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Great Resignation: che cosa è e cosa sta succedendo in Italia

Uno studio McKinsey rivela che il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi mesi, e nel nostro Paese le dimissioni sono cresciute di oltre un terzo rispetto al 2021, come riporta l’Osservatorio sul precariato dell’Inps. I numeri di questo fenomeno e alcuni suggerimenti per le organizzazioni che vogliono circoscriverne l’impatto

Pubblicato il 16 Set 2022

Great Resignation

Si parla con sempre più insistenza anche in Italia di questo fenomeno già battezzato negli USA con il termine “Great Resignation”.

Che cosa si intende con Great Resignation

Con Great Resignation si fa riferimento al significativo aumento delle dimissioni, che vede un numero crescente di persone lasciare il loro lavoro. Le cause che portano a questa drastica decisione sono le più svariate: dal burnout, alla ricerca di un posto che preservi il benessere, al desiderio di poter avere la possibilità di gestire le giornate di lavoro difendendo il work-life balance. Ad essere complice dell’innesco di questo meccanismo è stata sicuramente la pandemia, che ha irrevocabilmente cambiato ciò che le persone si aspettano dal lavoro, rivalutando le loro priorità.

I numeri della Great Resignation

Per capire l’ampiezza di quello che sta accadendo è opportuno guardare i numeri. Secondo i dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, ad agosto 2021 è stato raggiunto il valore record di 4,6 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il lavoro. Dalla primavera 2021 il valore medio è stato di 4 milioni circa. Nel Regno Unito la crisi del personale si sta aggravando: a ottobre 2021 un numero considerevole di imprese ha affermato che la mancanza di personale sta compromettendo la loro capacità di operare.

Secondo uno studio di McKinsey, il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi, il 53% dei datori di lavoro ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e il 64% si aspetta che il problema continui, o peggiori, nei prossimi sei mesi. La Great Resignation, o come la chiama McKinsey il Great Attrition, è quindi qualcosa con cui le imprese dovranno continuare a fare i conti, e per farlo forse occorre capire più in profondità che cosa è successo negli ultimi mesi.

Proprio la ricerca di McKinsey, che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti, ha rilevato che il 36% di chi si è licenziato non aveva ancora in mano un nuovo lavoro. Ed è questo che caratterizza il nuovo fenomeno, che, diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, sta portando le persone a fare un vero e proprio salto nel buio, e sta facendo emergere prepotentemente il fatto che i datori di lavoro potrebbero non essere in contatto con quanto siano stati difficili gli ultimi 18 mesi per le loro persone.

A ribadire questo trend anche lo studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV) che ha rilevato che nel 2020 1 dipendente su 5 ha cambiato volontariamente lavoro – Generazione Z (33%) e Millennial (25%) rappresentano le fasce di età che più si sono messe in gioco – e che 1 persona su 4, a livello globale, intende cambiare posto di lavoro nel 2021.

«Se da un lato è vero che c’è una carenza di manodopera, è altrettanto evidente che i cambiamenti demografici e culturali che stanno dietro non saranno facilmente risolti semplicemente offrendo dei bonus di assunzione ai nuovi talenti. La pandemia ha accelerato il pensionamento di molti lavoratori della generazione boomer, e molti gruppi demografici non sono tornati ai livelli di occupazione pre-pandemia», ha dichiarato Katy Tynan, Principal Analyst di Forrester, che con il suo studio dal titolo Unpacking The Hype About The Great Resignation, vuole dimostrare come i tassi di dimissioni siano in continua crescita già dal 2011. 

«Il mondo del lavoro si sta trasformando in un enorme mercato in cui i dipendenti “vendono” i loro talenti ad “acquirenti” desiderosi o datori di lavoro che devono competere per la loro attenzione – ha aggiunto Tynan -. Per superare questo impasse serve competere sulla Customer Experience sforzandosi di affrontare e trovare una soluzione al burnout e/o adottando una prospettiva a lungo termine basata sul modello “no more jobs” che include un’organizzazione più resiliente, adattabile e creativa. Questo richiederà tempo, sacrifici e investimenti, che verranno però ripagati con dipendenti più impegnati che operano a un livello più alto di produttività e con un purpose maggiore». 

Nuova call-to-action

E in Italia?

