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Management – Dalla crisi del credito alla crisi dei debiti pubblici europei

Crisi del debito sovrano in Europa: Le dure politiche di risanamento dei conti pubblici messe in atto dai governi non avranno effetti positivi sull’economia reale: la dimensione dei debiti sovrani è ormai talmente grande che il modo di pensare tradizionale appare inadeguato. Un’analisi “fuori dal coro” dello scenario economico attuale

Pubblicato il 01 Lug 2010

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LA TESI
Obiettivo di questo breve saggio è presentare un’analisi della situazione economica mondiale corrente diversa da quella che, almeno apparentemente, sembrano aver adottato i governi dei paesi membri dell’Unione Europea. La tesi che si vuol sostenere è che le politiche di ‘risanamento dei conti pubblici’ di cui si discute ampiamente: a. sono basate su analisi errate della situazione corrente; b. produrranno un peggioramento sensibile delle condizioni economiche in Europa; c. avranno l’effetto di ristabilire flussi di finanziamento certo dei debiti privati e pubblici statunitensi – il cui governo non sembra gradire affatto l’idea del cosiddetto ‘risanamento’ dei propri conti. Incidentalmente: proprio questo sembra essere stato il risultato del G20 di Toronto, tenutosi il 26 e 27 giugno scorsi.

PREMESSA
Quando chi scrive sosteneva, già nell’inverno 2007-2008, che la crisi che al tempo i più chiamavano ‘dei mutui subprime’ avrebbe generato effetti durissimi su crescita e occupazione in tutti i paesi ad alto reddito pro capite, veniva guardato con forte scetticismo(1). In fondo, si trattava di una voce fuori dal coro, un coro i cui cantori magnificavano la potenza ‘dei mercati’ e la loro capacità di restituire al mondo equilibrio e crescita in tempi rapidi. Venne poi la crisi del credito e, a seguire, la ‘Grande Recessione’, espressione molto usata nella pubblicistica anglosassone ma poco da noi dove, si sosteneva e si continua a sostenere, la disoccupazione misurata in percento delle forze di lavoro è più bassa che altrove, dove le banche hanno avuto il buonsenso di non detenere in portafoglio titoli tossici (ma nel suo pezzo di apertura del primo numero di questa rivista Umberto Bertelè ha sottoposto alla considerazione dei lettori anche un’altra ipotesi, che definisce ‘maligna’), dove la resilienza della famosa ‘piccola e media impresa’ mette tutti al riparo dagli scatafasci che colpiscono il resto del mondo. Emma Marcegaglia ha fatto giustizia di queste favole in libera circolazione nella sua relazione al recente congresso annuale di Confindustria, citando numeri veri, peraltro in gran parte di fonte governativa. Problema: chi ricorda come si è sviluppata questa crisi? E, non ricordandolo, come fa chi non ricorda ad identificare scenari di sviluppo (o sottosviluppo) dell’economia mondiale?

LE ORIGINI LONTANE DELLA CRISI
Le origini lontane della crisi hanno ormai una spiegazione ‘di consenso’, cioè largamente condivisa, sulla quale occorre spendere non più di poche parole. Sembra di poter dire che la coincidenza di quattro eventi sia alla base della crisi.

  • Il finanziamento crescente dei disavanzi correnti del governo statunitense da parte delle economie emergenti e della Cina in particolare (circa 1994- 2007).
  • La deregolamentazione del settore dell’intermediazione finanziaria mediante la progressiva eliminazione delle regole fissate nel 1933 mediante il Glass-Steagall Act (circa 1990-1999).
  • L’emergere di metodologie per la distribuzione e la valutazione del rischio del tutto nuove e largamente incomprese, e comunque non regolamentate, dal regolatore (circa fine anni ottanta).
  • La politica monetaria fortemente espansiva adottata a partire dalla cosiddetta ‘crisi delle dotcom’ e continuata per diversi anni per ragioni diverse (circa 2001-2007).

