Editoriale

Sharing Economy o Veterocapitalismo?

Nell’economia della condivisione, che finora ha goduto di consensi molto ampi, cominciano ad apparire alcune “crepe”. Sta emergendo, infatti, un’anima capitalistica che rischia di far sbiadire l’immagine democratica che ne aveva accompagnato la nascita

Pubblicato il 15 Giu 2015

Sharing-economy

@umbertobertele

Umberto Bertelè è autore di “Strategia”, edizioni Egea, 2013. Ha scritto anche la prefazione dell’edizione italiana di “Big Bang Disruption” di Larry Downes e Paul F. Nunes, edizioni Egea, 2014.

La sharing economy, la condivisione cioè di risorse per renderle disponibili a tutti senza che necessariamente ne abbiano il possesso, è un qualcosa che esiste da sempre. Il fenomeno però veramente nuovo, che l’ha portata alla ribalta negli ultimi anni, è lo sviluppo di piattaforme – marketplace – in cui la domanda e l’offerta, analogamente a quanto accade nelle borse, si confrontano direttamente tra loro. Piattaforme i cui gestori, analogamente a Borsa Italiana o Nasdaq, si occupano del funzionamento delle transazioni e dello sviluppo del business, ma – diversamente dal rent-a-car di Hertz o dal Car2Go di Daimler – non devono essere in possesso dei beni che rendono disponibili: con conseguenti profonde differenze negli economics. È stato lo sviluppo della tecnologia a renderne possibile la grandissima crescita: senza Internet una piattaforma come Airbnb, nata nell’era dei PC, sarebbe ancora una normale agenzia immobiliare; senza Internet e gli smartphone Uber e le altre ridesharing company non sarebbero nemmeno nate.

L’idea di sharing economy gode di consensi molto ampi, e non solo da parte dei suoi sempre più numerosi fruitori. Piace agli ambientalisti, perché la condivisione delle risorse riduce il consumo di quelle non rinnovabili e l’inquinamento. Piace a chi, per ideologia politica o convinzione religiosa, non ama l’idea di proprietà. Piace a chi vede nelle piattaforme di scambio uno strumento in grado di mettere “più mercato” nell’economia, liberandola dalle molte incrostazioni corporative cumulatesi nel tempo. Piace a chi considera le piattaforme stesse come uno strumento in grado anche di favorire l’inclusione sociale.

A fronte dell’immagine così fortemente positiva di cui essa gode, però, diverse crepe cominciano ad apparire in quella dei suoi principali interpreti. Non tanto per le reazioni delle categorie (i tassisti piuttosto che gli albergatori) che si vedono minacciate nella stessa esistenza, quanto perché l’anima capitalistica che sempre più emerge con il loro successo – volta a far crescere profitti e valore anche alle spese degli stakeholder che partecipano al processo – fa sbiadire quell’immagine democratica che ne aveva accompagnato la nascita e agevolato il decollo. E colpisce che le accuse di ricalcare le orme dei capitalisti del primo ‘900 non provengano tanto da personaggi alla Landini, ma da testate come WSJ che qualche tempo fa titolava “Uber isn’t the Uber for rides – it’s the Uber for low-wage jobs“.

Il perché questo avvenga è facilmente comprensibile. L’ideale per un marketplace è di poter disporre di risorse sottoutilizzate, remunerabili marginalmente: possessori ad esempio di auto che vedano il lavoro di autisti per UberPop come un modo per arrotondare le proprie entrate; stanze o case sottoutilizzate, che in assenza di Airbnb non renderebbero nulla (o molto meno) ai loro proprietari. Con il tempo e con il successo, però, è cresciuto il numero di coloro che esclusi dal mondo del lavoro hanno visto la possibilità di crearsene uno operando come freelancer a tempo pieno per Uber, talora dopo aver acquistato appositamente (con l’aiuto finanziario di Uber stessa) un’auto, e di coloro che hanno investito (anche indebitandosi) in appartamenti da mettere a totale disposizione di Airbnb: venendosi a trovare gli uni e gli altri alla totale mercè delle due società o dei loro epigoni, che possono scaricare su di essi i cali dei prezzi praticati per fronteggiare la concorrenza o gli aumenti dei prelievi effettuati per essere più attrattivi agli occhi degli investitori.

Il rischio – per il momento ancora teorico – è che le crepe nell’immagine si trasformino in ben più pericolose crepe nella profittabilità e nel valore. Come accadrebbe se la class-action intentata in California da un numero elevato di freelancer per farsi riconoscere employee (con tutti i diritti e i costi connessi) di Uber e di Lyft dovesse avere successo. E se questo inducesse un “effetto domino” negli US e in altri Paesi.

N.d.A. Non penso che sia un tribunale sulla base di vecchie leggi, come accaduto a Milano, a poter decidere la sorte di un servizio innovativo. Penso però sia giusto chiedersi quanto del valore creato dalle imprese sia legato alla loro innovatività e quanto a comportamenti unfair resi poco visibili dalla innovatività dei  loro business model.

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