L’Osservatorio sul precariato dell’Inps ha recentemente pubblicato i nuovi dati che ribadiscono che il boom delle dimissioni è una realtà anche per l’Italia. Nei primi sei mesi del 2022 le cessazioni sono state 3.322.000, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+36%) per tutte le tipologie contrattuali: contratti stagionali (+64%), contratti intermittenti (+57%), contratti in apprendistato (+34%), contratti a tempo determinato (+33%), contratti a tempo indeterminato e contratti in somministrazione (+31%). Ma quello che salta all’occhio è che tra le ragioni di fine del contratto le dimissioni hanno un peso rilevante: si parla infatti di oltre 1 milione di casi con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021. Analizzando poi solo i tempi indeterminati la crescita rispetto al 2021 è del 22%.

In precedenza, l’Associazione Italiana Direzione Personale (AIDP) ha pubblicato i dati secondo cui le dimissioni volontarie fra i giovani in Italia toccano il 60% delle aziende. I settori più coinvolti sono quello Informatico e Digitale (32%), Produzione (28%) e Marketing e Commerciale (27%). A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto le persone nella fascia d’età compresa fra i 26 e i 35 anni, che costituisce il 70% del campione analizzato; perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia. 

Analizzando i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulle cessazioni dei rapporti di lavoro nel secondo trimestre del 2021, emerge è che c’è stata una crescita tendenziale del +43,7%, In particolare tra aprile e giugno c’è stato un incremento delle cessazioni che ha fatto registrare 2 milioni 587mila chiusure dei rapporti lavorativi, con una crescita del 37% rispetto al trimestre precedente e un +768mila unità rispetto allo stesso trimestre del 2020. Di queste, 484mila per dimissioni volontarie dei lavoratori. E in generale la quota di abbandono volontario sul totale degli occupati ha superato il 2% per la prima volta da anni. 

Come riporta poi l’Osservatorio HR del Politecnico di Milano, nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende italiane, mostrando forti difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone presenti al proprio interno.  Il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Numeri che crescono per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcuni profili (professionalità digitali). Tra le persone che hanno cambiato lavoro, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni.

Le motivazioni che portano le persone a dare le dimissioni e che cosa cercano sul luogo di lavoro

Il già citato studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV) – che ha coinvolto 14mila lavoratori di tutto il mondo – ha sottolineato che le principali ragioni che portano le persone a dare le dimissioni sono la necessità di lavorare in una realtà più flessibile (32%), e la volontà di avere anche incarichi più mirati e soddisfacenti (27%). Nello scegliere il nuovo posto di lavoro, quello che guardano le persone è l’equilibrio tra lavoro e vita privata (51%) e le opportunità di avanzamento di carriera (43%). Inoltre, più del 40% ha sottolineato che l’etica e i valori del datore di lavoro sono importanti per motivarli e farli sentire parte di un gruppo, mentre il 36% ha affermato di apprezzare le opportunità di apprendimento continuo.

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In Italia, secondo quanto rileva l’Osservatorio, diversi fattori influiscono sulla scelta di cambiare lavoro: il 46% lo fa per cercare benefici economici, il 35% per le opportunità di carriera, il 24% per una maggiore salute fisica o mentale, il 18% per inseguire le proprie passioni o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%). Che la salute fisica e mentale sia diventata una delle priorità dei lavoratori di oggi non desta stupore considerando che, sempre secondo lo studio, 4 lavoratori su 10 hanno avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere emotivo. A questo si accompagna una diminuzione del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente “ingaggiati”, ossia profondamente coinvolti con l’azienda, passano da un già basso 20% a un preoccupante 14%. E solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all’interno dell’organizzazione.

Se poi si guarda al mondo dei più giovani è in atto una nuova tendenza, quella della Yolo Economy (You only live once), che sta portando i Millennials e parte della Generazione Z ad abbandonare il posto fisso per avviare nuove attività. Questo perché non trovano l’adeguata soddisfazione personale nel posto dove lavorano e si mettono quindi alla ricerca di esperienze a cui dare valore. Per Millennials e Generazione Z, infatti, è diventato sempre più centrale il tema del well-being, della sostenibilità e dell’equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e alla vita privata, alle proprie passioni ed esperienze personali: le radici di questa esigenza possono essere individuate nel fatto che queste generazioni sono le prime a porre particolare importanza ai disturbi psicologici e alla necessità di supporto.