Le difficoltà in cui si trovavano nella prima parte del 2007 tanto le banche commerciali che quelle di investimento vennero poste all’attenzione del grande pubblico all’inizio di agosto di quell’anno, quando una grande banca annunciò pubblicamente che alcuni suoi fondi comuni di investimento trovavano difficoltà a far fronte ai rimborsi di quote richiesti dai loro sottoscrittori. La reazione delle autorità di politica economica fu repentina e, agli occhi di chi scrive, corretta. A reagire immediatamente fu la Banca Centrale Europea, seguita poche ore più tardi da quella statunitense: correttamente, ad una crisi di natura finanziaria e di liquidità si doveva reagire fornendo agli intermediari finanziari liquidità. Si poteva discutere, e si discusse, sulla quantità, sulle forme, sul costo: ma la sostanza dell’intervento non venne mai veramente messa in discussione se non, in maniera anche massiccia, negli Stati Uniti, dove si andava sviluppando un movimento d’opinione che riusciva a trovar udienza in Congresso e che sosteneva che ‘salvare le banche’ non era la sola strategia possibile, e che almeno un’altra ne esisteva: ‘salvare i mutuatari’ e, con loro, l’economia reale. Nella prima fase della crisi, quella cioè in cui, giusto o sbagliato che fosse, si scelse di salvare il sistema finanziario, la risposta della politica economica non poteva che essere di tipo (prevalentemente) monetario. Questo intervento prese inizialmente la forma di iniezioni di liquidità di dimensioni inaudite nel sistema bancario mondiale: erano poche le vestali dell’ortodossia monetaria che, di fronte al pericolo di un crollo puro e semplice del sistema bancario e finanziario, si preoccupavano dei potenziali effetti inflazionistici dell’espansione monetaria. Lo stesso Financial Times, tradizionalmente guardiano attento dell’ortodossia, abbandonava le posizioni tradizionali. Del resto, sarà bene ripeterlo ancora, inflazione non se ne vedeva. Né se ne vede.

Che la politica monetaria sarebbe stata sufficiente, forse, a salvare il sistema finanziario, era possibile; ma era chiaro a tutti che la Grande Recessione andava affrontata con i mezzi tipici della politica fiscale antirecessiva. Questo passaggio dalla politica monetaria avvenne gradualmente. Inizialmente, a partire dalla primavera del 2009, il mix di politica economica si veniva arricchendo con dosi crescenti di interventi dell’autorità fiscale. Ma si trattava di un intervento fiscale di tipo particolare, niente affatto mirato allo stimolo della domanda di beni e servizi, cioè ad una azione anticiclica di stampo ortodossamente Keynesiano. Piuttosto, si trattava di spesa pubblica per l’acquisto, il salvataggio, l’erogazione di sussidi a (e/o la nazionalizzazione di) imprese finanziarie in difficoltà che, per ragioni ancora largamente dibattute, vennero in parte ‘salvate’ ed in parte no. In quel periodo la coppia Bernanke (Banca Centrale) – Paulson (Tesoro) sembrava inseparabile; insieme, il presidente della Banca Centrale e il ministro del Tesoro venivano delineando misure sempre più originali, caratterizzate da interventi non ortodossi tanto del Tesoro che della Banca Centrale. Assistemmo a cose fino ad allora inimmaginabili: la vendita di Bear Sterns e di Merrill Lynch, il rifiuto delle autorità di politica economica statunitense di adottare la stessa soluzione per Lehman Brothers, la fine delle banche di investimento, la nazionalizzazione di AIG, l’acquisto da parte della Banca Centrale di titoli tossici. Ma le misure di natura (prevalentemente) monetaria mostravano un’efficacia drammaticamente bassa quanto al tentativo di fermare, se non invertire, il processo che stava costruendo la Grande Recessione. E nel novembre 2008 il Governo cinese, uno dei primi tra i governi G20, deliberava una spesa straordinaria di 586 miliardi di dollari, da finanziarsi in disavanzo e indirizzata in prevalenza al potenziamento delle infrastrutture.

Nel febbraio 2009 il Congresso degli Stati uniti approvava un aumento del deficit federale per 787 miliardi di dollari, parte destinata alla riduzione del carico fiscale sulle famiglie e sulle imprese, parte destinata a finanziare spesa per la Sanità, le infrastrutture, le energie rinnovabili. Anche in questo caso, pochissimi coloro che se la sentivano di mantenere posizioni da ‘bilancio in pareggio’ che pure avevano mantenuto per anni. Di nuovo, il Financial Times titolava che prima o poi si sarebbe dovuto tornare a politiche di bilancio più tradizionali ma, please, non ancora, o si sarebbe rischiato di schiacciare la ripresa nascente. Sapevamo che lo stimolo fiscale cui quasi tutti i governi al mondo contribuirono per rallentare e, sperabilmente, bloccare la Grande Recessione, era di dimensioni nuove e inaudite. Di conseguenza, chi scrive riteneva che la ripresa ci sarebbe stata: lenta, ineguale, spumeggiante nei paesi emergenti e molto più debole in molti paesi ad alto reddito pro capite, senza inflazione, con tassi di disoccupazione ostinati e sostanzialmente fermi ai livelli del 2009 per molto tempo ancora. Ciò che non aveva previsto, invece, era l’attacco contro l’euro che si sarebbe scatenato a partire dall’autunno del 2009.

