Opinioni

Il futuro dell’Europa nell’economia globale

L’economista che aveva previsto il crollo del mercato immobiliare statunitense del 2008 delinea i tratti salienti del periodo di recessione che stiamo attraversando, analizzandone cause, effetti e possibili soluzioni

Pubblicato il 04 Mar 2013

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Nouriel Roubini, Professore di Economia alla New York University e scrittore

Grandi incognite incombono oggi sull’economia globale e nei prossimi mesi se ne vedranno gli impatti su aziende, investitori e consumatori. Le incognite pesano sul futuro dell’eurozona, con i suoi problemi di instabilità, sugli USA, che rimangono la prima potenza economica mondiale, con una forte influenza sull’intero andamento economico globale, sul futuro della Cina, seconda potenza globale che si trova oggi al punto di svolta di un modello di crescita non più sostenibile. Va poi valutata la situazione di crescente tensione geopolitica in medio oriente e nel sud dell’Asia, che rischia di sfociare in conflitti militari con pesanti conseguenze anche sull’economia mondiale.

La crisi dell’eurozona
L’Europa è da qualche anno interessata da gravi problemi e le nazioni nelle condizioni più critiche sono Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e, più recentemente, Cipro e Slovenia. Questi paesi hanno accumulato un’ingente quantità di debito pubblico e ora, declassati dalle agenzie di rating, vedono delinearsi all’orizzonte il rischio di un default. I tassi di interesse sono infatti già molto bassi e sono state praticate molte iniezioni di liquidità, mentre le politiche fiscali sono state limitate dagli oneri dei debiti sovrani. Nelle zone periferiche dell’Europa, dunque, è in atto una recessione che colpisce i singoli Paesi con intensità diverse, e che si sta ora estendendo anche al “cuore” dell’area europea, non risparmiandone nessuno. La Francia è sul bilico della recessione e la Germania, che pur rimane il Paese più performante in Europa, inizia a dare segnali negativi sul fronte esportazioni per via del fatto che sia la Cina – e l’area Asiatica in generale – sia i Paesi della periferia europea stanno riducendo il volume degli acquisti come conseguenza della crisi.

I fattori scatenanti dell’attuale recessione sono essenzialmente quattro. Al primo posto viene la fiscal austerity imposta a livello europeo. Aumentare le tasse e diminuire le spese si è reso necessario e su questo punto sono quasi tutti d’accordo. L’impressione è che però le misure intraprese prevedano di farlo troppo velocemente, con il rischio di paralizzare il sistema economico e peggiorare la situazione nel breve periodo.

Il valore dell’euro è poi al momento troppo alto. Ciò è un bene per economie forti come la Germania, ma non per i Paesi periferici. Altro tema è quello del Credit Crunch: molte delle banche delle zone periferiche dell’Europa hanno ora abbastanza liquidità per via degli aiuti ricevuti, ma non abbastanza capitale per rispondere ai nuovi standard bancari richiesti.

Devono quindi aumentarlo, e gli unici due modi possibili sono raccogliere capitali privati sui mercati, ma è difficilissimo, o diminuire la propria esposizione, riducendo quindi il numero di prestiti concessi. Ci sono molte aziende, in Italia e in tutta Europa, che sono solventi ma non hanno liquidità, perché non hanno accesso al credito.

Altro punto è quello della mancanza di fiducia delle aziende, che non investono e non assumono, e dei cittadini, che vedono perpetrarsi la situazione di crisi e perdono fiducia nel futuro riguardo la propria condizione sociale e lavorativa.

Segnali positivi
Va però anche ricordato che oggi ci sono dei segnali positivi che, rispetto a sei mesi fa, aprono uno spiraglio per l’uscita dal periodo di crisi. La Banca Centrale Europea ha capito che può giocare un ruolo più attivo sui mercati nel ridurre lo spread e contrastare la recessione. L’annuncio della decisione della BCE di acquistare bond italiani e spagnoli ha avuto effetti molto positivi sui mercati, ancora prima dell’acquisto vero e proprio. Lo spread si è ora assestato intorno al 300%-350%, un valore ancora molto alto ma decisamente più sostenibile rispetto a quello di inizio estate. A settembre è stato poi creato un nuovo programma europeo, l’ESM (European Stability Mechanism), che ha a disposizione un fondo di 500 miliardi di euro per assistere gli stati membri in difficoltà.

