Partnership

IBM e VMware: light, cross o ibrido non conta, purché sia cloud

Il data center software defined non è mai stato così granulare: VMware rafforza l’accordo con Big Blue per accelerare la transizione verso ambienti computazionali altamente flessibili e svincolati dall’hardware di proprietà. E il cloud “leggero” di VMware si apre verso le nuvole pubbliche, sfruttando la capacità erogabile dai 48 data center IBM sparsi nel mondo

Pubblicato il 27 Set 2016

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Luca Zerminiani, Senior Systems Engineering Manager di VMware Italia

Sono disponibili da qualche settimana i primi servizi in grado di aiutare i clienti delle soluzioni VMware per i data center software defined a migrare rapidamente i propri carichi di lavoro sul cloud IBM. Si tratta di un accordo industriale, quello siglato dai due big dell’ICT a inizio anno, che ha permesso di conquistare già circa 500 clienti nel mondo (una ventina quelli italiani, tra cui spiccano Enel e Fincantieri), con referenze del calibro della catena di hotel di lusso Marriott. Aziende che sono, finalmente, in grado di migrare al cloud in poche ore anziché nel giro di settimane o, addirittura in alcuni casi, mesi. «È una nuova architettura cross-cloud quella che emerge dall’evoluzione in atto nella nostra offerta. Una nuvola che io amo definire light, per realizzare data center software defined senza alcuno sforzo di integrazione e con la garanzia di operare nel medesimo ambiente sia on premise che nel cloud». Chi parla è Luca Zerminiani, Senior Systems Engineering Manager di VMware Italia, che ha fatto il punto sulla partnership in corso di fronte a una rappresentanza di giornalisti italiani.

Il cloud ibrido diventa un servizio

A inizio anno, IBM e VMware hanno unito le forze nel tentativo di accelerare la transizione dei data center ospitati on

Alberto Bullani, Regional Manager di VMware Italia

premise verso una rivisitazione in chiave completamente software e, in ultima battuta, verso la nuvola pubblica, con la garanzia di un passaggio “indolore”, economico e sicuro. «L’obiettivo di questa partnership è rendere il cloud ibrido seamless, quindi perfettamente trasparente per chi lo adotta», commenta Alberto Bullani, Regional Manager di VMware Italia. Ma perché la scelta è ricaduta proprio su IBM? «Big Blue ha 48 data center interconnessi sparsi nel mondo ed è in grado di garantire robustezza tecnologica, assistenza 24×7 e una presenza globale», prosegue il manager.

Sono già circa 4.000 i professionisti IBM che hanno avviato un percorso di certificazione sulla VMware Cloud Foundation, a riprova del fatto che Big Blue crede fermamente nella bontà dell’alleanza. La VMware Cloud Foundation è una piattaforma che combina virtualizzazione, storage e networking in un unicum tecnologico che automatizza molte fasi legate all’installazione, configurazione, delivery e gestione degli ambienti cloud. Sarà così possibile, assicurano i vertici dell’azienda, aggiornare o implementare il cloud in poche ore con un risparmio stimato sul TCO (Total Cost of Ownership) nell’ordine del 30-40%.

Maurizio Ragusa, Director Cloud di IBM Italia

Grazie alla partnership, la piattaforma software è oggi disponibile in modalità “as-a-service”, nell’ambito del bouquet di offerta di servizi erogati da Big Blue nel mondo: «Il cliente che ha una vocazione internazionale potrà facilmente trovare il data center IBM più vicino alle sue facility – precisa Maurizio Ragusa, Director Cloud di IBM Italia -. L’azienda fortemente radicata sul territorio sarà, invece, in grado di godere da subito dei benefici di quello che io amo definire un cloud liquido, che permette alle aziende di acquistare capacità computazionale e storage da un portale Web, con pochi click del mouse, con la garanzia della certezza dei costi e della granularità del trasferimento dei workload, che avviene senza scossoni».
La novità più interessante degli ultimi giorni è la disponibilità di una formula di tariffazione a consumo orario – in precedenza l’unica opzione possibile per il cloud IBM era legata al pagamento di un canone mensile – che assicura una maggior economicità di gestione e un approccio realmente “su richiesta” allo spostamento dei carichi di lavoro nella nuvola.

I perché della scelta

«Quello che proponiamo – conclude Bullani – è un modello di cooperazione industriale indicato per gestire in modo efficace ed economico i picchi di lavoro, le attività di consolidamento del data center, backup e recovery, migrazione, sviluppo e test delle applicazioni. Ma anche per ovviare in modo intelligente ed economico al fenomeno dilagante dello shadow IT».

La ricerca: il cloud ibrido conviene (ma non convince del tutto)

IBM ha presentato nei giorni scorsi i risultati della ricerca “Tayloring Hybrid Cloud”, che dimostrano come la nuvola sia sì utilizzata dalle aziende ma in un modo che potremmo definire selettivo. Condotto su oltre mille top manager che operano in 18 settori industriali in varie regioni nel mondo, lo studio rivela come quasi 8 aziende su 10 (il 78% del campione) abbiano iniziative cloud in atto coordinate o completamente integrate – e nelle realtà più innovative la percentuale sale all’83%. Un deciso cambiamento rispetto al 34% del 2012. D’altra parte, però, gli intervistati sostengono che è precisa intenzione delle proprie aziende di mantenere su server dedicati, on premise, ben il 45% dei carichi di lavoro. Dallo studio emergono anche i principali elementi di criticità legati alla migrazione del data center verso la nuvola: i requisiti di sicurezza e conformità, anzitutto, citati dal 47% del campione, seguiti dall’incapacità di comprendere bene le strutture di costo legate a questa offerta (41%) e ai rischi legati alla garanzia della continuità operativa delle soluzioni in cloud (38%).

Tra le ragioni che spingono, invece, verso il cloud ibrido, spiccano la riduzione del TCO (citata nel 45% dei casi), la maggior facilità d’innovazione (43%), la miglior efficienza operativa (40%) e la capacità di soddisfare più prontamente le aspettative dei clienti (40%). Le aziende che lo hanno sperimentato dichiarano che il cloud ha permesso loro di espandersi in nuovi settori (76%), creare nuovo business (71%) e supportare nuovi modelli di business (69%).

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