LA CRISI DEI DEBITI SOVRANI
Le prime due fasi della crisi si erano dunque svolte secondo copione: banche centrali e governi di tutto il mondo si erano impegnati in una battaglia senza precedenti per salvare le banche prima, e poi per ridare al sistema reale, quello della produzione, del consumo, degli investimenti, quegli stimoli che le banche avevano azzerato quando preferivano depositare in banca centrale la liquidità presa a prestito piuttosto che fornirla, con profitto, si intende, al sistema produttivo. Come diretta conseguenza di ciò, la dimensione dei disavanzi correnti di quasi tutti i paesi al mondo nel 2009 (e nel 2010, e nel 2011, e nel…) cresceva fino a livelli mai toccati prima. A mò di esempio: si ricorderà che nel 1992 il governo italiano esibiva un disavanzo corrente del 10,6% rispetto al prodotto interno lordo, e che questo numero veniva considerato il segno di un quasi-crollo: tanto è vero che la lira si svalutò in un batter d’occhi del 30% contro il marco tedesco, mentre il nostro governo (e, non capirò mai perché, il nostro paese) veniva additato al pubblico ludibrio. Oggi, quello stesso rapporto vale per il governo degli Stati Uniti. Come ho argomentato già nel febbraio scorso2, la terza fase della crisi venne scatenata da una azione della famosa agenzia di valutazione Fitch la quale, il 22 ottobre 2009, declassava il debito sovrano greco. Feci notare a quel tempo che i tempi dell’operazione erano quanto mai sospetti: soltanto il 5 ottobre il presidente del governo uscente aveva ammesso la vittoria della controparte, e il nuovo governo non aveva avuto neanche il tempo di porre mano alla verifica dello stato riteneva che lo sarebbero stati in un futuro non troppo lontano. L’uso del termine ‘dibattito’ è forse fuorviante: un ‘dibattito’ prevede una qualche sorta di equilibrio tra le voci in campo, se non per dimensione almeno per dignità dei dibattenti. La tesi che veniva imposta da media e professionisti di varie estrazioni è banalmente quella che le vestali dell’ortodossia erano venute sostenendo per decenni prima della crisi: un governo con un deficit corrente e/o un dei conti pubblici.

Da quel momento, il dibattito ha preso una direzione che ha dell’incredibile: quella della necessità che il Governo sovrano greco adottasse politiche fiscali disumanamente restrittive; che Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna dovessero seguire rapidamente la stessa strategia, o perché i loro disavanzi correnti, o i loro debiti, erano ‘eccessivi,’ o perché si debito alto rispetto al prodotto interno lordo del paese che governa deve rapidamente ‘rimettere ordine’ nei propri conti, pena la perdita di credibilità del proprio ruolo di debitore e il dover sottostare a una domanda in caduta libera dei propri titoli di debito. In assenza di misure di risanamento efficaci e credibili, prezzi bassi per il debito sovrano, rendimenti crescenti, deficit secondario fuori controllo, necessità di ridurre il deficit primario, ergo tagli alla spesa e/o aumento del prelievo. Ma poi, perché proprio il governo greco? I grafici mostrano con chiarezza che il debito greco non presentava affatto caratteristiche diverse da quelli di tanti altri paesi. Chi scrive è tra coloro che approvarono la famosa manovra da 170.000 miliardi di lire adottata dal primo Governo Prodi, il cui scopo era ovviamente di creare le condizioni perché l’Italia potesse entrare a far parte dell’area euro. Scopo nobile, dunque, i cui benefici non è il caso di riassumere qui oggi, ma il cui costo non poteva essere, e non fu, nascosto: una recessione feroce. Ma applicare la stessa ricetta oggi sarebbe suicida, perché le condizioni sono cambiate drammaticamente e ciò cha andava bene 13 anni or sono oggi non va più bene. Provo ad illustrare sinteticamente il punto centrale della mia argomentazione.