Il dibattito intorno ad un’unione economica, bancaria, fiscale e politica tra gli stati europei sta poi prendendo consistenza. I singoli stati hanno ormai capito che l’Europa non è più solo un’unione economica, ma un progetto geopolitico. Anche la Germania ha realizzato che risentirebbe pesantemente del collasso di uno qualsiasi dei Paesi periferici. In un’economia globale dominata da nuove e vecchie superpotenze (USA, Cina, India…) un singolo Paese europeo non potrebbe reggere il confronto sui mercati internazionali. Qualcosa si sta muovendo, insomma: richiederà tempi lunghissimi e una forte coordinazione tra tutti gli stati, ma è una buona notizia.

Come uscire dalla crisi
La soluzione per uscire dalla recessione prevede una serie di provvedimenti che hanno lo scopo di far crescere la domanda per rimettere in moto il sistema economico. Come detto in precedenza, le misure di Austerity sono necessarie, ma è necessario dare più tempo a Grecia, Portogallo, Spagna e forse anche all’Italia per raggiungere gli obiettivi imposti dalla UE, permettendogli di applicare le misure in maniera graduale. Dovrebbero essere prima i paesi periferici – più in difficoltà – a stringere la cinghia, e solo in un secondo momento quelli centrali (come la Germania, che ancora può permettersi a livello economico l’attesa), perché se lo fanno in contemporanea il rischio di amplificare la recessione paralizzando i consumi diventa significativo. In secondo luogo sono necessarie delle politiche monetarie a livello europeo. Il tasso di interesse dell’area europea è attualmente dello 0,75% e il tasso di deposito è dello 0%: ci troviamo in piena recessione.

La BCE potrebbe fare molto di più su questo fronte, intervenendo con politiche di alleggerimento quantitativo – ovvero acquistando attività finanziarie dalle banche del sistema (azioni o titoli) con effetti positivi sulla loro struttura di bilancio – o di credit easing, ponendosi come garante per assicurare alle aziende accesso al credito bancario a tassi ragionevoli. Un graduale ribassamento del valore dell’euro – nell’ordine del 15-20% – potrebbe poi ristabilire le zone periferiche dell’eurozona che risentono del forte valore attuale della valuta. In buona parte d’Europa c’è inoltre bisogno di spesa in infrastrutture, non solo in Italia e altri paesi periferici, ma anche nei paesi centrali. Progetti condivisi e finanziati a livello europeo avrebbero un’influenza enorme sui paesi membri nella creazione di posti di lavoro e nello sviluppo economico.

Ci troviamo a un punto in cui le strade percorribili sono due. O gli stati europei si rendono conto di dover progredire, avanzando verso una Grande Europa unita a livello economico ed eventualmente anche politico, o l’alternativa rimane il disgregamento e lo scioglimento di parte o di tutta l’Unione. Nessuna previsione realistica è al momento possibile, dato che tutto dipende dalle scelte politiche che i singoli paesi prenderanno nel prossimo futuro. Se un Paese come la Grecia o Cipro finissero in fallimento, l’Unione potrebbe anche sopravvivere, ma se fosse il caso di Spagna o Italia le conseguenze non sarebbero prevedibili, e potrebbero portare alla fine dell’eurozona come oggi è intesa. Il compromesso fra centro e periferia è che il primo deve fornire stabilità e supporto finanziario, il secondo scegliere governanti credibili e motivati a lavorare in maniera sincrona col centro per il bene comune.

La situazione economica degli Stati Uniti
Gli USA rappresentano ancora la più grande economia al mondo, e quello che vi succede ha ripercussioni sull’intero sistema economico globale. Il neoconfermato presidente Obama dovrà ora affrontare diverse questioni economiche e fiscali di massima importanza dato che, a fronte di una situazione economica che non è delle più rosee – con modesta crescita del PIL e mercato del lavoro statico -, negli Stati Uniti il processo di Austerity e di consolidamento finanziario non è ancora nemmeno partito. La spesa pubblica a budget per l’anno prossimo supera i 3mila miliardi di dollari, pari all’8% del PIL, mentre il debito pubblico si aggira intorno all’80% dello stesso e rischia di andare oltre il 100% a meno di opportuni interventi.

Ci sono alcune questioni della massima importanza da affrontare per evitare un declassamento da parte delle agenzie di rating. La prima è quella del “fiscal cliff”: a fine 2012 sono scaduti gli incentivi fiscali introdotti nell’era Bush ed è stato necessario trovare un accordo sul tetto al debito Usa. In caso contrario ci si sarebbe trovati con uno scoperto di circa 600 miliardi di dollari che avrebbe inciso inevitabilmente su tagli alle spese e aumenti delle tasse. Altro tema importante è poi quello delle politiche di Austerity e di consolidamento fiscale. I partiti repubblicano e democratico (che hanno una visione diametralmente opposta in campo di tassazione) dovranno confrontarsi e decidere come agire con i tagli ai costi e con le tassazioni, trovando un accordo efficace.

