Ricerche e studi

Donne e lavoro: l’impatto del Covid-19 sull’occupazione femminile

Il 72,4% di chi è tornato a lavoro dal 4 maggio è uomo: ciò vuol dire che il lockdown, per le lavoratrici, è durato molto di più. Non solo, sono loro a pagare pegno per l’emergenza sanitaria: degli 84 mila posti di lavoro in meno rispetto al mese precedente, 65 mila (circa l’80%) erano occupati proprio da donne. I dati di uno studio condotto con Tableau

Pubblicato il 10 Lug 2020

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La disoccupazione in Italia continua, e si delineano nuovi scenari di lavoro per uomini e donne. E la causa di tutto, come si può facilmente immaginare, è il nuovo Coronavirus. Questo quanto emerge dall’ultimo rilevamento dell’ISTAT relativo al mese di maggio, con un forte calo sia rispetto al mese precedente, sia rispetto al maggio 2019. Mese su mese si registra un calo di 84 mila posti di lavoro, mentre su base annuale il contatore tocca il picco (negativo) di -613 mila posti di lavoro. La disoccupazione cresce così dell’1,2% e arriva al 7,8%.

A pagare pegno, in particolare, sono le donne: degli 84 mila posti di lavoro in meno rispetto al mese precedente, 65 mila (circa l’80%) erano occupati proprio da donne. Allo stesso tempo, però, le donne sono anche quelle che cercano di più un nuovo lavoro: delle 307 mila persone in più che cercano lavoro nel mese di maggio, 227 mila sono di sesso femminile.

Insomma, la crisi scatenata dal Covid-19 ha stravolto il mercato del lavoro del nostro Paese e le donne sono quelle che ne stanno risentendo di più, a livello occupazionale. Ed è una condizione anomala, rispetto alle crisi economiche degli anni passati. È stato questo il tema centrale del webinar “Women in data – Donne e lavoro: l’impatto del COVID-19” organizzato da The Information Lab Italia, in cui sono stati presentati i dati raccolti da diferse fonti analizzati ed elaborati con Tableau per capire con maggior dettaglio le percentuali relative al gender gap nel mondo del lavoro.

Nel corso dell’evento è emerso prepotentemente come l’occupazione femminile sia stata particolarmente penalizzata e che le ragioni siano da ricercarsi nella natura peculiare della crisi che ci troviamo a vivere.

Donne e lavoro: la situazione pre-COVID

Nel corso del loro intervento, Alessandra Casarico, professoressa presso il Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Luigi Bocconi, e Salvatore Lattanzio, dottorando in Economics presso l’Università di Cambridge, sono partiti con il sottolineare che l’occupazione femminile non vivesse un momento eccezionale già prima della crisi. Il differenziale di genere rispetto all’Unione Europea è più ampio del 60% (nel nostro Paese il tasso di occupazione femminile è di 18 punti percentuali più basso rispetto a quello maschile; a livello europeo la differenza è dell’11%) anche se nel corso degli anni il gap ha subito una contrazione.

A livello di Gender Pay Gap, invece, l’Italia fa segnare uno dei migliori risultati dell’intera Unione Europa. La differenza di stipendio tra uomo e donna (a parità di mansione svolta e ruolo ricoperto) è “solamente” del 6%, contro una media comunitaria del 15,6%. Un dato positivo che, spiegano la professoressa Casarico e il dottor Lattanzio, è frutto dell’alto livello di istruzione delle lavoratrici italiane. A differenza di altri Paesi europei, infatti, in Italia donne con basso livello di istruzione (nessun titolo di studio o licenza media) partecipano poco al mercato del lavoro, mentre il tasso di occupazione tra chi ha una laurea o titolo post-laurea è paragonabile alla media europea.

Le donne, poi, pagano un conto salato anche in tema di child penalty: le lavoratrici che hanno un bambino impiegano fino a 15 anni per tornare sui livelli retribuiti pre-maternità e, a parità di ruolo e mansioni svolte, hanno comunque uno stipendio più basso rispetto alle altre colleghe. Statisticamente, nell’arco di 15 anni il loro stipendio è cresciuto il 50% in meno rispetto a quello di colleghe di pari ruolo. A questo, poi, si aggiunge il maggior tempo dedicato dalle donne ai cosiddetti “lavori non retribuiti” (attività casalinghe e di assistenza familiare), che contribuiscono a formare stereotipi e rappresentano una sorta di “base culturale” che ha portato le donne a pagare il prezzo più caro – in termini lavorativi – nel corso della crisi del nuovo Coronavirus.

Occupazione femminile: l’impatto della pandemia da COVID-19

Nel 2008 la crisi lavorativa legata a quella economica e finanziaria colpì principalmente gli uomini. I settori che maggiormente ne risentirono, infatti, furono quelli edilizio e manifatturiero, dove la gran parte della manodopera è per l’appunto maschile. La crisi scatenata dal nuovo Coronavirus, invece, ha rappresentato un’eccezione rispetto al passato.

Come sottolineato dalla professoressa Casarico e dal Dottor Lattanzio, in questa occasione le attività cosiddette essenziali comprendevano, in gran parte, settori che vedono normalmente impiegata manodopera maschile. Al contrario, il settore terziario è rimasto bloccato per diverse settimane, pregiudicando così la possibilità per le donne di continuare a lavorare. Dai dati emerge, infatti, che il 72,4% di chi è tornato a lavoro dal 4 maggio è uomo: ciò vuol dire che il lockdown, per le lavoratrici, è durato molto di più (come confermato anche dalla rilevazione ISTAT, per l’appunto).

A questo, come accennato, si deve aggiungere il “pregiudizio” che sia la donna a doversi occupare principalmente dei compiti di cura casalinga e familiare.

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