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Banca d’Italia: i rimedi per colmare il ritardo dell’Italia nell’innovazione

Uno studio analizza le radici e gli interventi da attuare per accrescere la capacità innovativa del Paese: serve favorire la crescita dimensionale delle imprese, adottare forme di gestione più manageriali, aumentare il grado di capitalizzazione, sostenere i venture capital, rivedere la gestione degli incentivi pubblici all’innovazione

Pubblicato il 25 Set 2012

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La produttività, dramma italiano. Negli ultimi dieci anni la produttività per ora lavorata in Italia è cresciuta dell’1,4% contro una media Ue dell’11,4 e un dato tedesco del 13,6%. È questo il nodo principale dell’economia che negli anni ha visto i nostri prodotti perdere un terzo della competitività, mentre il costo del lavoro è salito di poco.

Da tempo tutte le analisi convergono sulla mancanza di innovazione come uno dei fattori principali che hanno generato questi risultati. Gli investimenti in macchinari sono crollati e sotto la media europea sono anche gli investimenti in asset intangibili, brevetti, ricerca e sviluppo.

Secondo il rapporto della Banca d’Italia “Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi”, “In Italia la spesa totale in R&S era pari nel 2008 all’1,2 per cento del Pil, un valore inferiore alla media della Ue (1,8 per cento): ultimo tra i paesi della Ue15, il dato italiano risulta molto distante da quello della Germania (2,6 per cento) e dei paesi scandinavi più innovativi (Svezia e Finlandia con 3,8 e 3,7 per cento, rispettivamente).

Nonostante la crescita registrata rispetto al 2000, quando si collocava attorno all’1 per cento del Pil, la spesa in ricerca e sviluppo in Italia è ancora ben lontana dall’obiettivo del 3 per cento enunciato nella strategia di Lisbona” In altri termini, in Italia sembra prevalere un modello basato su innovazioni incrementali che richiedono all’impresa un impegno, monetario e organizzativo, inferiore a quello che sarebbe necessario per sviluppare l’attività di R&S e la capacità brevettuale a livelli comparabili a quelli delle principali economie avanzate.

Il ritardo nell’attività innovativa risente della frammentazione del sistema produttivo in molte piccole imprese che hanno difficoltà a sostenere i costi elevati insiti nella ricerca e sviluppo e ad assumersene i rischi. Vi si sommano carenze di capitale umano nelle funzioni manageriali e di ricerca e un’eccessiva flessibilità dei rapporti di lavoro che riduce l’incentivo a investire in attività di formazione. La carenza di risorse finanziarie costituisce un ulteriore ostacolo; il capitale azionario, più adatto rispetto a quello di debito a finanziare l’innovazione, è meno diffuso che in altri paesi.

Le risorse pubbliche spese in Italia per incentivi alle imprese hanno conseguito risultati modesti. L’obiettivo prioritario è di aumentare la dimensione delle imprese. La crescita dimensionale potrebbe essere favorita da trattamenti fiscali agevolati per le operazioni di ristrutturazione aziendale che rendano meno onerose le operazioni di fusione e aggregazione tra imprese.

Secondo il report potrebbe essere utile facilitare la diffusione e l’operatività di intermediari di private equity e in questa direzione va l’istituzione del Fondo Italiano di Investimento, finalizzato a favorire il rafforzamento patrimoniale e i processi di aggregazione tra le piccole e medie imprese, anche attraverso il coinvolgimento di operatori privati specializzati.

E poi c‘è il mondo dell’istruzione per il quale bisogna muoversi lungo tre direttrici. Un sistema di istruzione orientato al merito; università che competano tra loro e che si basino su meccanismi di finanziamento che stimolino l’eccellenza della ricerca e l’interazione con il sistema produttivo (le università di punta possono avere significative ricadute positive sulle imprese innovative); favorire l’accesso e la presenza dei giovani nel mercato del lavoro (da rendere meno duale) e nelle professioni (da liberalizzare).

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