Le azioni da mettere in campo per arginare la Great Resignation

«Se ancora non ce ne fossimo accorti anche i dati lo confermano, siamo in pieno Big Quit! Quello che sta accadendo è una vera polveriera che rischia di far esplodere il turnover e di minare clima, efficacia e motivazione nelle organizzazioni. Aziende e manager si scoprono impotenti. Resteranno competitive solo quelle organizzazioni che dimostreranno di essere in grado di: attrarre e far crescere le loro persone, investire in competenze per far cogliere obiettivi professionali sfidanti, e riprogettare le organizzazioni per la velocità e l’innovazione. Come? Provando ad ascoltare davvero le persone e chiedendosi cosa si può dare loro di più rispetto allo stipendio dovuto», ha dichiarato Mariano Corso, Docente di Leadership & Innovation del Polimi e Responsabile Scientifico di P4I – Partners4Innovation.

Ecco perché è importante che le organizzazioni prendano consapevolezza del fenomeno e che capiscano perché le persone se ne vanno, così da individuare le azioni da mettere in campo.

È interessante, a tal proposito, quello che è emerso dall’analisi di McKinsey: c’è un gap tra le motivazioni reali che spingono le persone a cambiare e quelle che pensano i loro datori di lavoro. I primi tre fattori citati dai dipendenti sono il non sentirsi apprezzati dalle loro organizzazioni (54%) o dai loro manager (52%) e il non sentire un senso di appartenenza al lavoro (51%). I datori di lavoro, invece, ritengono che i dipendenti si licenzino soprattutto per la retribuzione, lo scarso equilibrio tra lavoro e vita privata e la non attenzione alla salute fisica ed emotiva. Questi problemi sono comunque stati indicati dai dipendenti, ma non con lo stesso peso che gli attribuiscono i datori di lavoro (di seguito il grafico che riporta le viste di entrambi gli attori)

Questo fa capire che ancora c’è molto da fare, e la prima regola da seguire è che bisogna mettersi in ascolto dei dipendenti e farsi le domande giuste, come ad esempio quelle suggerite da McKinsey:

  • I manager sono in grado di motivare e ispirare i loro team, e di guidarli con passione?
  • Le persone giuste sono nei posti giusti?
  • Quanto forte è la cultura dell’organizzazione?
  • Quanto la forza del rapporto che si ha con le persone dipende unicamente dalla leva economica?
  • I benefit previsti sono in linea con quelli che si aspettano (e che vorrebbero) le persone?
  • I dipendenti vogliono percorsi di carriera e opportunità di crescita. In che misura si riesce ad accontentare queste esigenze?
  • Si sta davvero costruendo un senso di comunità?

A queste sarebbe opportuno aggiungerne altre 6 più basilari:

  • Gli stipendi sono in linea con le mansioni e le competenze?
  • Gli orari di lavoro sono umani e le condizioni di lavoro sono sicure?
  • Quanto si è davvero flessibili (e non solo sulla carta)?
  • L’impegno che si ha verso le persone che lavorano da tempo in azienda è lo stesso che si ha quando si vuole reclutare qualcuno?
  • In che misura ci si pone davvero in ascolto delle persone?

Solo dopo aver risposto a queste domande si può cominciare a definire un nuovo modello che metta le esigenze delle persone davvero al centro, disegnando, in primis, una ben congegnata strategia di employee engagement. In tal senso oggi i modelli di predictive turnover, basati sui dati, possono essere un valido supporto.

«La comprensione del ruolo di una persona all’interno di un’organizzazione, la valorizzazione del singolo e il riconoscimento dei suoi meriti, la sua inclusione nei team giusti, la fiducia nelle sue capacità, la responsabilizzazione rispetto agli obiettivi di business (empowerment), lo sviluppo di soft skill, sono tutti elementi fondamentali di un engagement aziendale che mira ad attrarre i candidati giusti, fidelizzare e trattenere i talenti migliori», sottolinea Laura Cavallaro, Partner di P4I – Partners4Innovation.

A tutti questi elementi corrispondono strategie ad hoc che vanno dall’employer branding al team building fino ad arrivare all’employee advocacy, sostenuti da nuovi approcci organizzativi e manageriali e abilitati da tecnologie digitali di ultima generazione.

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