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Osservatorio – Cina, un’occasione perduta per l’Italia

Sono poche le aziende italiane che hanno saputo fin qui cogliere le opportunità dell’immenso mercato del Paese del Dragone. Coraggio e determinazione sono mancati a Fiat, al settore vinicolo, che oggi esporta meno del Cile, a quello del caffè, che non ha tentato di contrastare o almeno imitare il successo di Starbucks, e al turismo, dove abbiamo perso importanti posizioni. Le difficoltà, tuttavia, non mancano

Pubblicato il 12 Mar 2012

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L’incubo di Prato, i falsi, i bassi costi Per molto tempo
la Cina è stata per le imprese italiane solo un nemico da
combattere. Una percezione che sta lasciando il posto
all’altra faccia della medaglia, quella
dell’opportunità.

Anche perché nel frattempo la Cina ha fatto vedere che
oltre all’export può offrire un ricco mercato interno che
sta facendo sentire il suo peso in comparti come quello del
lusso
. Vale la pena quindi di capire se e come è il
caso di andare sul mercato cinese come ha cercato di fare il
convegno organizzato a Milano “Cina compra Italia”
organizzato da Nuovo Mondo International, società specializzata
nella collaborazione con le imprese per approcciare il mercato
cinese.

Se si guarda ai numeri la risposta è semplice. La Cina
da 25 anni cresce ininterrottamente con una tasso annuo medio di
crescita del Pil intorno all’8%
. L’economia
è cresciuta in termini reali di oltre 17 volte in
trent’anni e a disposizione ci sono oltre 3mila miliardi di
dollari di riserve. Inoltre, è dotata di una massa critica
formidabile, con oltre un miliardo di abitanti e città come
Shangai che ne contano circa 18-19 milioni.

L’export è ancora molto forte e realizza un surplus pari a
14.53 miliardi di dollari, ma il presidente Hu Jintao ha
precisato che “La Cina non è deliberatamente alla ricerca
del surplus commerciale” e punta a un riequilibrio dei
rapporti con i Paesi stranieri. Alle parole devono seguire i
fatti, ma è vero che già oggi il 25% del fatturato
totale del lusso in Europa è preda di compratori con gli occhi a
mandorla
. Frutto di un milione di nuclei famigliari ad
alto reddito (oltre un milione di dollari) che quest’anno
cresceranno di 750.000 unità.

Un mercato immenso, che per l’Italia vale 7,8
miliardi di euro di fatturato
, ma che rappresenta al
momento un’occasione perduta come ha sottolineato Roldano
De Bastiani, sales manager di Nuovo Mondo International.

Coraggio e determinazione sono mancati a Fiat, al settore
vinicolo che oggi esporta meno del Cile, al caffè che non ha
tentato di contrastare o almeno imitare il successo di Starbucks
che ha aperto 60 locali solo a Shangai e al turismo dove abbiamo
perso importanti posizioni.

Il sistema però non è esente a qualche preoccupazione. Il
mercato immobiliare agita i sonni del vertice cinese che è
dovuto intervenire per evitare lo scoppio della bolla. I debiti
delle amministrazioni locali sono ingenti e, come ha ricordato
Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del
Politecnico di Milano dalle colonne del Sole 24 ore, “la
crescita economica ha rallentato per la terza volta consecutiva
in tre trimestri – passando dal +9,5% del Pil a +9,4% fino ad
arrivare al valore attuale intorno al 9,1 per cento. Il surplus
commerciale e le esportazioni sono diminuiti a causa della crisi
economica dell’Europa, principale area di destinazione dei
prodotti cinesi”. L’economia appare
“obesa”. Troppo forte è il peso degli
investimenti infrastrutturali riveste rispetto al Pil

(circa il 50%) e troppo debole è, secondo
Noci, la componente dei consumi domestici (35%
del Pil).

Definite luci e ombre dello scenario economico, la Cina
rimane comunque un Paese fortemente appetibile per le imprese
italiane
. Antonio Carta, di Cdm technoconsulting che da
tempo lavora con aziende della Penisola sottolinea come dal punto
di vista tecnologico uno dei problemi riguarda l’utilizzo
degli ideogrammi per i quali sono necessari software particolari.
«In Cina – racconta – poche persone parlano inglese e per
questo i costi per le imprese sono maggiori».

Poi ci sono i filtri a Internet. Per questo è
necessario scegliere il provider adatto che utilizza Hong Kong
come base oppure ricorrere alla Vpn. Per quanto riguarda la
contabilità, basata sul patrimonio e non sul reddito, bisogna
produrre molta documentazione, le fatture devono essere
rilasciate su moduli prefincati ma non ci sono particolari
complicazioni. Ci sono anche questioni organizzative.

Il nanismo italiano si vede anche lì. Il numero medio dei
dipendenti della filiale di una società giapponese è di 100
dipendenti, quella americana 80, Germania 65, Francia 40 e Italia
20. Il problema è che in Cina, osserva Carta, «fra i
quadri esiste un forte turno over. La permanenza in azienda è
spesso inferiore all’anno, c’è bisogno quindi di una
continua formazione del personale e se la filiale è piccola il
problema è evidente».

Spesso l’Erp utilizzato in azienda non è adatto
per il paese degli ideogrammi
. «Oltre il 70% dei
nostri clienti possedeva sistemi legacy che non potevano
utilizzare software cinese». Per risolvere il problema di
solito la filiale si prende in carico tutta l’operazione,
ma i dipendenti sono pochi e il general manager, senza
particolari competenze It, non può occuparsi di tutto.
«Così del sistema informativo si fa un utilizzo
tipicamente italiano che riguarda gli adempimenti fiscali e non
viene sfruttato come leva competitiva». Excel rimane molto
in voga per lo scambio di dati con l’headquarter, mentre
con il passare del tempo si verifica un aumento dei dati
extrasistema a causa del turn over e della mancanza di controllo.

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