)

Che la salute fisica e mentale sia diventata una delle priorità dei lavoratori di oggi non desta stupore considerando che, sempre secondo lo studio, 4 lavoratori su 10 hanno avuto almeno un’assenza per malessere emotivo.

A questo si accompagna una diminuzione del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente “ingaggiati”, ossia profondamente coinvolti con l’azienda, passano da un già basso 20% a un preoccupante 14%. E solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all’interno dell’organizzazione.

Per i giovani lavoratori conta la Yolo Economy: si vive una volta sola

Se poi si guarda al mondo dei più giovani è in atto una nuova tendenza, quella della Yolo Economy (You only live once), che sta portando i Millennials e parte della Generazione Z ad abbandonare il posto fisso per avviare nuove attività.

Questo perché non trovano l’adeguata soddisfazione personale nel posto dove lavorano e si mettono quindi alla ricerca di esperienze a cui dare valore. Per Millennials e Generazione Z, infatti, è diventato sempre più centrale il tema del well-being, della sostenibilità e dell’equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e alla vita privata, alle proprie passioni ed esperienze personali: le radici di questa esigenza possono essere individuate nel fatto che queste generazioni sono le prime a porre particolare importanza ai disturbi psicologici e alla necessità di supporto.

Cosa è stato fatto per arginare la Great Resignation

È interessante, a tal proposito, approfondire l’analisi di McKinsey: c’è un gap tra le motivazioni reali che spingono le persone a cambiare e quelle che pensano i loro datori di lavoro.

I primi tre fattori citati dai dipendenti sono

  • non sentirsi apprezzati dalle loro organizzazioni (54%)
  • non sentirsi apprezzati dai loro manager (52%)
  • non sentire un senso di appartenenza al lavoro (51%).

I datori di lavoro, invece, ritengono che i dipendenti si licenzino soprattutto per

  • retribuzione
  • lo scarso equilibrio tra lavoro e vita privata e
  • non attenzione alla salute fisica ed emotiva.

Questi problemi sono comunque stati indicati dai dipendenti, ma non con lo stesso peso che gli attribuiscono i datori di lavoro (di seguito il grafico che riporta le viste di entrambi gli attori)

Fattori che hanno rallentato la Great Resignation

Ci sono diversi fattori che hanno influenzato il rallentamento e la trasformazione di questo trend:

  • Normalizzazione del mercato del lavoro: Dopo i picchi iniziali di dimissioni, man mano i lavoratori hanno trovato impiego in nuovi ruoli o settori e sono ritornati al lavoro dopo aver preso una pausa.
  • Adeguamento delle politiche aziendali: Alcune aziende hanno iniziato ad adattare le loro politiche e pratiche di lavoro per rispondere alle esigenze e alle aspettative dei dipendenti.
  • Cambiamenti economici: Fattori economici come l’inflazione, la crescita dei tassi di interesse e le preoccupazioni per una possibile recessione hanno reso i lavoratori più cauti nel lasciare un impiego stabile, in quanto la sicurezza del lavoro è diventata una priorità maggiore.
  • Termine dell’effetto pandemico: L’impatto iniziale della pandemia che ha spinto molti a rivedere le scelte di carriera si è attenuato col tempo, con meno persone che sentono l’urgenza di un cambiamento radicale nella propria vita lavorativa.
  • Rientro dei lavoratori: Alcuni lavoratori che avevano lasciato il mercato del lavoro sono rientrati avendo trovato le condizioni o le opportunità che cercavano, o per necessità finanziaria.

Come trattenere i dipendenti in azienda

Questo fa capire che ancora c’è molto da fare, e la prima regola da seguire è che bisogna mettersi in ascolto dei dipendenti e farsi le domande giuste, come ad esempio quelle suggerite da McKinsey:

  • I manager sono in grado di motivare e ispirare i loro team, e di guidarli con passione?
  • Le persone giuste sono nei posti giusti?
  • Quanto forte è la cultura dell’organizzazione?
  • Quanto la forza del rapporto che si ha con le persone dipende unicamente dalla leva economica?
  • I benefit previsti sono in linea con quelli che si aspettano (e che vorrebbero) le persone?
  • I dipendenti vogliono percorsi di carriera e opportunità di crescita. In che misura si riesce ad accontentare queste esigenze?
  • Si sta davvero costruendo un senso di comunità?

A queste sarebbe opportuno aggiungerne altre 6 più basilari:

  • Gli stipendi sono in linea con le mansioni e le competenze?
  • Gli orari di lavoro sono umani e le condizioni di lavoro sono sicure?
  • Quanto si è davvero flessibili (e non solo sulla carta)?
  • L’impegno che si ha verso le persone che lavorano da tempo in azienda è lo stesso che si ha quando si vuole reclutare qualcuno?
  • In che misura ci si pone davvero in ascolto delle persone?

Solo dopo aver risposto a queste domande si può cominciare a definire un nuovo modello che metta le esigenze delle persone davvero al centro, disegnando, in primis, una ben congegnata strategia di employee engagement.

In tal senso oggi i modelli di predictive turnover, basati sui dati, possono essere un valido supporto.

A tutti questi elementi corrispondono strategie ad hoc che vanno dall’employer branding al team building fino ad arrivare all’employee advocacy, sostenuti da nuovi approcci organizzativi e manageriali e abilitati da tecnologie digitali di ultima generazione.

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