Il futuro della Cina
La Cina è la seconda economia mondiale, ha una popolazione di 1,1 miliardi di persone e costituisce uno dei più grandi importatori di materie prime, cibo e minerali a livello mondiale. Quello che accade in Cina ha ripercussioni sull’intera Asia, ma anche sull’Europa e sul resto del sistema economico. L’attuale modello di crescita della Cina non è però sostenibile, è fatto da troppo Export, troppi capitali immobilizzati, troppi investimenti in capitali fissi (50% del PIL) e consumi troppo bassi (solo il 35% del PIL). Se nel corso dei prossimi 1-2 anni la Cina non sarà in grado di invertire questi fenomeni – e quanto emerso dai risultati dell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese non lasciano intenderlo -, il Paese rischia una crisi e un arresto della crescita travolgente che ha accompagnato lo sviluppo del Paese negli ultimi anni.

I mercati emergenti
Con tutta probabilità, nel corso dei prossimi 10- 20 anni la maggior parte della crescita avverrà nei mercati emergenti. In mercati maturi come Europa, USA e Giappone la crescita potenziale è nell’ordine dell’1,5%, mentre in media nei mercati emergenti è del 5-6%. Nel medio periodo questo avrà l’effetto di determinare il nascere di nuove potenze economiche, con importanti risvolti in ambito politico. Diventerà quindi anacronistico parlare di un G7, G8, o G20 di nazioni che guidano le sorti dell’intera umanità, e credo sia un fatto positivo che permetterà un miglioramento delle condizioni di vita dei paesi interessati.

Nel breve periodo, però, come sta già avvenendo in Cina, India, Russia, Brasile, Argentina e Turchia, i mercati emergenti conosceranno una fase di rallentamento. Prima di tutto per via della ridotta crescita dei mercati dei paesi più sviluppati – e quindi dell’economia nel suo complesso -, ma esiste una ragione più strutturale: molte di queste economie emergenti stanno allontanandosi da un approccio orientato al mercato dirigendosi verso un modello che si potrebbe definire “capitalismo statale”, con forte ruolo di aziende e banche controllate dallo stato.

Il ruolo del pubblico nello stimolare la crescita economica di un Paese dovrebbe limitarsi alla fornitura di servizi efficaci (educazione, sanità) e ad investimenti in ricerca e sviluppo e in infrastrutture. La storia insegna che un’interferenza elevata del ruolo dello stato nei mercati non porta a crescita nel lungo periodo, ma sfortunatamente un gran numero di paesi emergenti sta ricadendo nello stesso errore.

Il contesto geopolitico internazionale
Al momento esistono diverse situazioni delicate dal punto di vista geopolitico nel mondo. In medio oriente la questione nucleare contrappone Stati Uniti e Israele all’Iran e, dato che sanzioni e negoziazioni fino ad ora non hanno dato risultati incoraggianti, inizia a concretizzarsi la possibilità di un intervento militare americano, con nefaste conseguenze sia in termini umani che sull’economia mondiale. Questa eventualità determinerebbe infatti una repentina impennata del prezzo del petrolio e un effetto a catena di portata globale. Anche i movimenti della “primavera araba” hanno creato un certo scompiglio politico e sociale nell’area mediterranea e mediorientale, causando instabilità. In Siria la guerra civile miete vittime, e lo Yemen è a un passo dallo scivolarvi. Gli Stati Uniti hanno lasciato l’Iraq e la situazione è brevemente ritornata nel caos, così come era accaduto in Afghanistan; completa il quadro l’instabile e confinante Pakistan. In Asia esistono una serie di questioni aperte che stanno assumendo crescente intensità e potrebbero sfociare in confitti militari tra la Cina e le vicine Corea del Nord, Giappone, Filippine e Taiwan, per via di antiche questioni territoriali e il controllo delle esportazioni.

Articolo tratto da una conferenza tenuta al Politecnico di Milano il 6 novembre 2012

Chi è Nouriel Roubini
Roubini , uno degli economisti più rinomati della sua generazione, insegna Economia alla New York University ed è ampiamente conosciuto per la previsione del crollo del mercato immobiliare statunitense e la recessione mondiale del 2008. Nato a Istanbul, in una famiglia di ebrei iraniani, è cresciuto in Italia dove ha frequentato l’univerità Bocconi, per poi trasferirsi ad Harvard negli Stati Uniti dove, nel 1998, ha ottenuto un PhD in economia internazionale. Appassionato ricercatore e stratega, ha elaborato metodi e modelli che consentono di dare un senso alla crisi attuale, ma anche di prepararsi per il futuro: li condivide nella recente pubblicazione Crisis Economics: A Crash Course in the Future of Finance (2011).

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