Trovo la posizione assunta dai governi europei semplicemente sbalorditiva. Per almeno due ragioni. La prima è che non capisco per quale ragione occorra indurre una recessione durissima quando lo stato dell’economia è già di per sé assai problematico – e non perché i greci, gli italiani o chissà chi altro abbiano vissuto al di sopra dei propri mezzi, ma perché il sistema bancario e finanziario internazionale ha generato, e continua a generare, enormi profitti a spese dell’apparato produttivo e dei risparmiatori. La seconda è che anche da parte di economisti di valore si è spesso accettata l’idea che la riduzione del disavanzo pubblico in rapporto al prodotto interno lordo farà guadagnare di reputazione ai governi in carica, quantomeno agli occhi di chi la reputazione la misura. La teoria a fondamento della difesa della recessione è agevolmente riassumibile. Dal lato della domanda di beni e servizi, la prospettiva di debiti pubblici in via di riduzione fa migliorare le aspettative di consumatori e imprese i quali, di conseguenza, attivano piani di spesa (per consumi e investimenti) che avevano congelato quando dovevano finanziare la spesa pubblica. Dal lato dell’offerta, le condizioni fiscali più stringenti fanno presumibilmente aumentare l’offerta di lavoro, con ciò inducendo una caduta dei salari, e forse anche di competenze imprenditoriali. Ovviamente, non vi è chi non veda gli effetti recessivi di queste politiche. Provo a spiegare perché questo punto di vista è errato al limite del ridicolo, cominciando con un esempio numerico applicato al caso del governo italiano, ma lo stesso identico modo di ragionare vale per tutti i governi al mondo. Supponiamo sia vero che nel 2009 in Italia il il valore del pil a prezzi correnti sia stato di 1520 milioni di euro, il deficit di 80,800 milioni di euro (5,3%del pil) e il debito di 1760 milioni (fonte: Ministero del Tesoro).

La cosiddetta ‘manovra fiscale’ attualmente in discussione prevede una diminuzione del deficit corrente di circa 12 milioni/anno per due anni. Quesito: quanti anni servono per azzerare il debito a questa velocità? E soprattutto: visto che i governi di tutti i paesi dell’area euro sembrano condividere questa strategia, quale governo verrà premiato per primo e di più, quello che avrà generato la recessione più dura? A questo quesito ci si sente rispondere nei seguenti modi:

  • ‘Ma se mai si comincia, mai si finisce.’
  • ‘Spesso basta un segnale.’
  • ‘Si però se tutti facessero il loro sforzo…’

Non ritengo di dover commentare. La tabella offre alla considerazione del lettore alcune proiezioni circa il valore futuro atteso di deficit, deficit depurato delle variazioni dovute al ciclo economico, e debiti totali dei governi dei paesi e aree geografiche riportati in prima colonna, in percento dei rispettivi pil. La lezione da trarsi da questo banale esempio numerico è semplice: la dimensione dei debiti sovrani è talmente grande che il nostro modo di pensare tradizionale non è più adeguato. Qual è esattamente il contributo che offre all’economia mondiale il Governo Merkel quando annuncia tagli alla spesa e maggior prelievo per un totale di 80 miliardi di euro? E a quanto ammonterebbe il ‘guadagno di efficienza’ che finalmente raggiungerà il notoriamente inefficiente governo tedesco mediante il taglio di 15.000 posti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni? E quale il contributo del governo Cameron, con il taglio immediato di spese per ben 6 miliardi di sterline? I tassi di crescita previsti per i paesi della UE e dell’UEM in particolare non sono esaltanti. Per l’Italia, poi, la previsione di un tasso di crescita dello 0,6% (FMI, 21 aprile 2010) è già obsoleta, visto che si stima che il taglio di spese per 24 miliardi di euro avrà un effetto recessivo dell’ordine dello 0,6% del pil: ergo, crescita zero. Garantita. E non vi è ragione di ritenere che le politiche recessive adottate da tanti altri paesi avranno effetti altri da quelli desiderati. Una spiegazione più teorica delle ragioni per cui le politiche adottate dai governi saranno drammaticamente recessive è facilmente riassumibile. Se il governo nazionale riduce l’eccesso di spese sulle entrate, allora due cose debbono necessariamente verificarsi: la spesa privata deve aumentare e le esportazioni nette debbono aumentare. È un problema contabile, deve essere così. Ma da dove verrebbe la domanda di esportazioni in questa fase? Tutta dai paesi emergenti? O si immagina un deprezzamento dell’euro tale da rilanciare la competitività di prezzo delle esportazioni europee? Ne dubito: in un mondo in cui le catene produttive sono fortemente integrate a livello globale, un deprezzamento dell’euro si traduce anche necessariamente in costi crescenti per l’approvvigionamento di semilavorati e beni intermedi acquisiti all’estero.

E la domanda interna, da che cosa attingerebbe vigore? Certamente non da tassi di interesse in caduta, essendo essi già bassi al punto che molti parlano di ‘trappola della liquidità’. Ma un quesito deve sorgere a questo punto nella mente di chi sta seguendo questi pensieri tanto minoritari: e dove sono le misure di risanamento del deficit cinese? E di quello statunitense? Come mai mancano all’appello delle vestali del bilancio in pareggio proprio i due paesi con i debiti maggiori al mondo? L’ipotesi con cui voglio avviare questa riflessione conclusiva è questa: che il ‘problema del debito’ non sia affatto un problema ‘del debito’, formulazione questa che offre la certezza che esista un problema in quanto tale, un male in sé, una cosa brutta, e brutta per tutti allo stesso modo e nello stesso senso. Esiste, piuttosto, un problema ‘dei debiti’, ciascun governo con il suo, con le sue caratteristiche, con le sue forze e i suoi punti deboli, in particolare ciascuno percepito in modo diverso dal sistema bancario che finanzia quei debiti, e che da quei debiti deriva una parte importante dei propri profitti. Oggi la somma dei debiti sovrani è grande quanto mai prima. Chi può finanziarla? La Cina e le altre economie emergenti che spesso accomuniamo alla Cina hanno fatto per molti anni la loro parte nel finanziamento del debito Usa (pubblico e privato) e continueranno certamente a farlo, ma appare probabile che non lo faranno a tassi crescenti, avendo cominciato a dedicare attenzione alla necessità di soddisfare la domanda dei residenti piuttosto che quella dei loro clienti esteri. L’Africa? Molto si è cominciato a parlare di Africa e delle sue potenzialità negli ultimi mesi, e pochi più di chi scrive vorrebbero vedere lo sviluppo sostenuto di cui alcuni parlano: ma, sperando che così sia, i governi africani saranno emettitori di debito, e non sottoscrittori. Gli Stati uniti? Tutta la storia post-Seconda Guerra Mondiale mostra che questo è un ruolo che nessuno ama negli Usa, non le imprese, non i consumatori, non il governo. Non rimane, dunque, che la vecchia Europa, ricca abbastanza da poter sostenere quella caduta sostenuta dei redditi che consegue alle politiche recessive cosiddette ‘di risanamento.’ Queste politiche avranno, oltre agli effetti recessivi interni, anche effetti positivi importanti per il riequilibrio dell’economia mondiale: libereranno capitale finanziario fino ad ora assorbito dai governi europei e lo dirotteranno verso il finanziamento del debito Usa, vuoi per il finanziamento della estensione dell’assistenza sanitari, vuoi per il finanziamento della estensione della presenza militare Usa in Afghanistan.

IN SINTESI
A partire dalla seconda metà del 2009 l’economia mondiale cominciava a dare segnali di ripresa deboli ma incoraggianti. Ripresa discontinua, dai caratteri talvolta congiunturali e talvolta strutturali, in assenza totale di inflazione e di disoccupazione persistente, sbilanciatissima a favore delle economie emergenti da un lato e degli Stati Uniti dall’altro. Ma pur sempre ripresa. L’attacco ai debiti dei paesi dell’area euro e, quindi, all’euro stesso, hanno inferto alla dinamica prevista un mutamento di rotta non da poco. Le autorità di politica fiscale dei paesi dell’area hanno accettato di seguire politiche fiscali restrittive allo scopo di liberare capitale finanziario che, in principio, potrebbe andare a finanziare tanto la domanda di capitale pubblica che quella privata. Chi scrive ritiene che le politiche recessive adottate dai governi dei paesi dell’area euro beneficeranno imprese, consumatori e governo Usa nella misura in cui libereranno capitale finanziario che andrà ad alimentare le attività del paese consumatore di ultima istanza. In nome di quale Europa? Infine, una breve nota sugli effetti che le politiche sopra descritte avranno sul settore di maggiore interesse per coloro cui questa rivista si rivolge prioritariamente. Gli anni a venire saranno anni caratterizzati da ristrutturazioni importanti tanto nel settore manifatturiero che in quello dei servizi. Fasi importanti di processi produttivi continueranno ad essere spostate nelle economie emergenti. Le imprese dovranno adottare piani di rilancio della produttività e di penetrazioni su mercati nuovi e sempre più differenziati. Agli occhi di chi scrive, nel quadro della recessione che i governanti europei stanno cercando di imporre all’economia, le prospettive per il settore ICT sono tutt’altro che negative.

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